Se devo chiamarlo col suo nome
Eravamo in fila all’Università. Uno al fianco dell’altro. Di fronte a noi una sterminata colonna di studenti in attesa di interfacciarsi con un monolito. Era il terminale verde, novità assoluta per l’epoca, con il quale ci confrontavamo per creare, verificare o modificare il nostro piano di studi. Eravamo entrambi di “spettacolo”. Era il dipartimento più moderno della Facoltà di Lettere e Filosofia, alla Sapienza di Roma. Quello diretto da Guido Aristarco. Si studiava storia e critica del cinema, storia del teatro, metodologia della critica, c’erano accenni di linguaggio scenico e di grammatica del film. E naturalmente tutto il resto: i tomi immensi di letteratura italiana, la storia moderna, quella dell’arte, quella della musica, estetica, etc. Leggevamo quintali di libri e sapevamo che per noi era una occasione unica, perché non avremmo avuto più la possibilità di andare così a fondo, di essere legittimati a stare per settimane intere davanti a dei volumi aperti. Quei torrenti di parole diventavano intrecci fiammeggianti nelle nostre menti, spalancandole a infinite possibilità.
Erano gli anni della Pantera, del grunge, del primo governo Berlusconi, di “Pulp Fiction” e dei mondiali di Baggio. Noi vedevamo anche cinque film al giorno, uno dopo l’altro. “Il gabinetto del dottor Caligari” di Wiene, “L’uomo con la macchina da presa” di Vertov, “Rapacità” di von Stroheim, “Napoleon” di Gance, “Aurora” di Murnau, “Scarface” di Hawks, “L’Atalante” di Vigo, “Quarto potere” di Welles, “Ladri di biciclette” di De Sica. Maratone diurne nelle sale (d’essai) e notturne (con i VHS) nei tinelli delle case. Tutti volevamo fare i registi. Il cinema era la nostra passione e, allora, la nostra vita. Studiavamo come era stato fatto. Ma, altrove, anche come farlo. Come molti altri avevo frequentato un paio di workshop di sceneggiatura, uno di regia, i corsi di Robert McKee, la scuola di Ermanno Olmi. Ma in pochi avevamo idee forti. Cose organizzate da dire. Però era bello parlarne e se penso a quel periodo ho solo bei ricordi. Avevamo una sete avida di sapere. E la facoltà era una miniera di impulsi. Lezioni che ci incantavano, nottate a studiare e chiacchiere infinite sui prati della città universitaria (su quegli stessi banchi a fianco a noi sedevano Valerio Aprea, Edoardo Leo, Stefano Fresi e molto altro “cinema” che si sarebbe fatto). Passavamo il tempo a scrivere, a prendere appunti su ogni cosa, a fare storyboard, a spiegarci i movimenti di macchina. Blocchetti, foglietti, bigliettini, tovaglioli. Avevamo le tasche piene. Qualche corto lo realizzavamo anche. Magari con una inadeguata Sony Handycam, attaccata sul treppiede di una reflex, fissato su una cassetta della frutta, sotto la quale erano avvitate le ruote. Perché se non c’era una carrellata non era un film. Poi, si diceva sempre, lo avremmo portato in 16mm e gonfiato in 35mm. Tutte cose irrealizzabili. Ma divertenti.
Alcuni di noi un piede sul set lo avevano anche messo. Io avevo respirato l’aria delle stelle e delle stalle. Da un lato produzioni come “La Piovra”, dove regnava l’abbondanza (i cestini erano pranzi di lusso), dall’altro piccoli film italiani, recitati da attori allora oscuri che sarebbero diventati solo in seguito i Luca Zingaretti e i Valerio Mastandrea di adesso. Era l’epoca del minimalismo forzato, il nuovo genere “due vani e cucina” nato, si diceva, per rinnovate esigenze espressive, in realtà in auge solo per biechi motivi produttivi. In questi film si faceva di tutto: lo sceneggiatore, il carrellista, l’ispettore di produzione, l’aiuto regista, il runner, il direttore di produzione. Era una palestra incredibile. Ma era anche sconfortante. Perché quelle pellicole non uscivano mai e quando ce la facevano magari era solo per una settimana della stagione, di solito l’ultima prima dei bagni al mare. Fu in quell’epoca che mi imbattei in tanti personaggi segnati dalla vita, che vivevano di fasti passati (e comunque scadenti), che saltavano i pasti, le rate di un affitto o le bollette della luce. Ma che soprattutto capivano di essere stati messi da parte. O peggio, di non averla mai avuta una parte in quel mondo. Erano inseguitori di destini, incastrati in paradossi zenoniani. Uomini che avevano permesso alle loro illusioni di occupare l’intero spazio della loro unica esistenza. Erano quelli che se gli chiedevi a cosa stavano lavorando rispondevano sempre: “Ho un progetto. Ma sto aspettando anche una risposta per un film in Argentina”. Io vivevo voracemente. Andavo sempre di corsa. Passavo da una vita all’altra, scrivevo cose immonde, fotografavo, dipingevo, assecondavo malamente tutti quei cliché bohémien e un po’ naif (tre francesismi in una volta sola dovrebbero farmi chiudere qui) che caratterizzavano una voglia ingenua di strafare. Non volevo che la mia esistenza fosse come la fila che stavo facendo in quel momento al terminale. Non volevo passare il tempo a inseguire, ad attendere. Volevo vivere. E fare. Così, felicemente, voltai le spalle al cinema per realizzare altro (anche se in quell’ “altro” rimase la sceneggiatura). E fu la mia salvezza.
