Il confine dimenticato
di Andrea Marinelli
La costruzione di un muro al confine con il Messico è stata la promessa elettorale che ha contribuito a portare Donald Trump alla Casa Bianca ma, mentre vendeva l’utopia di una barriera invalicabile su una linea selvaggia che tenesse lontani gli immigrati irregolari, il presidente degli Stati Uniti elaborava un altro conflitto silenzioso lungo una frontiera due volte più estesa, che galoppa tortuosa lungo corsi d’acqua gelidi e boschi rigogliosi per poi proseguire in linea retta dai Grandi Laghi fino al Pacifico, per un totale di quasi sei mila chilometri.
Quello fra Stati Uniti e Canada è un confine poroso, molto più permeabile di quello messicano, che lascia filtrare ogni anno in America droga per circa 56 miliardi di dollari e centinaia di immigrati irregolari ma che, nonostante questo, è pattugliato da appena duemila agenti, contro i quasi ventimila che setacciano la frontiera meridionale. È una linea confusa, costellata di zone grigie contese su cui rivendicano la sovranità entrambi i Paesi, e a volte è difficile capire dove finisca una nazione e inizi l’altra. All’estremo Nordest degli Stati Uniti e Sudest del Canada, la frontiera è marcata per lo più dalle acque inquiete e pericolose delle baie di Fundy e Passamaquoddy oppure dalle bandiere che sventolano scolorite dalle intemperie nelle case di campagna o sulle pompe di benzina sperdute nei boschi: a stelle e strisce da una parte, con una grande foglia d’acero rossa dall’altra.
“Nessuno sa esattamente dove cominci il confine settentrionale degli Stati Uniti: da qualche parte verso Machias Seal Island, a 25 miglia da Jonesport, in Maine”, sostiene Porter Fox, che per tre anni lo ha percorso tutto, dal Maine fino allo Stato di Washington, raccontando nel libro “Northland – a 4,000-Mile Journey Along America’s Forgotten Border” la sua avventura. “Quasi tutti, invece, sanno dove va a finire”. Lungo questa linea di frontiera, in realtà, nessuno sa mai esattamente neanche che ora sia. Sulla costa dell’estremo Nordest americano, che odora di sale, pesce, alghe e vecchi porti dismessi, il vento soffia costantemente, facendo oscillare le cime dei pini che arrivano fino all’oceano e le lancette digitali degli orologi, che ciondolano ossessivamente un’ora avanti o una indietro, a seconda che i telefoni aggancino le celle americane o quelle canadesi che si scontrano minacciose sopra Fundy e Passamaquoddy, baie turbate dai più poderosi mulinelli dell’emisfero occidentale e da impetuose correnti. In alcuni punti i due Paesi sono vicinissimi, distanti appena poche centinaia di metri, eppure – controlli doganali a parte – per percorrere il mezzo chilometro scarso del Franklin Delano Roosevelt Bridge, il ponte che congiunge Lubec (la cittadina più a Est degli Stati Uniti) all’isola canadese di Campobello (quella dove il 32esimo presidente americano passava le estati in gioventù e dove contrasse la poliomielite nel 1921) ci vuole un’ora e un minuto: un minuto d’automobile e un’ora per attraversare il fuso orario, passando da quello della costa orientale degli Stati Uniti a quello dell’Atlantico, un’ora più avanti.
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Lubec è nata come città di confine, ultimo avamposto americano in cui si incontravano già nell’Ottocento contrabbandieri, imbonitori, trafficanti ma anche uomini d’affari, armatori e famiglie di pescatori. Da queste parti, durante il Proibizionismo, c’erano taverne costruite proprio sul confine, che accoglievano gli americani nel loro Paese e gli vendevano bevande alcoliche in Canada. Lubec si affaccia sulla baia di Fundy, alla cui bocca si apre una delle zone grigie più estese di questa frontiera confusa e dimenticata: 260 chilometri quadrati al centro dei quali affiora Machias Seal Island, un isolotto disabitato di otto ettari che dal 1783 è protagonista di un conflitto internazionale irrisolto fra Stati Uniti e Canada. Il 3 settembre di quell’anno re Giorgio III d’Inghilterra e i rappresentanti delle tredici colonie americane firmarono il Trattato di Parigi, che metteva fine alla Guerra d’Indipendenza e stabiliva i confini dell’impero britannico, assegnando l’isola agli Stati Uniti. Il Canada però si oppose, sostenendo che quel territorio facesse parte della Nuova Scozia, e da allora non si è più trovata una soluzione. Il conflitto è rimasto latente, a lungo i due Paesi si sono appellati alle interpretazioni del trattato e nel 1981, quando si rivolsero alla Corte Internazionale di Giustizia per accordarsi sui confini marittimi a Sud della zona grigia, preferirono lasciare irrisolta la questione di quello scoglio brullo e roccioso in fondo alla baia di Fundy, riservandosi la possibilità di risolvere la disputa con un negoziato diretto che non è mai avvenuto.
