Tutti i film belli che ci sono
Questa settimana ho sentito un’intervista a Chiara Gamberale dove la Gamberale, che, oltre che scrittrice, è conduttrice radiofonica, parlava del suo ultimo libro, che è un libro la cui protagonista è una conduttrice televisiva che fa un programma che si intitola Tutte le famiglie felici che, diceva la Gamberale, è un po’ il contrario dei programmi come S.O.S Tata. Che è un programma televisivo, S.O.S. Tata, che è molto utile per le famiglie che hanno dei figli un po’ troppo esuberanti, che chiedono aiuto alla Tata che sta con loro una settimana e capisce come vanno le cose e poi spiega ai genitori come si educano i bambini e gli insegna un po’ a stare al mondo, sia ai genitori che ai bambini; ecco, nel programma dalla Gamberale, la protagonista si fa adottare da delle famiglie felici che glielo spiegano a lei, come si fa a stare al mondo, cioè come si fa a esser felici, a esser contenti di quel che si fa.
Il titolo del programma, Tutte le famiglie felici, viene dall’inizio stupefacente di uno stupefacente romanzo (Anna Karenina) di uno stupefacente scrittore (Lev Tolstoj) che è un rappresentante di quello stupefacente fenomeno letterario che potremmo chiamare «Ottocento russo», e è un inizio che fa così: «Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Quando la Gamberale ha citato questa frase di Tolstoj ha detto poi che la protagonista del suo libro conosce, per esperienza diretta, le famiglie infelici, e sa come sono diverse le une dalle altre e poi ha aggiunto che lei pensa che anche le famiglie felici, siano diverse le une dalle altre, cioè ha, in un certo senso, confutato Tolstoj, e mi ha fatto venire in mente una cosa che avevo sentito quest’estate al festival letteratura di Mantova, detta da un altro scrittore italiano contemporaneo, Fabio Geda, che, con grande semplicità, aveva confutato Dostoevskij. «Ci sono degli scrittori che dicono che la bellezza salverà il mondo, – aveva detto Fabio Geda, – invece non è vero».
E Fabio Geda mi ha fatto venire in mente una nota che Umberto Eco aveva messo alla fine dell’edizione italiana di un libro stupefacente (Esercizi di stile) di uno stupefacente autore (Raymond Queneau), rappresentante di quello stupefacente fenomeno letterario che potremmo chiamare «novecento francese», che è un libro, come si sa, dove Queneau racconta in 99 modi diversi una storia banalissima, e, se non ricordo male, il primo commento di Eco, nella sua postfazione, era qualcosa del tipo «se ne potrebbero trovare molti altri, di modi di raccontare questa storia». Cioè è come se loro tre, la Gamberale, Geda e Eco, invece di essere stupefatti da questi fenomeni stupefacenti (Tolstoj Dostoevskij e Queneau), ci tenessero moltissimo a dire la loro, a fare presente che loro ci sono, sono lì, esistono, che è una cosa che io trovo leggermente stupefacente ma meno stupefacente della reazione che mi sembra abbia avuto, qualche anno fa, il regista finlandese Aki Kaurismaki quando, arrivato a Roma per presentare un suo film, aveva trovato la sala piena e la prima cosa che aveva detto mi sembra che fosse stata «Ma con tutti i film belli che ci sono, ma perché vi interessa proprio il film che ho fatto io?».