Il metodo buffo
Troppo sarcasmo contro Stefano Fassina: siamo passati dal metodo Boffo al metodo buffo, per cui molti se la prendono con lui, ma non con il segretario, di cui Fassina per altro è da sempre uno dei più stretti collaboratori, e a cui spetta il compito della sintesi politica. Ci vuole coraggio, non maldicenza, sono cose diverse. Molto.
I nostri elettori, fin dall’età della pietra, pensano una cosa e una soltanto: ma se non riusciamo a fare sintesi tra di noi, come possiamo immaginare di governare il Paese? Perché la forza di governo del futuro dovrebbe essere il Pd, vero?
La verità è semplice e sotto gli occhi di tutti (quelli che non sono dirigenti del Pd): la crisi e l’indignazione avevano dato spazio ad argomenti più di sinistra, il governo Monti sembra dare fiato alle voci più liberali del centrosinistra. Una forza politica dovrebbe dimostrare, in entrambi i casi, maggiore equilibrio. Anche perché la palestra Monti è molto più impegnativa della fase di opposizione a sportellate a cui siamo stati abituati da molti anni a questa parte. E non si può d’altra parte pensare che il Pd si limiti a ratificare le decisioni del governo attualmente in carica, senza aprire una dialettica in termini tecnici e politici, come conviene al primo partito del Paese. E al futuro suo e del Paese, appunto.
Gli argomenti non mancano e vanno in molti casi precisati. Con un po’ di esercizio di vero pluralismo e con la capacità, alla fine, di prendere una posizione che sia insieme credibile e riconoscibile. Sulle pensioni, dove pare molto equilibrata la posizione del governo, nelle parole di Fornero e del premier. Sul mercato del lavoro, dove c’è parecchio da fare per un’intera generazione e ci sono molti aspetti da considerare. Sulla patrimoniale, che va programmata per il futuro, se non si dovesse poter fare immediatamente. Su altri temi, come la lotta all’evasione e come la spending review, dove il Pd può dire la propria, anche alla luce di precedenti esperienze di governo.
Il mio consiglio è quello di evitare di far precipitare le cose e di abbandonarci a guerre di religione che fanno un po’ sorridere, anche perché non possiamo sapere che cosa farà il governo Monti. Intendo dire che cosa vorrà fare e cosa potrà fare, che non sono affatto la stessa cosa.
Prima di chiedere la convocazione di un congresso, sarebbe il caso perciò di convocare una direzione del partito, perché l’ultima volta che ci siamo incontrati è stato un secolo fa. Nell’era prima di Monti (a.M.). E pensare a come impostare il lavoro con questo governo e per il futuro (p.M.). Quando il Pd andrà al governo “in prima persona” passando attraverso la “porta principale” delle elezioni politiche.
Chiedendo a Bersani non le dimissioni sue e degli uomini a lui più vicini, ma di provare a fare il Pd (sarebbe ora), trovando una misura che ancora manca, dando all’azione del partito un profilo che sia comprensibile, creando le condizioni per un dibattito meno rancoroso e più concreto. Senza forzare la mano, perché in questo momento non ce lo potremmo nemmeno permettere. E lo sappiamo. E facciamo molto ridere, con il nostro piccolo mondo. Che era già antico prima, figuriamoci ora.
P.S.: una precisazione importante per i cultori della materia, ripresa più diffusamente qui: è vero, il Pd ha celebrato solo pochi mesi fa una conferenza programmatica – anche sui nomi che diamo alle cose che facciamo, ci sarebbe da riflettere – da cui è uscita una linea, che Fassina è autorizzato a rappresentare in quanto responsabile del partito proprio in materia di economia e lavoro. Al tempo stesso, è pur vero che, in quell’occasione, la conferenza produsse due documenti, quello approvato e un altro, molto diverso, firmato proprio da Ichino. Fu lo stesso Bersani, a chiedere a Ichino di ritirarsi, per non «spaccare il partito», ed è quindi molto discutibile, oggi, parlare del documento approvato rivendicandone l’unanimità. D’altra parte, è altrettanto difficile dire cosa sarebbe successo se Ichino avesse messo ai voti il suo lavoro, ma è facile immaginare che, pur risultando in minoranza, avrebbe raccolto un ampio numero di consensi, ed è quindi anche una sua responsabilità, l’aver accettato di ritirarsi in buon ordine allora, per poi riemergere oggi abbondantemente fuori tempo massimo.
Ma questo è solo un esempio del complicato e pletorico meccanismo di discussione che il Pd si è dato: pesante, poco comprensibile, e poco interessante, se non per un ristretto numero di addetti ai lavori. Soprattutto, poco leggibile dai nostri elettori, che faticano a spiegarsi come sia possibile che i leader del Pd si esprimano sempre in modo tanto dissonante.
Sarebbe davvero un fallimento ritrovarci costretti, alla fine, a dare ragione ai pessimisti, quelli che da sempre sostengono l’impossibilità di far coesistere culture politiche differenti: è una scelta, ma significa anche tornare alla frammentazione, ai partitini, fare insomma un gigantesco passo indietro rispetto a quell’unità che i nostri elettori, molto più maturi dei suoi rappresentanti, hanno ampiamente dimostrato di volere, fortissimamente. In ogni caso, ben diversa dall’unanimità concordata a tavolino di questo Pd (che ‘salta’ alla prima difficoltà), l’unità non è una condizione di partenza, un modo per rimandare dibattiti presto o tardi inevitabili, ma è piuttosto un punto d’arrivo. E può coincidere anche con la vittoria alle elezioni di un partito di governo. Non solo a parole.