Non andò così per il ragazzo in fila al mio fianco quel giorno. L’avevo conosciuto seguendo la cattedra di Storia e critica del cinema di Giovanni Spagnoletti, un professore che, dietro una modulazione oratoria apparentemente annoiata, in realtà nascondeva tutto un suo personale eroismo. Perché era bravo. Riuscì a far venire nell’Aula 1, la più grande della facoltà, registi del calibro di Francesco Rosi o Marco Bellocchio (ma anche Dario Argento, i fratelli Taviani o Mario Monicelli per dirne alcuni), solo per farci parlare direttamente con chi stavamo studiando. Perché quei nomi non erano solamente parole scritte sulle pagine dei libri o nei titoli di testa dei film, ma uomini che ne avevano da raccontare. E noi eravamo bramosi di ascoltarli. Al punto che quando non eravamo in facoltà passavamo quasi tutto il tempo al “Palazzo”. Così chiamavamo il Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale. Era la nostra Cinémathèque. Lì ci vedevamo, mangiavamo, ascoltavamo gli autori e soprattutto vedevamo film per pomeriggi interi. Erano gli anni in cui l’edificio, riaperto di fresco, stava vivendo la sua forma migliore. Rassegne intere, come quella di Kieslowski, viste dal primo cortometraggio giovanile fino all’ultima pellicola prodotta, passando magari per i film industriali (dicevamo esaltati: “Visto? L’insetto che muore nel bicchiere viene da qui. E la sensazione di quella donna l’aveva già raccontata. E ancora, quella colonna sonora era stata usata anche prima”. In quel modo capivamo che spesso i registi facevano un unico grande film per tutta la vita). Vedevamo tutto. Integralmente. Ed era una gioia. Sentivo che eravamo dei privilegiati. Fu lì che incontrai Aki Kaurismäki e fu lì che parlai con Wim Wenders.
Erano i mesi di “Heimat 2”, una delle cose più belle che avesse prodotto il cinema. Tredici film per raccontare la cronaca di una giovinezza, quella di un gruppo di artisti dal 1960 al 1970. Dall’inizio dei sogni al loro abbandono. Ne usciva uno a settimana (la Roma cinefila in quei mesi si paralizzò, Nanni Moretti al Sacher faceva il riassunto delle puntate precedenti prima dell’inizio di ogni film, ma se si voleva vederlo senza intro bastava spostarsi a Testaccio, nel poco distante Greenwich) e noialtri eravamo come drogati. Dipendenti. Forse perché quella saga parlava proprio di noi. Spagnoletti lo sapeva e un giorno entrò in aula con Edgar Reitz, il regista tedesco (il professore era innanzitutto un eccellente germanista, figlio, tra l’altro, di Giacinto, lo scrittore che, tra le altre cose, scoprì Alda Merini) e Salome Kammer (nel film Clarissa, la protagonista femminile). Ad accompagnare Reitz era venuto Bernardo Bertolucci, regista che stavamo studiando quell’anno, idolatrato dall’amico che era in fila con me. Vennero accolti da un’ovazione da stadio. Eravamo euforici. Riuscii a scambiare qualche parola con loro al termine della lezione e per me che avevo vent’anni fu come conoscere due divinità (ho ancora il “Castoro” – così si chiamavano le monografie quadrate che andavano per la maggiore – con la firma di entrambi i registi). In uno di questi incontri, in una lezione dedicata a Pasolini, venne anche Laura Betti. Il compagno che era in fila con me si fece avanti con la determinazione degli illuminati. Si presentò e divenne suo amico. Il loro rapporto si consolidò anche per merito del cibo, qualche volta lui cucinava per lei, qualche volta era lei a invitarlo a casa. Ma a tavola non erano soli, perché nella sua cucina passavano di continuo registi, scrittori e artisti. Lui era solo uno studente che non veniva considerato, ma sapeva osservare gli altri.
