La donna che morì due volte
A volte è una questione di attimi. Un pensiero improvviso, una immagine casuale, un filmato apparso su uno schermo o una semplice associazione di idee. È in quei momenti che accade. Ci accorgiamo di voler sapere. Scopriamo di avere un impellente bisogno che prima non esisteva. E lo assecondiamo. Subito. È successo anche me, qualche tempo fa. Per uno di quei motivi inattesi, su una di quelle figure di cui ormai non si sente più parlare.
Lei preferiva le pose statuarie per mettere in evidenza la raffinata bellezza del suo collo e per non scomporre le sue leggendarie pettinature. Era l’esaltazione del maggior costumista del tempo, Gino Carlo Sensani, e della stilista delle dive, Maria Antonelli. Ed era la più aristocratica delle attrici del ventennio nero e dei telefoni bianchi, gli unici due colori che avrebbero caratterizzato il suo cinema. Questo ricordavo di lei. L’ho rivista per caso in un film dimenticato che ormai ha superato i settant’anni (La freccia nel fianco, diretta da Alberto Lattuada su sceneggiatura di Alberto Moravia, Ennio Flaiano e Cesare Zavattini, tutti intenti ad adattare il romanzo omonimo di Luciano Zuccoli) e anche se era un’attrice che non avevo mai particolarmente seguito, ho ugualmente sentito il desiderio di conoscere il suo destino. Accingendomi a ricostruire le sue tracce non potevo prevedere che mi sarei trovato dentro una storia sconosciuta, capace di farmi sostare sulla sottile linea che separa chi viene dimenticato da chi vuole farsi dimenticare.
L’aristocratica
A quei tempi, sono gli anni Quaranta, Mariella Lotti (battezzata Anna Maria Pianotti, nome abbandonato poi per quello d’arte) era la diva più acclamata del cinema insieme a Vivi Gioi e Vera Carmi. La fabbrica dei sogni nostrani, Cinecittà, era appena nata (28 aprile 1937). Costruita a tempo di record, in 475 giorni, ostentava quattordici teatri di posa, tre piscine per le riprese acquatiche, quarantamila metri quadrati di strade e piazze, trentacinquemila di giardini che, insieme a un migliaio di dipendenti, facevano invidia a Hollywood. Il cinema era il megafono dell’epoca fascista, ma anche industria. E quindi distrazione. Il grosso della produzione aderiva così al filone della spensieratezza. L’intrattenimento doveva essere propedeutico alla propaganda. Quindi impavidi eroi, certo, ma anche storie leggere, appassionanti, avventurose, melodrammatiche dirette dai Camerini, Blasetti, Gallone, Genina, Castellani, Soldati. Le abitavano molte donne: fatali ingenue, timide, nobili o squattrinate lanciate tutte in avventure sentimentali. Gli uomini – Nazzari, Giachetti, Valenti, Cervi, De Sica, Villa, Girotti – erano leali, virili, galanti. Sorrisi candidi, frac e brillantina. Le grandi dive del periodo erano more e in carne. Dovevano conquistare gli uomini ma anche allevare i figli. Mariella Lotti non rientrava in questo canone estetico: era alta, magra, bionda. Eppure piaceva per quel suo essere così altera e fascinosa. La definivano aristocratica, forse perché i ruoli di principessa e nobildonna erano sempre suoi. Eppure fu capace di raggiungere la sua vetta più alta in un film come Fari nella nebbia (1942, Franciolini) calandosi perfettamente nel ruolo della moglie di un camionista, inquieta e volgare, che insegue i suoi amori fuori dal matrimonio. Quarantaquattro film in una dozzina di anni. Una enormità. La diressero i più grandi: Mario Bonnard, Enrico Guazzoni, Alessandro Blasetti, Camillo Mastrocinque, Luigi Zampa, Raffaello Matarazzo. A teatro, per due volte, Luchino Visconti. Recitò al fianco di Amedeo Nazzari, Massimo Girotti e Gino Cervi. Affrontò i classici per grandi (“I fratelli Karamazov” di Gentilomo) e piccoli (“Le avventure di Pinocchio”, nel quale era la fatina, diretta da Guardone). Tra molte dovute leggerezze fermò il tempo in un pugno di pellicole che in qualche modo hanno fatto parte della storia del cinema. Su tutte i citati Fari nella nebbia e La freccia nel fianco.
