La notte in cui Berry mi parlò con gli occhi
Erano stati in tanti a contendersi il primato. Certo, c’era stato Bill Haley. Insieme a Jerry Lee Lewis, Little Richards e tutti gli altri. Ma fu dopo di lui che tutto cambiò. Parole, musica, ritmo, movenze. Alla base di qualunque albero genealogico del riff ci sarebbe stato sempre il suo nome. Se Haley aveva inventato la grammatica del rock, la sintassi aveva solo la sua firma. Perché le frasi che tutti avrebbero usato da quel momento in poi le avrebbero rubate solo a lui. Era l’uomo che aveva inventato il rock and roll. Come lo intendiamo noi. E una notte accadde che mi imbattei in lui. Fu un momento semplice e straordinario. Come le sue canzoni. Ma non sarebbe mai accaduto se non ci fossimo trovati entrambi nello stesso momento sopra quella esile coordinata. E su questo incrocio magico ci arrivammo dopo dieci snodi e due scelte. Che iniziarono a Chicago, durante il proibizionismo, quando due fratelli di origini polacche decisero di darsi al contrabbando. Fu il primo snodo.
Si chiamavano Leonard e Phill (in realtà Lejzor e Fiszel). Con il gruzzolo delle loro malefatte misero in piedi un paio di locali e in seguito rilevarono un’etichetta discografica che da “Aristocrat” ribattezzarono con il loro nome, “Chess” (in realtà Czyz). Secondo snodo.
Il loro destino si incrociò con quello di un uomo che cambiò la storia di un genere, il blues. La nonna, quando da bambino si gettava nelle pozzanghere, lo chiamava Muddy Waters. E con quel nome si consegnò prima ai Chess, poi all’immortalità. L’incontro fece la fortuna di entrambi. Terzo snodo.
Una sera l’ormai epico Waters entrò al Cosmopolitan di Saint Louis e venne folgorato dall’uomo che si agitava sul palco. Al termine del concerto gli si avvicinò. «Sei in gamba – disse – dovresti venire a trovarmi a Chicago». Quarto snodo. Pausa.
Quel ragazzo ha ventotto anni, due figli, un diploma da parrucchiere e qualche guaio con la legge. Si chiama Charles Berry, si fa chiamare “Chuck”. Non è cresciuto tra i campi di cotone come Waters, suo padre è un diacono battista, sua madre un’insegnante. Nonostante ciò ha dietro le spalle una catena di giunture da far impallidire il peggior balordame di Saint Louis. A diciotto anni ha già rubato un’auto e svaligiato tre negozi di Kansas City. Arrestato per rapina a mano armata, è stato spedito al riformatorio di Algoa, nei pressi di Jefferson City, nel Missouri, dove è riuscito a formare un quartetto vocale. Dieci giorni dopo essere uscito ha sposato Themetta “Toddy” Suggs, la donna con la quale sarebbe rimasto per buona parte della sua vita (“rimasto”, non “rimasto fedele”) e con la quale avrebbe fatto altri due figli. Per mantenerli si è industriato come operaio, meccanico, portinaio e infine estetista. Le sue giornate e i suoi stipendi li chiude al “Cosmo”, con la band di Johnnie Johnson, dove canta principalmente ballate blues. Quando può anche country. Tanto per farsi amici pure i bianchi.
Quella sera però si era fatto amico Waters. «Quando vieni chiamami e portati qualcosa da far ascoltare». Berry si fece prestare un registratore, incise su un nastro prima “Wee Wee Hours”, poi “Ida May” e si mise in viaggio. Quinto snodo.
Per far colpo sui dirigenti della Chess Records Berry fece ascoltare subito “Wee Wee Hours”, un blues canonico ispirato a “Wee Baby Blue” di Big Joe Turner. Leonard Chess però stava cercava qualcosa di nuovo per risollevare la baracca. «Ho un altro pezzo qui», avvertì Berry. Aveva scritto “Ida May” adattando “Ida Red” di Bob Wills and The Texas Playboys, un brano western swing del 1938. Uno di quelli che gli tornava utile per far ballare gli spettatori bianchi. «Però – bofonchiò Chess compiaciuto – una canzone da hillbilly cantata da un nero”. E lo spedì in studio. Questo significava che il colpo Berry l’aveva fatto. E stavolta senza usare una pistola. Sesto snodo.
