Vivere e morire a San Siro
Da tempo si parla dello stadio di San Siro per la sua eventuale ma sempre più probabile demolizione. Mentre le discussioni procedono vengono in mente i ricordi legati a quel luogo: ricordi che per alcuni costituiscono anche un motivo per preservarlo, in un modo o nell’altro.
Uno stadio che è li da oltre novant’anni trasuda storia, è un pezzo di città e va oltre le sue squadre, il calcio, lo sport e i concerti. In certi momenti, per altre ragioni, è diventato parte della storia personale di qualcuno. E quando uno stadio di cemento e ferro arriva a tanto — aggiungo io — forse ci sta suggerendo di farne uno nuovo.
Era il 25 aprile del 2004, un giorno di festa in cui giocava tutta la Serie A. L’Inter ospitava la Lazio. Anche se non ci fu nemmeno un gol, le immagini e i momenti di quella prima volta a San Siro a dodici anni sono ancora vive e coloratissime, anche le più insignificanti. Ricordo che il nome di un’azienda di cancelleria era stato storpiato in ogni singolo cartellone pubblicitario e fatto diventare Osama Bin Laden. O che una ragazza con una sciarpa rosa, nero e azzurra si appoggiò con il mento sulla mia spalla come se mi conoscesse bene, ma non l’avevo mai vista prima e comunque voleva solo vedere i giocatori in campo.
Altri ricordi iniziano dal fischio finale, perché quel giorno, la prima volta che mi trovavo lì, un ragazzo che oggi avrebbe avuto più o meno la mia età si gettò da una delle torri mentre il pubblico usciva.
Ci fu un gran movimento, gente che gesticolava e chiamava aiuti in mezzo ad altri che non si erano accorti di nulla. Senza smettere di camminare verso il pullman sentii altri spettatori parlarne mentre si allontanavano. Tornando ai parcheggi qualcuno tra di noi a cui il fatto era stato soltanto raccontato disse che in effetti in quel periodo non era facile essere interisti, o qualcosa del genere.
Tutto si concluse alla partenza verso casa e non rovinò la nostra giornata, ma solo perché avevamo evitato per qualche secondo di vedere il peggio: ne eravamo rimasti in qualche modo estranei. Eppure qualcosa di quella storia è rimasto in tutti questi anni, più insistente del ricordo della partita o della giornata in sé.
Per impulsi inconsci o per il desiderio di ricostruire fatti e storie conosciute quando ancora non potevo capirle, negli anni sono venuto a sapere che era un ragazzo di 26 anni, che forse non era un tifoso e forse non era stato nemmeno a vedere la partita, dato che non fu trovato nessun biglietto. Era il 2004, le barriere esterne di oggi ancora non esistevano e verso la fine delle partite si poteva entrare più o meno liberamente.
Nelle tasche non aveva il biglietto della partita, aveva però una lettera scritta alla fidanzata che i giornali di quei giorni riportarono in parte così: «Quando leggerai queste parole, io sarò lontano. Altre volte ho avuto problemi e mi sono ripreso, adesso non so se ce la farò a uscirne».
Uno stadio è un luogo di contrasti, esagerazioni, stati d’animo capovolti. Un gol segnato per alcuni è un gol subito per altri. Alla felicità per una gran vittoria si oppongono i fischi e la frustrazione per una brutta sconfitta. Ma per qualcosa che non possiamo sapere, forse per la sua lunga storia, o semplicemente perché è un posto dove può succedere, San Siro va oltre tutto questo.
Samuel, così si chiamava, non era stato l’unico a scegliere di morire lì, anzi. In passato era già successo, anche pochi mesi prima. A novembre dell’anno precedente, verso l’intervallo di Inter-Ancona, un uomo di 54 anni si era gettato dalle rampe tra il secondo e il terzo anello. Secondo i giornali Giuseppe F. tifava Milan ma per motivi che non sappiamo, forse perché semplicemente gli piaceva stare lì, era solito andare a San Siro anche quando giocava l’Inter.
In fondo all’articolo di quel giorno sull’edizione milanese di Repubblica furono riportate le testimonianze di alcuni tifosi: «Non è il primo caso di suicidio allo stadio Meazza. Anche i tifosi lo ricordano: “Qualche anno fa un ragazzo di diciannove anni si era gettato da una delle torri. Era un alpino, faceva il servizio militare in Piemonte”. Proprio come aveva fatto qualche anno dopo un uomo di 63 anni. Nel 1999 un altro giovane, di 28 anni, si era lanciato dal terzo anello”».
Tra queste si conosce ed è diversa da tutte le altre la storia di Massimo, un ragazzo neanche ventenne che una notte di giugno del 1994, a pochi giorni degli esami di maturità che credeva di non raggiungere, o non superare, prese la macchina e guidò fino a Milano come aveva fatto altre volte per andare a vedere l’Inter. Solo che erano le due di notte passate: parcheggiò nel piazzale deserto, scavalcò i cancelli e salì in cima a una delle torri. Fu trovato la mattina dopo, con la maglia dell’Inter e la tessera dello stadio in tasca.
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