Leggere i russi
Domani vado a Milano, all’associazione Italia Russia, a fare un discorso sulla letteratura russa che si intitola Leggere i russi e prende il titolo da questa che ha scritto una volta Giorgio Manganelli: «Di nuovo, sono stato risucchiato. Ho avvertito una lieve pressione alle vertebre cervicali, mi è arrivato alle narici un odore aspro di campagna concimata di recente, di bettole, di sobborghi torvi e tristi, di tenerissimi fiori appena sbocciati e odore di mucche, di cavalli, di carrozze coperte dalla muffa della morte, e infine l’aroma sacro del sangue, l’afrore della cosa uccisa o suicida. Oh, certo sono immagini, molto discordanti, addirittura senza senso, perché metterle tutte insieme? Diciamo che sono esibizionista – che sto diventando, come succede a molti, un personaggio di ciò di cui vorrei parlare: vorrei parlare infatti di quella esperienza violenta, malsana, indispensabile, unica, che dà il semplice gesto di «leggere i russi». L’ho scritto tra virgolette, perché leggere i russi non è mica una variante di tutti i mondi letterari, come leggere i ruteni, o magari gli italiani dell’Ottocento, eccettuato Manzoni, che, in questo momento, mi sembra un caso secolare di samizdat, di esule russo nel suo secolo.
«Leggere i russi» è un’esperienza che molti fanno nell’adolescenza, più o meno al tempo delle sigarette e dei primi, sani desideri di scappare di casa e andare a fare il mozzo. Di questi desideri i «russi» sono i più tenaci, e se poche sono le possibilità che ci si dedichi a correre lungo i moli in cerca di un brigantino, assai minori sono quelle di liberarsi di un Dostoevskij una volta che vi è entrato nel sangue. Ma non è solo lui; non esistono disintossicanti per Gogol, ed è molto più facile dimenticare il numero del telefono del primo amore, che la prima lettura della Sonata a Kreutzer di Tolstoj, o della Steppa di Cechov. Così accade che, periodicamente, nella vita, veniamo accolti da un attacco di «leggere i russi».