La Diva e il Re
Il secondo conflitto bellico si impose in mezzo alla sua carriera, iniziata nel 1938. Non arrestò la sua ascesa (riuscì a girare venti film), ma di certo modificò il corso della sua vita. Scopro su un numero di France Dimanche di settant’anni fa uno scorcio di storia che mi manca. Trovo altri pezzi della sua esistenza su testate rumene. Incrocio date e dati con le informazioni che ho, unisco le tessere del puzzle e ho l’impressione di ricostruire una parte sconosciuta della sua vita. Nel 1939 si recò in Romania per una turnè. La stella italiana diede la sua prima performance al galà del Teatro Reale di Bucarest. La notò Michele di Hohenzollern-Sigmaringen, il principe ereditario. Era il 19 ottobre. Diva e principe avevano la stessa età. La settimana dopo, il 25, lui festeggiò i 18 anni, un compleanno che significava un seggio al Senato, secondo quanto previsto dalla sua Costituzione. Mariella ottenne da lui l’autorizzazione per essere invitata alla corte reale. Ballarono insieme tutta la notte. Fu il loro inizio.
Terminato il film, Mariella non tornò a Roma, si installò per due mesi in un albergo di lusso della capitale dove il re la andava a prendere ogni mattina per farle fare una passeggiata in automobile. Seguì l’inevitabile partenza causa contratti cinematografici da onorare. La distanza non sembrò fermare i sentimenti. Si scrissero lettere colme d’amore. Ma con il tempo nel principe sembrò spegnersi la passione. Rispondeva sempre meno, sempre più formalmente, finché smise. Il 6 settembre 1940 venne incoronato re. I produttori proposero alla Lotti molte pellicole, ma lei aveva la testa altrove. Accettò di girare una coproduzione italo-rumena, Squadriglia bianca, per ottenere il visto per la Romania, dal momento che le riprese si sarebbero tenute a Bucarest. Per lei era un sogno, finalmente avrebbe rivisto il suo amore e per mesi nessuno avrebbe potuto separarli. Ma ormai, coinvolto nelle titaniche difficoltà diplomatiche e militari, il re aveva poco tempo per riceverla. E a fine riprese lei tornò a Roma delusa.
La freccia nel fianco
Fu in questi mesi che si ritrovò coinvolta nelle riprese de La freccia nel fianco, film girato a singhiozzo (durante la guerra, nel settembre del 1943, nel novembre del 1944, fino a essere distribuito dalla nascente Lux nell’ottobre del 1945), storia che sfatò due tabù dell’epoca (l’amore di un bambino per una ragazza adulta e il suicidio, entrambi argomenti vietati nei film). La star femminile, naturalmente, era lei. Nel ruolo adulto del bambino c’era un giovane attore che veniva dall’Accademia d’Arte Drammatica, figlio di un ingegnere edile di origine tedesca: Vittorio Gassman. Travagliato era il momento storico, quello del conflitto bellico, travagliata la lavorazione, travagliata la storia raccontata, quella di un amore tormentato, idealizzato, raggiunto e poi perduto, travagliato l’animo di Mariella Lotti, smarrita anch’ella nelle sue pene d’amore.