Quel collega in fila con me era Luca Guadagnino. Era nato a Palermo, era cresciuto in Etiopia ed era tornato in Italia nel 1977 (quando Mènghistu Hailè Mariàm aveva preso il potere). Non sembrava un alieno per questo (l’eterogenia era la cifra di quella facoltà). Eppure era diverso da tutti noi. Allampanato e un po’ scuro di carnagione, aveva due occhi che pareva stessero sprofondando nell’orbita. Ma erano talmente accesi che sapevano emergere caparbiamente dalle sabbie del suo volto. Condividevamo un’amica importante per noi, che era siciliana come lui. Il cinema Luca ce lo aveva dentro da sempre. Diceva di avere visto “Lawrence d’Arabia” a cinque anni, seduto sulle gambe della madre algerina, in una sala di Addis Abeba, dove viveva allora. La sua personale educazione sentimentale si era poi rafforzata con il Thomas Mann dei “Buddenbrook”, consolidata con “La luna” di Bertolucci e conclusa con Dario Argento.
Non amava necessariamente gli autori che tutti noi veneravamo. Avevamo idee differenti su come fare cinema. Ma almeno ci accostavamo a qualunque cosa vedessimo con uno spirito critico, credo, solido, poggiato su centinaia di ore (di visione) e migliaia di pagine (lette intensamente). Non si potevano non amare “Il cinema secondo Hitchcock” di François Truffaut, “Io, Orson Welles” di Peter Bogdanovich, “L’atto di vedere” di Wim Wenders o le “Note sul cinematografo” di Robert Bresson. All’epoca avevo l’impressione, forse sbagliata, che non sopportasse i film (per i ) “borghesi”. Lui, ad ogni modo, non si vergognava di ostentare la sua ammirazione per i fratelli Vanzina, che in quella facoltà erano come una bestemmia. Me ne parlò, ricordo ancora, in Aula 2, ed io rimasi di sasso. Perché la sua testa viaggiava già libera.
Quel giorno, in fila, pronunciò anche lui la fatidica frase: “Ho un progetto”. Era quasi una parola d’ordine per noi. Trattenni quindi per un attimo il fiato. “Voglio fare un corto sulle dita della mano, inquadrarne le pieghe, seguirne i movimenti impercettibili, indugiare sulle vene”. Mi sembrò originale, ma anche assurdo. Poi però aggiunse una cosa che a nessun altro allora sarebbe venuto in mente di dire: “E sopra ci voglio mettere la voce di Tilda Swinton”. Lo guardai come per dire “Ma come ci riesci?”. Lui rispose, con quella cadenza regolata dal suo stesso accento, che non sarebbe stato un problema. La certezza è il sentiero più sicuro che conduce alla realizzazione. E lui, allora, l’aveva già iniziato a percorrere.
Anche l’amico più stretto che avevo in Facoltà era palermitano. Suo padre era inviato di “Repubblica”, lui suonava e sognava di fare il musicista. Invece sarebbe diventato un fotografo fenomenale. Insieme progettavamo i film. Scrivevamo le nostre sceneggiature e le confrontavamo. Passavamo le estati a ragionarci. E le giravamo tra di noi. Erano terribili. Ma era divertente. Eravamo troppo autoriali. Studiavamo la cosa più esaltante accaduta al cinema, la nouvelle vague. E nell’impeto sfrontato della nostra giovinezza pretendevamo di ripeterla. Storie del tipo: un uomo sogna una donna e poi la cerca. Questo per dire il tenore. L’avevo scritta io. Ma solo per il piacere di creare atmosfere. Luca invece pensava alle storie. Storie che poi non sempre avrebbe scritto. Ma che sarebbero diventate comunque sue.
Una volta andò al Festival di Venezia, era il novantatré, e in quei dieci incredibili giorni, vide da spettatore quasi un centinaio di film senza sapere che in seguito sarebbe diventata la vetrina che avrebbe mostrato in anteprima i suoi lavori. Era l’edizione di Peter Weir (il regista che una manciata di anni prima aveva diretto “L’attimo fuggente”, forse la causa inconscia della presenza in quella facoltà della metà di noi). Si concluse con un ex aequo. Il Leone d’oro andò ad “America Oggi” di Robert Altman e a “Tre colori: Film Blu” di Krzysztov Kieslowski. Quando tornò, a proposito del film di Kieslowski (regista per il quale ero invasato), mi disse che quello era un cinema per le signore impellicciate. “Come quella lì”, gridò indicandone una che costeggiava la città universitaria. E dire che un domani lo avrebbero accusato di raccontare solo i ricchi (anche se lui avrebbe spesso distinto i benestanti dagli intellettuali).
