Il Paese del Quant’altro
Pensavo di lanciare una pubblica accusa, un movimento popolare di cruschistiirriducibili, un comitato di impavidi zingarelli contro l’uso smodato del “quant’altro” alla fine di qualsiasi frase in lingua italiana. Soprattutto alla fine degli elenchi. Nella vita di tutti i giorni: Marta è andata all’Ikea, ha comprato un tavolino, una poltrona e quant’altro. In politica: ho fatto le riforme, i dossier e quant’altro. Nei rapporti sentimentali: mi hai accusato di averti trascurata, di pensare solo a me stesso e quant’altro!
Cosa sia quel quant’altro, non si sa. Anzi, dichiaratamente non è dato saperlo. Non fosse che stava a Koenigsberg, sarebbe tipo la cosa in sé di Kant. IlQuantaltren. O forse qualcosa di genericamente metafisico. O forse quello che c’è sotto il velo di Maya. E quant’altro.
Quella del “quant’altro” non è una teoria: magari. No, il “quant’altro” è una pratica e, perciò, è molto più invasivo. Anzi, pervasivo. Chi assume il “quant’altro”, e lo abbiamo fatto tutti, anche chi tra noi non ne è consapevole, non misura più nulla, scivola via. Rotola verso conclusioni che non ci sono. Progresso, o più probabilmente, regresso all’infinito. C’è la criminalità, la corruzione e quant’altro. C’è la crisi, la disoccupazione e quant’altro. Il “quant’altro” si impone, prende l’accento su di sé, cancella quello che è stato detto in precedenza, crea suspense per qualcosa che non si dichiara e, alla fine, si sostituisce al significato stesso della proposizione.
Il “quant’altro” sposta e polarizza. Rende indefinito il tutto per annullarlo. Il “quant’altro” vince sempre. Dà speranza: perché c’è sempre un “quant’altro”. Facciamo tristezza, siamo tremendi e quant’altro. Enfatizza, ma non chiarisce, il “quant’altro”. Esagera, ma non spiega perché lo faccia.
Ecco, il “quant’altro” è quello che siamo diventati. Siamo il Paese della lingua che si è persa per sempre. Il Paese del “quant’altro”. E quant’altro.