L’8 settembre 1943 colse la troupe in esterna ad Arsoli per girare le riprese del Castello quando Pietro Badoglio, capo del governo italiano, annunciò l’entrata in vigore dell’armistizio con gli Alleati. Alle 5 e 15 del giorno seguente il generale Giacomo Carboni, comandante del Corpo d’Armata motocorazzato posto a difesa di Roma, in borghese, abbandonò la città in direzione Tivoli. Cinque minuti prima Vittorio Emanuele III e la sua famiglia, il Primo ministro maresciallo Badoglio, i capi di Stato maggiore Ambrosio e Roatta e i ministri militari avevano iniziato la loro fuga, alla volta di Brindisi. Non riuscendo a rintracciare i suoi superiori Carboni proseguì proprio verso Arsoli dove incrociò la troupe cinematografica capitanata dal regista Alberto Lattuada. Il generale Carboni raggiunse la diva Mariella Lotti nel suo albergo e, pur nel dramma di quelle ore estreme, non resistette alla tentazione di intrattenersi con lei mentre le truppe tedesche al comando di Kesselring stavano per occupare la capitale. Roma era nel caos. Le riprese il giorno seguente si interruppero. La vita di Mariella sprofondò in un baratro. Non aveva più voglia di andare avanti. Annunciò alla famiglia il desiderio di entrare in un convento. Avvisato della decisione della donna, Michele, ormai Michele I di Romania, le scrisse: “Non prendere decisioni irrimediabili. Aspettami!”. Lei accettò.
Liberata Roma, le riprese ricominciarono. Il film perse Gassman (si trovava al nord e per tornare nella Capitale avrebbe dovuto attraversare la Linea Gotica), ma ritrovò un Carlo Ponti, produttore della pellicola, pronto a tutto pur di portare a termine l’impresa. Nell’assenza di teatri di posa mise a disposizione il proprio appartamento. Gli attori erano dimagriti e le condizioni tecniche erano penose. Quasi un ritorno agli albori. Ma ormai era una sfida. E il film venne terminato. La freccia nel fianco diventò la prima pellicola italiana realizzata dopo l’armistizio. Ma soffrì di questa pausa forzata (la prima parte girata rimase più convincente della seconda, inevitabilmente penalizzata dagli eventi).
L’addio alle scene
Mariella allora, rispettando la promessa che le aveva strappato il Re, andò avanti e firmò due contratti. Quando terminò la riprese del secondo film venne a sapere che il sovrano si era impegnato con Anna di Borbone-Parma. Era nata due anni dopo di lei e, incredibilmente, aveva il suo viso. Suo nonno, Roberto I di Borbone Parma, era stato l’ultimo Sovrano del Ducato parmense prima dell’annessione al Regno d’Italia. Lei si era spostata in tutto il mondo – Francia, Danimarca, Italia, Spagna, Portogallo, Stati Uniti, Algeria, Marocco, ancora Italia, Lussemburgo e Germania – fino al 1947 quando, accompagnando i suoi genitori, il Principe René di Borbone Parma e la Principessa Margrethe di Danimarca, alle nozze della Regina Elisabetta II, a seguito di un pranzo nell’ambasciata del Lussemburgo, organizzato da suo cugino il Granduca Jean, si era ritrovata di fronte a Re Mihai di Romania. Pochi mesi dopo il fidanzamento. Mariella lo scoprì sui giornali: il re sposerà Anna di Borbone-Parma il 10 giugno 1948. Ritornò in lei la voglia di chiudersi in una convento, lontana da tutto. Due mesi prima delle nozze sulla prima pagina di Franche Dimanche campeggiò il titolo che svelava le sue intenzioni: “Abbandonata da Michele I di Romania, l’attrice Mariella Lotti si ritira in un monastero”. Non so se entrò mai in quel convento. È certo che lei, una tra le dive più richieste e adorate del periodo, agli albori del nuovo decennio (gli anni Cinquanta) decise di abbandonare il cinema e il teatro, rifiutando in seguito tutte le proposte che le sarebbero arrivate. Alcune fonti dicono che, anni dopo, abbia sposato l’industriale Alfredo Zanardo, ritirandosi a vita privata nella sua Busto Arsizio, dove, scrivono altri, è passata a miglior vita nel secondo millennio dopo aver superato gli ottant’anni di età.
Viva o morta?