«Suonala a un ritmo più veloce – gli disse Chess – aggiungeremo basso e maracas». Poi spinse Berry a modificare il testo: «Dobbiamo prenderci i giovani”. Berry ci mise poco a inventarsi la storia di un tipo a bordo di una Ford malandata che inseguiva una ragazza alla guida di una Cadillac. Rimaneva solo il titolo: «Quello che ha è dannatamente campagnolo!». L’attenzione di Berry, che per lavoro maneggiava prodotti di bellezza, venne attirata da una confezione di mascara “Maybelline” abbandonata sul tavolo di una segretaria. «Che ne dice di questo?». Chess sorrise. Quei denti di origine polacca significavano solo una cosa. Cambiò solo una vocale per evitare grane legali. Ed ecco “Maybellene”. Era il 21 maggio del 1955, Chess e Berry avevano appena fondato il loro successo. Settimo snodo.
“Maybellene”, complice l’apporto interessato del disc jokey Alan Freed, venne trasmessa a ripetizione in radio, uscì dai confini di Chicago e raggiunse il milione di copie. Grazie a quel disco la Chess Records piazzò per la prima volta un singolo nella Top Ten della Billboard R’n’B e poté rimanere a galla insieme a tutta la scuderia di artisti al seguito. Ma soprattutto quel disco aveva cambiato un’altra cosa: la vita di Chuck Berry. Ottavo snodo.
Berry non si fermò più. “Roll over Beethoven”, “Rock’n’roll Music”, “Sweet Little Sixteen”, “Carol”, “Memphis, Tennessee”. E “Johnny B. Goode” che, reiventando totalmente un pezzo di Louis Jordan, diventerà una pietra miliare della musica moderna. Bastarono questi sette singoli in un paio di anni per avere il mondo ai suoi piedi. Nono snodo.
Scriveva le sue canzoni con la disinvoltura di chi ha vissuto. Ne aveva viste e sentite tante. Per lui si trattava solo di mettere insieme i pezzi. Fu però il come che lo rese diverso da tutti gli altri. A Berry non si addiceva un solo complemento di modo. Era troppe novità messe insieme. Sapeva suonare, muoversi, raccontare. Nessuno aveva fatto come lui fino a quel momento. E dopo tutti avrebbero fatto solo come lui. La sua voce aggrediva l’aria che respirava e scarcerava messaggi liberatori. La sua musica accelerava il ritmo e allentava i freni inibitori. E poi sul palco ci sapeva fare. Era ammiccante, provocatorio, suonava in ginocchio o su una gamba.
Berry aveva inventato ogni cosa. Aveva portato la chitarra elettrica al centro della scena, le aveva affiancato una presenza scenica travolgente, aveva esaltato le risorse della musica amplificata. E aveva raccontato storie come se fino a quel momento non fossero mai esistite. I suoi versi correvano veloci come treni, parlavano di vita vera ed erano facili da capire. Inventò i giovani – categoria sociale fino ad allora sconosciuta – e li raccontò con storie semplici. Quelle sue parole sincere, ironiche, epiche e rivoluzionarie le poggiava su un groviglio sofisticato di accordi. Perché anche la sua chitarra aveva qualcosa da raccontare: suonava introduzioni, scandiva riff, emetteva frasi e trascinava il suo pubblico fino a quando voleva. Fu il primo rocker a scrivere testi e musica («La musica nasce spontanea nel mio cuore, i testi dalle mie esperienze»). E uno dei pochi che lo avrebbero fatto. «Vorrei saper esprimere i miei sentimenti come fa Chuck Berry», confessò una volta Elvis.
“Johnny B. Goode” era la storia perfetta. Quella di un ragazzo di campagna che riesce a diventare una star grazie alla sua abilità con la chitarra. Era la sua storia. A Saint Louis era nato in Goode Avenue. E inizialmente quel ragazzo era di colore e non di campagna (sostituì “colored boy” con “country boy” per farlo passare alla radio). Era stata la prima hit rock ‘n’ roll che parlava di una star del rock ‘n’ roll. E rimase sempre l’archetipo della narrativa rock. L’esempio perfetto delle sue storie in movimento. La sua sezione ritmica camminava come un treno. E quando qualcuno l’ascoltava sembrava che gli corresse dentro. Non esistevano altri pezzi che facevano sentire così.
