Guerra e pace
«Differenze ci sono, per questo mi “colpisce” l’uso delle parole, anche quando sono le stesse il senso non lo è».
Lo scrive Antonella su Twitter, e «colpisce» me, che sono mesi che cerco una formulazione così.
Il problema è che non c’è solo un problema, ce ne sono molti.
Che Bersani ha dato risposte pessime a Renzi, e totalmente inadeguate. Che ci mancava solo il dibattito sugli «scalci» degli «asini», in effetti, nell’Italia del 2011, per fare una figura da idioti.
Che Renzi è stato sullo schema del Lingotto 2007 e ha detto le stesse cose della Leopolda 2010, ma le dice con energia. E con la passione che trova in chi ascolta. E ha rotto lo schema, solo un cieco non lo vedrebbe. E lo schema, per di più, è sempre più fragile. E solo chi è dentro lo schema, senza mai guardar fuori, può non rendersene conto.
Che se si dice che «le primarie saranno aperte» il venerdì, non si può dire che «il candidato lo sceglie la direzione del Pd» il sabato.
Che il problema è – come ho cercato, nel mio piccolissimo, di dimostrare – di costruire una politica basata sul confronto, non sulla banalizzazione dell’avversario. Sul rispetto degli altri, delle cose che dicono e dell’impatto che hanno.
Che l’ospitalità è accogliere, ma anche andare a trovare. Fermarsi il tempo necessario, discutere, mandarsi a quel Paese, ma cercare la soluzioni dei problemi. Non un problema da aggiungere a quelli che ci sono già.
Che, insomma, un altro problema è quello di confrontarsi, di esserci, all’insegna di una presenza politica di cui il Paese (e anche il Pd) sente la necessità.
Che lo schema da guerra e pace, è sbagliato. Perché personalmente non sono andato a fare la pace, chez Renzi, ma a chiedere l’interlocuzione politica necessaria. A lui e agli altri. Né Canossa, né Teano, perché eravamo solo in una stazione di Firenze, dove c’eravamo già visti, oltretutto. Sono andato perché chiedo di non avere paura del confronto, e voglio dare il buon esempio, in un dibattito politico devastato dai «carnefici» (anche travestiti da vittime) e dall’«imbecillità».
Che la rivoluzione sta nei gesti, negli atteggiamenti, nell’uso delle parole, appunto.
E che quel Pd di cui tutti parlano senza averlo visto mai, non è né il Pd della chiusura in se stesso, né il Pd in outsourcing, in cui siano quelli fuori a dettare la linea, ma una straordinaria via di mezzo.
Che ci vuole un luogo dove confrontare tutte le cose, e arrivare alla sostanza del problema, in modo democratico, senza farla troppo facile. E però ci vuole anche che chi si candida possa farlo, con i propri voti. Dal basso, verso l’alto.
Ecco che cosa abbiamo inteso dire a Bologna e intendiamo dire con #occupyPd. E anche se sembra assurdo a tanti, è questa la soluzione del problema.
Non finisce qui, insomma, anzi: abbiamo appena iniziato. E il tempo stringe. Ma non per noi, noi no, possiamo andare avanti così tutta la vita. Parlo del Paese. E delle cose da fare.
(la colonna sonora è questa)