Talvolta vengo colto da una struggente malinconia per il cinema che fu, per i tempi cadenzati da parole di piuma al posto di battute (espressioni come “Te ne prego”, “Me ne dolgo” o “Lo rammento”, uscite magari dalle labbra di Gualtiero De Angelis e Rosetta Calavetta, lui la voce di James Stewart e Cary Grant, lei di qualunque donna del passato: Lana Turner, Marilyn Monroe, Doris Day, Susan Hayward, Ava Gardner, Kim Novak e persino Biancaneve), quando si stava a guardare con il naso all’insù il grande schermo, al buio, insieme a una folla partecipante, anziché a fissare, da soli, un piccolo display con la testa china, noncuranti di chi e cosa ci stiano circondando in quel momento, fosse anche un edificio inanimato ma splendido, immalinconito nella vana attesa che qualcuno si accorga della sua presenza. Anna Maria (o Maria Camilla, come indica qualcuno) Pianotti, in arte Mariella Lotti, era stata una diva di quei tempi. Era elegante, era austera, era di una bellezza forse algida ma che turbava il sonno. Poi l’oblio cercato, voluto, desiderato. Rispettato, certamente. Ma se oggi il nostro presente, sopraffatto da infinite parole, spesso futili, spesso inutili, non ha il tempo o la forza di voltarsi indietro, nemmeno per un istante, quel silenzio pesa come un blocco di ghisa.
La rete (quindi il mondo) non sa (più) nulla di lei (così come di tutte le altre come lei). Rimbomba ottusamente l’eco di un pugno di perpetue righe wikipediane. Niente più. Nemmeno un coccodrillo quando ci ha lasciato. Ma ci ha lasciato? Wikipedia dice sì. Fino all’anno scorso scriveva nel 2006, senza indicare una data precisa (dato tutt’ora confermato con la stessa modalità da IMDB), ora indica nel 2004, a Parigi, il 18 novembre, per Mymovies invece è ancora viva: fino a poco fa comparivano ancora gli anni (che al momento sarebbero 95). Per evitare di scrivere un dato incerto il sito ha da poco scelto una via di mezzo: lasciare la sola data di nascita (sposando quindi la modalità che utilizza per i viventi) omettendo però il dato dell’età (che in quel caso solitamente è sempre presente). Così chi avesse consultato distrattamente (come dimostrano di avere fatto tutti gli altri siti che riportano informazioni sommarie ricavate dalla prima fonte scelta), in periodi differenti, uno solo tra questi dati avrebbe magari appreso che l’attrice era morta, poi era viva, poi ancora morta ma in un’altra data. Segno evidente che probabilmente nessuna di queste fonti sa con certezza la risposta.
Prendendo un nome a caso, sul diametralmente opposto Franco Lechner, in arte Bombolo, che con lei ha in comune forse solo lo spazio ristretto della sua ribalta, un decennio, ci sono 400.000 risultati ricchi di particolari di ogni sorta. Solo perché confinante con il nostro più vicino presente.
Sembra invece impossibile che di una diva che lavorò per un decennio, incantando tutto un Paese, nessuno sappia o desideri sapere qualcosa. Nessuno si è accorto che sul web in alcuni siti ormai considerati “istituzionali” continua, solo anagraficamente, a vivere e a invecchiare anno dopo anno quando forse non è più qui con noi. Come pure in altri muore e ri-muore, in Italia o altrove.
Ricorro a Find a Grave, database online di registri cimiteriali, nel quale la persona che utilizza per account il nome Mauro Enrico (autore del doppio degli inserimenti dell stesso fondatore del sito, Jim Tipton, 430 tombe contro 219), l’ha inserita il 16 luglio 2012 come deceduta e sepolta nel Cimitero Monumentale di Busto Arsizio dal 2006 (anche qui senza una data completa), indicando anche la posizione della tomba.
Questo dato naturalmente non ha valore, né sa di conferma, non è il dato ufficiale del cimitero, è inserito da un utente, così come da un utente è stata compilata la scheda di Wikipedia, nella quale tra l’altro anche la data di nascita risulta sbagliata fin dal primo inserimento (18, da poco cambiato in 19, novembre 1919 anziché 27 dicembre 1921).
