Buon anno
In questi giorni in cui molti fanno delle classifiche sull’anno che sta per finire, i libri più belli, i film più belli, i dischi più belli, mi è venuto da chiedermi qual è stata la parola che ha caratterizzato il 2016, e mi è venuto da rispondermi che è la parola crisi. Che è una parola che, a me, sono strano, lo so, piace molto.
Negli anni Venti del Novecento, un critico russo che faceva parte di quel gruppo di critici che eran stati chiamati, per offenderli, formalisti, e che avevano assunto questo nome e avevan finito per chiamarsi loro stessi formalisti e che in Italia, dal momento che erano russi, eran stati chiamati, da allora, formalisti russi, questo critico russo che si chiamava Jurij Tynjanov ha scritto, negli anni Venti del Novecento: «La prosa russa attraversa un periodo di crisi. (D’altra parte, anche la poesia attraversa un periodo di crisi. In generale, è difficile ricordarsi di un periodo in cui non attraversavano un periodo di crisi)».
Ecco, io, che sono nato nel 1963 a Parma, ho l’impressione che, da quando mi ricordo io, la poesia italiana, la prosa italiana, l’economia italiana, la giustizia italiana, la pubblica istruzione, italiana, la sanità, italiana, la politica, italiana, lo sport, italiano, attraversino, da allora, un periodo di crisi; a me sembra di esser sempre vissuto in un periodo di crisi e delle volte mi chiedo cosa succederebbe se passasse, la crisi, e sono quasi sicuro che ne sentirei la mancanza.
Come dice Bazarov, il protagonista del romanzo di Turgenev Padri e figli (1862), quando sta per morire, e dopo una notte terribile si sveglia al mattino che sembra che stia un po’ meglio e al padre, sollevato, che gli dice «Grazie a Dio: è venuta la crisi, è passata la crisi», lui, Bazarov, risponde: «Ma pensa! Cosa significano le parole! L’ha trovata! Ha detto “crisi” e si è consolato. È stupefacente che l’uomo creda ancora nelle parole», dice Bazarov nel 1862 e io, 154 anni dopo, nel 2016, devo confessare che, al potere delle parole, ci credo ancora (sono strano, lo so).
Io sono talmente strano che a me piacciono più i delinquenti dei santi, che preferisco scrivere, per dire, sulla Verità che sul Fatto quotidiano.
Dev’essere per via delle cose che leggo.
Lev Tolstoj, da una qualche parte, dice che lui, nella sua vita, ha conosciuto qualche santo e un po’ di delinquenti, e i santi che ha conosciuto lui dicevano tutti di essere dei delinquenti, e i delinquenti che ha conosciuto lui dicevano tutti di esser dei santi.
E da una qualche altra parte Viktor Šklovskij, un altro di quei formalisti russi, mi sembra che dica che lui, tutte le volte che cominciava a scrivere un libro, aveva sempre l’impressione che non ce l’avrebbe mai fatta, a finirlo, che fosse un’impresa al di sopra delle sue forze e poi a un certo momento si svegliava un mattino che il libro, non avrebbe saputo spiegare in che modo, era finito.
Ecco, io che di mestiere scrivo dei libri, ho l’impressione che quel metodo lì di Šklovskij, accettare e confessare la propria condizione di incapaci, di minorati (di delinquenti, anche, forse, persino), sia l’unica maniera per riuscire a fare, tutti gli anni (più di una volta l’anno, anche, a volte), quella cosa incredibile, scrivere un libro, e quando mi trovo nella condizione di pensare che non ce la posso fare, e mi ci trovo tutti gli anni, più di una volta l’anno, spesso, adesso ormai, vent’anni dopo aver deciso di fare di questa cosa incredibile, scrivere i libri, il mio mestiere, io decodifico questo stato, questo panico, questa condizione di crisi, questo fatto che va tutto male, nel senso che ci siamo, siamo nel panico, siamo in crisi, va tutto male, siamo in mezzo a una nebbia che non si vede più niente e va bene così; va tutto male quindi va bene così, andiamo avanti e anche questa volta verrà fuori un libro che poi, alla fine, mi diranno perfino che è un libro divertente, che io, quando mi dicono che una cosa che ho scritto è divertente io rimango perplesso perché certe cose che scrivo mi fan ridere ma non mi sembrano divertenti.
Mi viene in mente una cosa che sembra abbia detto Syd Barrett, il leader dei Pink Floyd, che sembra che abbia detto, una volta, che secondo lui i giovani si dovrebbero divertire ma lui non ci è mai riuscito. Ecco io, che non son più neanche giovane, ma da degli anni, ormai, la cosa che mi piace di più, a me, è lavorare, e non è una cosa divertente, è una cosa faticosa e bellissima, quando ci si riesce, e quando non ci si riesce, io spesso non ci riesco, e quando non ci riesco mi dico «Benissimo, non ci sono riuscito».
[Uscito sulla Verità]