Quella canzone (che oggi compie sessant’anni esatti, fu pubblicata il 31 marzo 1958) l’avevano cantata tutti. Gli altri padri fondatori (Bill Haley, Buddy Holly, Jerry Lee Lewis e Elvis Presley), le colonne che lo avevano seguito (The Beatles, Beach Boys, The Grateful Dead, Jimi Hendrix, Led Zeppelin, The Sex Pistols), i mondi a lui lontani (John Denver, Carlos Santana, LL Cool J), i suoi epigoni più estremi (AC/DC, Aerosmith, Bon Jovi, Green Day), i nuovi classici (Bruce Springsteen, Coldplay, Elton John, Prince) e persino gli italiani (Little Tony, Mina, Vasco Rossi, Elio e le Storie Tese).
Ma quel suo viaggio forsennato verso la più sfrenata immortalità fu fermato di nuovo dalla galera, dopo essere stato accusato di essersi intrattenuto con una minorenne. Berry si appellò definendo la sentenza “ingiusta e razzista”. Ma non ci fu verso. Era il 1959. La vita di Berry si arrestò, proprio mentre il mondo iniziava a girare alla velocità delle sue canzoni. Decimo snodo.
Quando uscì, nel 1963, il treno era passato. Tutto era cambiato. Era morto Buddy Holly, Elvis Presley era stato due anni sotto le armi, Little Richard si era ritirato per diventare un predicatore, Jerry Lee Lewis era stato abbandonato dal suo pubblico, Alan Freed, il disc jokey che aveva contribuito al successo di Berry, era stato travolto da uno scandalo e Johnny Cash era già piegato dalla droga. Quello era il tempo della British Invasion. Nei palchi ormai suonavano i Beatles e i Rolling Stones. E in America i giovani impazzivano per i Beach Boys, che avevano semplicemente preso il rock di Berry per farlo diventare altro. La musica ora si chiamava beat o surf. Ma era sempre rock. Ed era proprio il suo.
Con dieci passaggi – grazie a Waters e Chess – Berry aveva inventato e annullato Berry. Non presagì che quel suo rock and roll fosse giunto al termine. Continuava a sentirlo ovunque. Era rigonfio di presunzione e accecato dalla rabbia. Il mondo che vedeva intorno era una sua rappresentazione. Tutti cantavano e si muovevano come lui. Le sue canzoni venivano riprese in continuazione (mentre lui continuava a scriverne, aveva composto “You Never Can Tell” quando era detenuto a Springfield). E i Beach Boys arrivarono a usare spudoratamente la sua “Sweet Little Sixteen” per ricalcarci sopra il loro primo grande successo mondiale: “Surfin’ USA”.
Tuttavia furono proprio i nuovi eroi del rock a riportarlo all’attenzione del pubblico. John Lennon e Keith Richards fecero con lui quello che Truffaut e Rohmer stavano facendo negli stessi anni con Hitchcock. Lo trasformarono in un maestro. «Se volete chiamare il rock in un altro modo chiamatelo Chuck Berry», sintetizzò il concetto Lennon con una frase che sarebbe rimasta il sigillo del rocker. Aggiungendo poi: «Quando sento del buon rock, del calibro di quello di Chuck Berry, cado praticamente in ginocchio. Nient’altro della vita mi interessa. Il mondo potrebbe finire e non me ne importerebbe». Anche Richards sentiva di avere per lui un debito di gratitudine: «Non riuscirò mai a sottolineare la sua importanza nella mia crescita. Ancora oggi rimango affascinato da come un solo uomo abbia potuto scrivere così tante canzoni e cavarsela con grazia ed eleganza». Fino ad ammettere pubblicamente: «Ho rubato ogni singola trovata che Chuck abbia mai suonato alla chitarra». Nel 1987, per i 60 anni del suo idolo, Richards organizzò un concerto, ma le cose sul palco non furono facili. E Berry riuscì a mettere i piedi in testa a uno come Richards. Nonostante ciò il chiarrista degli Stones continuò a venerarlo.
Berry però non abbassò mai la guardia. Lui era il re, quello che aveva aperto la porta a tutti gli altri. E nei confronti di Richards era colmo di rancore perché aveva fondato la carriera degli Stones sui suoi riff rubati. Ma mentre loro cavalcavano un successo planetario, lui annaspava alla ricerca di quei riconoscimenti che il mondo ormai non aveva più voglia di tributargli. Per questo lui quel mondo lì non lo perdonò. E non perse occasione per ribadirlo. «Sì, i Rolling Stones sono una grande band, ma io sono un classico».