Un giorno spedì sul serio la sua sceneggiatura alla Swinton. Era affascinato da lei, era cresciuto con i film di Derek Jarman, quelli che avevano illuminato le notti dell’Inghilterra thatcheriana degli anni Ottanta. Non ebbe risposta. Luca aveva appena fatto un cortometraggio in 16 millimetri che si intitolava “Qui” (con Claudio Gioè e Zita Donini) e ne voleva girare un secondo con Giulio Scarpati. Ma soprattutto voleva che fosse lei a leggere la voce fuori campo. Venne a sapere che si trovava proprio al Palazzo delle Esposizioni e la fermò. Lui era uno studente, lei una star. Apparentemente li separava ogni cosa, compresa l’età. Ma in realtà in quelle poche parole si trovarono. Si guardarono l’uno nello sguardo dell’altra e si riconobbero. Luca scoprì che l’agente di lei non le aveva mai consegnato la sceneggiatura, Tilda lo ascoltò e credette in lui. Subito, anche se era nessuno. Quel corto non lo fecero mai, ma insieme avrebbero realizzato “The Protagonists” (1999), “The Love Factory” (2002), “Io sono l’amore” (2009), “A Bigger Splash” (2015), “Suspiria” (2017).
Ci laureammo nella stessa mattinata, uno dopo l’altro. Lui su Jonathan Demme, io su Alain Resnais. Io in giacca, lui in tuta (prima di noi era stata la volta di Giulio Base, più grande d’età, che aveva già diretto tre film). Il suo futuro era già iniziato.
Eravamo tanti in quegli anni e avremmo preso strade diverse. La mia più cara amica di Lettere sarebbe diventata una illustratrice di “Le Monde”, un mio compagno “situazionista” avrebbe fatto il documentarista, il mio caro amico palermitano sarebbe stato adottato dal “New York Times”, la bibbia di tutte le bibbie, una mia compagna di sceneggiatura sarebbe diventata direttrice della programmazione alla Fox (a lei dobbiamo la scelta di “Lost” nel lontano – da ora e da allora – 2005), l’amica che condividevamo Luca ed io sarebbe diventata un’ottima production manager, prima di cambiare vita. Quasi tutti i nostri destini, in un rocambolesco gioco di incastri, si sarebbero incrociati, avvicinati o sfiorati, almeno una volta nella vita. Lui invece andò da un’altra parte. Lo potevi incontrare in qualche anteprima all’Anica, quando faceva il critico, ed era sempre gentile e sorridente. Ma altrove (il nostro altrove) mai. Per anni visse di stenti. E campò sulle spalle degli amici. Adesso è ricco e famoso. Thom Yorke (la colonna sonora della nostra vita a quei tempi) ha scritto una canzone per il suo film, Tarantino (il genio che esplose quando eravamo all’università, l’ultimo a mettere una tacca, forse quella definitiva, nella storia del cinema che studiavamo) è suo amico, Tilda Swinton è ormai la sorella che si è scelto, mentre lui, il ragazzo che era con me in fila, forse, vincerà l’Oscar. E a questo punto ho quasi l’impressione di avere avuto la possibilità di vedere l’inizio di quel suo unico grande film che oggi è sotto gli occhi di tutti. Se unisco i pezzi di questa piccola storia, infatti, mi rendo conto che la somma di quegli antichi episodi – quel sogno sulla Swinton, quel Palazzo, quelle lezioni, quegli incontri – non solo avrebbe contribuito a delineare un ritratto dell’artista da giovane, ma sarebbe continuata a scorrere nel suo sangue (i suoi miti, Bertolucci, al quale ha dedicato l’ultimo film, oltre che un documentario nato giusto da una iniziale proposta di Spagnoletti, e Argento del quale ha girato il remake di “Suspiria”, li aveva già incontrati proprio in quei giorni), anche adesso che Luca, come quegli ospiti che Spagnoletti faceva entrare in Aula 1, non è più solo un nome sui titoli, ma un uomo che ha qualcosa da raccontare. Ed io sono molto felice per lui. Perché, al di là dei suoi film (che sono stati amati, talvolta fischiati, raramente derisi, spesso acclamati, ora adorati), si è meritato ogni singola briciola dell’esistenza che ha vissuto dopo quei giorni. E se questa talentuosa caparbia devo chiamarla per nome ne trovo uno solo. Il suo.