Non si sa ad esempio se l’autore l’abbia inserita su Find a Grave istintivamente nella città natale dell’attrice associandole la data di decesso indicata da Wikipedia.
Guardando nella cronologia degli inserimenti di quest’ultimo, nella voce dedicata alla Lotti, creata il 7 agosto del 2006, è stato aggiunto, da anonimo, il dato relativo alla sua scomparsa solo nel 2011.
21:32, 8 set 2011 109.112.93.186 (Discussione) . . (5 250 byte) (+5) . . (annulla)
E da allora è rimasto tale per anni. Pertanto la deduzione del compilatore su Find a Grave della voce dedicata alla Pianotti trae spunto probabilmente da quell’anonimo inserimento wikipediano. Da poco poi è stata effettuata l’ultima modifica:
21:59, 23 mar 2017 Umbertin (discussione | contributi) m . . (5 953 byte) (+17) . . (Parigi, 18 novembre 2004) (annulla)
L’utente che ha apportato le attuali correzioni sulla voce di Wikipedia sembra molto competente. Nella cronologia dei suoi contributi si possono notare molte voci relative a Busto Arsizio, la città dove nacque Mariella Lotti, segno che probabilmente lui sia della zona (non per nulla l’utente risponde all’appello di un raduno di wikipediani a Legnano) oppure in ogni caso molto ferrato su essa. A proposito del nome completo della Lotti fa riferimento al suo certificato di battesimo (così la voce è l’unica a indicare il nome di Maria Camilla al posto di Anna Maria) e ha contribuito anche alla voce della sorella di lei, Carola. Lo contatto per chiedergli la fonte della data di morte della Lotti ma per il momento non ho ancora avuto risposta*.
Proseguendo l’indagine digitale tra le carte dell’immigrazione degli anni Cinquanta trovo finalmente il suo nome su Family Search. È un colpo di scena per me. La diva ha abbandonato l’Italia per il Brasile. Non so nulla del perché. In Brasile era stata poco prima per le riprese esterne del film Guarany di Riccardo Freda (lei protagonista femminile, Rossella Falk insieme a Paolo Panelli e Tino Buazzelli al loro esordio). Non posso sapere se dietro questo viaggio, che doveva esserle sembrato infinito, ci sia stato il desiderio di ritrovare qualcuno, di sospendere per qualche tempo la sua vita, di ricominciare. O ancora di una fuga. So solo che, finalmente, è lei. Ed è l’unico dato certo digitale che ho. C’è la sua carta di immigrazione. Compare la sua data di nascita. I nomi dei suoi genitori. Porta la data del 9 marzo 1951. Il suo ultimo film è stato già girato. Davanti a lei un futuro da inventare.
Il diritto all’oblio nella privacy di oggi
A questo punto sono avvolto da stati d’animo contrapposti. Da un lato mi sento spiazzato nel non trovare un dato certo sulla vita o sulla morte di un’attrice italiana nei mezzi che oggi abbiamo a disposizione e che consultiamo abitualmente (è logico che potrei fare una ricerca più approfondita seguendo procedure burocratiche tramite comune o agenzie), dall’altro sono consapevole che ciascuno di noi sia libero di proteggere la propria privacy e quella della propria famiglia.
In anni di dispute digitali inneggianti il diritto all’oblio, in un’era nella quale si dice che, anche volendo, non possiamo essere dimenticati, perché le nostre vite continueranno a viaggiare inesorabilmente nella rete, questo piccolo episodio mi fa pensare.
Oggi le esistenze si allungano, ogni informazione può essere non solo conservata all’infinito ma anche trasferita e dunque rintracciata sulla rete e quindi resa accessibile a chiunque. Esiste però anche chi viene dimenticato, chi vuole dimenticare, chi vuole farsi dimenticare. Chi desidera cancellare una parte (o l’intera esistenza) della sua vita (Greta Garbo disse una volta: “Non voglio essere sola, voglio essere lasciata sola”).