Ormai incattivito dalla vita, gli restò una sola arma per sopravvivere. Il suo talento. Gli altri dovevano ancora dimostrare il loro valore, lui l’aveva già fatto. «Io ho scritto e vissuto la storia di questa musica. Tutti si ispirano a me, tutti mi citano. Io invece mi sono fatto da solo, non devo ringraziare nessuno. Tutto ciò che ho me lo sono guadagnato. Non mi hanno regalato mai niente, anzi, hanno sempre cercato di fregarmi per il colore della mia pelle. Se non fossi stato così sarei stato annientato».
Non solo non fu annientato (nel 1972 “My Ding-a-Ling” finì al primo posto delle classifiche pop), ma fu scelto per conquistare altre galassie. Quando nel 1977 vennero lanciate le sonde Voyager in direzione di Giove, Saturno,Urano e Nettuno, a bordo fu inserito un disco placcato in oro, destinato a una possibile vita aliena o alla specie umana del futuro, sul quale furono registrati i suoni rappresentativi del pianeta Terra. Quelli della pioggia, del vento e del mare, il saluto dei suoi abitanti, il primo movimento del “Concerto brandeburghese n. 2” di Bach, un’aria de “Il flauto magico” di Mozart, il canto degli uccellini. E quello di Chuck Berry. In quel solenne biglietto da visita dell’umanità destinato ai confini del sistema solare c’era “Johnny B. Goode”.
È vero, era stato ripreso, copiato, riletto, infinite volte. Le sue canzoni le avevano cantate tutti. Tutti (per dirne qualcuno: i Beatles rifecero “Roll Over Beethoven”, i Motörhead “Let It Rock”, i Rolling Stones “Come On”, gli Yardbirds “Too Much Monkey Business”, gli AC/DC “School Days”, John Lennon eseguì “You Can’t Catch Me”, Jimi Hendrix “Johnny B. Goode”, senza contare quella spassosissima volta in cui Bruce Springsteen a Lipsia improvvisò una memorabile cover di “You never can tell”).
Il suo passo dell’oca (la famosa “Duck Walk”, quindi in realtà “passo dell’anatra”, il movimento oscillante di gamba che aveva inventato per nascondere le pieghe dei pantaloni nel 1956, qui al minuto 1:18) era stato citato in tutti i modi possibili. Era stato adottato da Angus Young degli AC/DC, eseguito da Kevin Klein ne “Il Grande Freddo” o da Micheal J. Fox in “Ritorno al futuro”. Ma il cinema lo aveva omaggiato in continuazione: da Wim Wenders, che lo aveva fatto vedere in “Alice nelle città”, a Tarantino con quella memorabile scena di “Pulp Fiction“, passando per “American Graffiti” di George Lucas.
Con il tempo non fu solo la sua musica ad essere citata, ma il suo stesso nome. Fu invocato dai Red Hot Chili Peppers, in “Backwoods” (“Do you know that from the backwoods where the Chuck Berry‘s grow come your long tall daddies of a rock and roll”), dai Beach Boys, in “Do You Remember” (“Chuck Berry‘s gotta be the greatest thing that’s come along – hum diddy waddy, hum diddy wadda – He made the guitar beats and wrote the all-time greatest song”), da Gilberto Gil, in “Chuck Berry Fields Forever” (“Rock and roll é isso, Chuck Berry fields forever”), da Kid Rock, l’ex marito di Pamela Anderson, in “U Don’t Know Me” (“But check on back ’cause it’s a fact obscenity is no new thing, remember Chuck Berry and when he sang My Ding A Ling”) e da Tom Petty, in “Christmas All Over Again” (“I want a new Rickenbacker guitar, two Fender Bassmans, a Chuck Berry song book”). E quando entri nelle voci degli altri vuol dire che sei un monumento.
E mentre il mondo iniziava a citarlo, lui iniziava a passare da una città all’altra, da un palco all’altro. Senza fermarsi mai. Ma non guardava avanti. Solo dentro se stesso. Trovandoci sempre quel medesimo desiderio di rivalsa che gli faceva macinare chilometri notte dopo notte. Reno, Honolulu, Atlanta, Buffalo, Baltimora, Las Vegas, Detroit, Chicago (senza dimenticare il suo abituale concerto di Saint Louis). Negli Stati Uniti comunicava agli organizzatori di trovargli una band, raggiungeva il teatro da solo, con la sua Gibson 335 amaranto, non faceva prove, non forniva scaletta ed esigeva i soldi prima di suonare. Per i musicisti era dura dover rincorrere testi, ritmi e tonalità. Ma così funzionava. E non si poteva dirgli di no. Era il re. Erano stati necessari dieci snodi perché questo accadesse. Dieci passaggi che insieme al rancore gli avevano permesso di vivere di rendita riciclando di continuo dal bagagliaio.
Quando passò mezzo secolo dai giorni di “Maybelline”, per festeggiare l’ingombrante ricorrenza Chuck Berry si imbarcò nel tour annuale più lungo che avesse intrapreso dagli anni Settanta fino a quel momento: sessantadue tappe. Per quella romana, lanciata in sordina, scelse una cornice insolita – il Teatro Sistina – e una formazione essenziale, composta di soli quattro elementi (basso, chitarra, piano e batteria), nella quale ci aveva infilato mezza famiglia (il figlio Charles jr. alla chitarra e la figlia Ingrid all’armonica).
Sapevo che avrebbe suonato quella sera. Mi trovavo in metropolitana, intento ad assecondare un ordinario ritorno a casa. “È l’uomo che ha inventato il rock ‘n’ roll – mi dicevo – suona nella tua città, non puoi perdertelo”. Così scesi d’impulso a “Barberini”. Mai avrei immaginato a cosa mi avrebbe portato quella decisione. Prima scelta.
Di corsa raggiunsi il “Sistina” e comprai un biglietto. Il concerto doveva essere già iniziato. La sala era piena. Le luci ancora accese. Il pubblico disordinatamente in piedi. Incrociai un paio di amici attori (ora entrambi scrittori) e mi unii a loro. Tra la folla vidi anche Little Tony e Claudio Gregori (Greg, “di” Lilllo). L’unico che doveva essere già sul palco, però, non si vedeva.
La sala si animò. Nessuno era seduto al suo posto. L’atmosfera era allegra e informale. Ma dopo un’ora di Chuck Berry nemmeno l’ombra. Qualcuno disse che aveva avuto un incidente. O una sbronza. O entrambe le cose. Più probabilmente aveva trovato compagnia o aveva litigato con qualcuno. Alla fine mi allontanai dalla pazza folla e mi misi a gironzolare lungo l’atrio desolato. Seconda scelta.
Le casse ormai erano chiuse. Le luci abbassate. Non c’era un’anima. Alla ricerca di non so cosa approfittai della desolazione per osservare gli spazi da punti di vista inusuali. Quella mossa mi portò sulla Luna. Perché fu qui che, sotto i miei occhi, si incrociarono dieci snodi cruciali della storia della musica di quel secolo con il paio di misere scelte di quel povero mortale che io rappresentavo (ma se quei due fratelli di origine polacca non si fossero dati da fare con i distillati e tutto il resto la coordinata spazio temporale nella quale poggiavamo i piedi in quel momento non avrebbe avuto questa tacca).
Da una macchina scese un uomo alto con un cappello da marinaio, la chitarra al collo e la faccia stravolta. Si affacciò nell’atrio con il fiatone. Lo vidi lì, ciondolante, davanti a me. Magro, i capelli dipinti di nero, la camicia di strass rossa. Quel ragazzo che veniva da un’altra era, quel chitarrista che aveva accelerato gli accordi, seguendo l’invito di Waters e i consigli di Chess, era lì. L’uomo che aveva inventato il rock. Era tutto così irreale. Non poteva essere lui. Non sarebbe mai entrato dalla porta dei mortali, con una chitarra ciondolante al collo, senza neppure una custodia, solo, senza uno staff, con un ritardo da fuso orario. Un artista non l’avrebbe mai fatto. Ma lui era diverso da tutti gli altri. E degli altri non aveva bisogno. Era diventato grande da solo. Dopo il carcere lo avevano fatto sentire solo. E una volta uscito aveva continuato a cavarsela da solo. Quella era la vita che si era scelto. E quella scelta, tappa dopo tappa, lo aveva portato in una stanza vuota, davanti a me. Solo perché anche io, nel mio minuscolo spazio di decisione, quella sera lo avevo scelto e, involontariamente, lo avevo trovato.