L’autorità italiana per la privacy fissa termini precisi affinché nessuno debba rimanere inesorabilmente prigioniero del proprio passato. Da questi è escluso il diritto di cronaca, perché la realtà storica non può essere manipolata. E le notizie sulla vita di un’attrice, una figura pubblica, a meno che non siano travisate, possono essere diffuse (negli Stati Uniti, invece, il diritto all’oblio è garantito dal Fair Credit Reporting Act del 1970, anche se dopo l’11 settembre ormai le informazioni sono conservate per lunghissimi periodi).
Oggi la rete, con la diffusione capillare di informazioni personali, ha creato veri e propri corpi elettronici, composti da informazioni decontestualizzate, connettendo tra loro tutte le banche dati e anagrafiche accessibili da un qualunque dispositivo (anche per questo è nata la decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea che Google cita spesso). Eppure, sembra incredibile, le fonti con le quali ormai ci confrontiamo quotidianamente a volte non sono in grado di tenere conto nemmeno della vita o della morte di una donna che in un tempo non troppo lontano aveva addosso l’attenzione di un Paese intero. Quello della Lotti è solo uno dei tanti esempi. Le “fonti” accessibili individuate dimostrano la relatività e la futilità di certi nostri approcci (istintivi, approssimativi, ponderati o teorici). Senza contare che ormai noi trattiamo come fonti anche quelle che fonti non sono (ma semplici ripetitori di contenuti, amplificatori di contenuti, inventori di contenuti, etc.). Le vite nella rete non sempre rispecchiano esistenze reali. Le loro ricostruzioni, sui social o sulle voci enciclopediche, possono anche servirci, interessarci, emozionarci. Ma spesso sono solo parole accostate una dopo l’altra. Niente di più.
Possiamo tenere sotto controllo il nostro corpo fisico, come ha fatto la Lotti isolandosi dal mondo pubblico, ma i nostri corpi elettronici possono essere mantenuti, ricreati, modificati, manipolati, corretti, cancellati senza che noi possiamo fare alcunché (anche se in Italia abbiamo il diritto di accesso ai nostri dati dall’8 maggio 1997). La privacy oggi tenta di consentirci di scegliere quando mostrarci e quando rimanere al riparo. Ma nonostante l’inviolabilità del corpo fisico sia uno dei valori fondanti della democrazia occidentale (già lo garantiva la Magna Charta nel 1215), oggi non esiste ancora una regolamentazione “solida” per la nostra vita liquida, per il nostro corpo elettronico.
È da questo punto di vista che mi sorprendo nel constatare come la Lotti sia stata caparbia nel suo intento di scomparire. Voleva, come la Garbo, essere lasciata sola. E ci è riuscita. Senza saperlo è stata in grado di tenere al riparo la sua vita dalla tecnologia che sarebbe venuta, beffando l’odierno diritto di cronaca. Non ha voluto far sapere nulla della sua vita, forse avrà fatto lo stesso per la sua morte.
Nel documento di espatrio, al fianco di una firma frettolosa, è incollata la sua foto.
Ho come l’impressione di vederla per la prima volta. È una immagine viva. Lei appare quasi emozionata. La bocca leggermente arcuata insegue un’ultima volta, in un impercettibile sforzo formale, quel sorriso spento e aristocratico che aveva reso celebre la sua vita. Lo sguardo è altrove. Quasi intimidito. È l’ultimo dato certo che trovo online. Non voglio sapere oltre.
Decido di fermare qui la mia ricerca. Su quel sorriso enigmatico.
*Aggiornamento: l’utente che ha apportato la modifica sulla voce di Wikipedia ha gentilmente risposto alla mia domanda. La fonte della data che ha inserito è il necrologio del figlio di Mariella Lotti, Giovanni, apparso sul “Corriere della Sera”. Una parte di questa storia ha forse trovato la sua conclusione.