Urlai “Chuck!”, lasciando scuotere entrambe le braccia in un abbandonato moto di sorpresa. E lo cinsi, incredulo. Lui rise, poi mi guardò smarrito. Con quegli occhi era capace di intenerirti o di ucciderti. Aveva la faccia di un uomo che aveva vissuto mille vite. Ed era rivolta a me. Lo presi sottobraccio e lo guidai per un tragitto che a me sembrò interminabile. Non gli dissi nulla, non gli chiesi niente. Il nostro fu un dialogo muto. Lui aveva il fiatone e sembrava che faticasse a camminare. Mentre lo sostenevo lo guardavo incredulo. Stavo sorreggendo Chuck Berry. Non avevo idea di dove fosse l’entrata per gli artisti, così, terminato il corridoio, lo portai direttamente verso la sala. Scostai la tenda di velluto e ci affacciammo.
L’anarchia nella quale era piombata la sala per un istante si fermò. Fu come se fosse entrato un professore quando ormai sembrava vacanza. Chuck Berry ed io eravamo fermi abbracciati sull’uscio del Sistina di Roma. La scena durò solo un istante. E quell’istante si spense con un boato. Mi staccai subito da lui e gli accompagnai il fianco verso quella che mi sembrò una pedana. Si voltò, mi fece un cenno e salì sul palco, si confuse per un attimo con il sipario scarlatto e raggiunse le quinte.
Credo che nessuno abbia mai fatto un percorso così contorto e assurdo per suonare in un teatro. Entrata principale, corridoio dei comuni mortali, platea, ribalta del palco, retro, camerini, poi di nuovo retro, e, finalmente, palco.
Durante il concerto eseguì tutto il repertorio classico e non deluse nessuno.
Vedere lui fu come sentire i Beatles, gli Stones, Hendrix e tutti quelli venuti dopo di lui. Perché lui stesso li aveva inghiottiti prima ancora che fossero esistiti. Perché, semplicemente, quelli erano figli suoi. Quelle note erano i geni che aveva trasmesso loro. E in quel momento stavano arrivando a tutti noi. Nonostante le sue difficoltà di udito e gli accordi maldestri, Berry era incredibilmente agile e la sua voce ancora viva. Verso la fine l’anarchia si impossessò della sala. Chuck invitò le ragazze a ballare insieme a lui. Io avevo le palme delle mani poggiate sul palco, potevo vedergli la suola delle scarpe, non esisteva ordine ma nemmeno ressa, eravamo tutti a nostro agio, nessuno appariva stressato e ogni cosa era illuminata. Berry un tempo era stato un dio, ma ora forse importava a pochi. Tutti quei pochi, però, erano lì. E avevano solo voglia di essere felici. Come quell’uomo al mio fianco che improvvisamente mi prese la mano, strinse gli occhi, scosse la testa e sorrise. Doveva condividerla quella gioia. Anche per un istante. E per farlo aveva scelto un perfetto sconosciuto. O forse solo la mano che aveva potuto toccare quel dio.
Fu un concerto spensierato, leggero e memorabile. E Chuck fece il passo dell’oca proprio sotto i miei occhi. Tornai a casa a notte fonda dopo aver camminato per un’ora. Contento come un bimbo.
Quella sera qualcosa di infinitamente piccolo si era sfiorato con qualcosa di infinitamente grande attraverso un evento insignificante e trascurabile che solo noi due però avevamo condiviso. La sua storia non era cambiata di una virgola. La mia sì. Ora sembrava una sua canzone. E alla fine mi accorsi che anche se non lo avevo citato come avevano fatto i Beach Boys e tutti gli altri, nella mia insignificanza di mosca in quell’androne deserto ero riuscito a pronunciare il suo nome. E lui mi aveva sentito.
Ma fu la conclusione di quel minuscolo evento che per me divenne solenne. Quando salì il gradino e si voltò appena verso di me ciondolando la testa. Fu un cenno da nulla per una divinità, ma un gesto ciclopico per una esistenza marginale come la mia. Quello fu il momento perfetto. E quella per me fu la notte in cui Chuck Berry, l’uomo che aveva inventato il rock and roll, si voltò per un istante verso di me per dirmi grazie con gli occhi. Quella stessa notte, a bordo del Voyager, la sua “Johnny B. Goode” volò a dieci miliardi di chilometri dal sole.