A Machias Seal Island non vive nessuno, giusto due guardiani del faro operato fin dal 1832 dai canadesi senza il consenso né il riconoscimento degli americani, che vengono trasportati in elicottero dalla terra ferma e svolgono un ruolo più che altro politico, visto che il faro è automatizzato da anni. Gli unici altri esseri umani a mettere piede sull’isola sono gli ornitologi che arrivano in ogni giorno d’estate – al massimo una trentina alla volta – per osservare le fratercule arctiche, uccelli ormai rari dell’Atlantico settentrionale dal becco rosso, piatto e triangolare che nidificano in tane sotterranee. Nulla di più, ma la terra regna sul mare e chiunque ottenga la sovranità sull’isola controlla di conseguenza le ambite acque dell’intera zona grigia, sostiene il geografo della National Geographic Society Alex Tait. Acque ricche di aragoste, capesante e molluschi in cui, durante questa estate, gli agenti del Border Patrol americano hanno iniziato a fermare le barche dei pescatori canadesi, che da tempo si spartiscono la pesca con i colleghi statunitensi che salpano dall’altra parte della baia.
Almeno fino al 2002, il conflitto sulla sovranità di Machias Seal Island era rimasto sommerso, ma in quell’anno l’industria ittica dell’Atlantico Settentrionale entrò in crisi e il Department of Fisheries and Oceans canadese autorizzò i pescatori ad allungarsi fino alla zona grigia per cercare aragoste, facendo infuriare gli americani che si lamentavano dell’intenso traffico marittimo e delle leggi troppo permissive in vigore a Ottawa: per preservare la specie, ad esempio, i pescatori del Maine – fra giugno e ottobre, quando per le aragoste è alta stagione – non raccolgono trappole da mezz’ora dopo il tramonto a mezz’ora prima dell’alba. E poi rigettano in acqua le femmine ovipare per facilitare la riproduzione e anche le aragoste troppo grandi o troppo piccole, quelle cioè che misurano meno di otto centimetri o più di dodici, dagli occhi alla base della coda. Ogni imbarcazione americana, però, è autorizzata a depositare sul fondale marino 800 trappole, mentre ai rivali canadesi ne sono concesse 375.
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Già nel 2007, raccontava un articolo dell’Economist dell’epoca, erano cominciate frizioni e sabotaggi fra dirimpettai. Le schermaglie si sono ripetute nel 2015, quando il prezzo delle aragoste è aumentato vertiginosamente e i pescatori della Nuova Scozia hanno ricominciato a portare le proprie trappole al largo dell’isola, provocando scontri – verbali e talvolta fisici – con gli americani: racconta Fox che quell’estate un pescatore del Maine perse un pollice cercando di scacciare una barca canadese, e un capitano, suo connazionale, minacciò di affondare una barca del governo di Ottawa che gli aveva sottratto le trappole. Furono restituite, il tempo e il mercato appianarono i dissapori e la situazione tornò ad essere quella dei primi anni Novanta, quando il canadese Chris Mills viveva sull’isola come guardiano del faro: fra il 1991 e il 1992, ha raccontato tempo fa al New York Times, non aveva mai visto passare una barca del Border Patrol americano, né una nave militare. Ma “i tempi sono cambiati”, sostiene oggi, così come “le interazioni fra i due Paesi, in particolare dal punto di vista commerciale”. Non è un mistero, infatti, che i rapporti si siano raffreddati, diventando rigidi come gli inverni lungo il confine, e che soltanto dopo mesi di negoziati e scontri frontali Stati Uniti e Canada siano riusciti a trovare un’intesa sul Nafta, l’accordo nordamericano per il libero scambio che firmarono nel 1994 con il Messico e che Trump, considerandolo “un disastro”, voleva modificare.
Nonostante dazi, attacchi violenti e minacce su Twitter, le armi preferite del presidente americano, il governo di Justin Trudeau si era a lungo rifiutato di assecondare le richieste della controparte, aprendo il mercato di latticini e pollame – concentrato principalmente in Ontario e Québec, regioni politicamente influenti – alle aziende americane che premevano alla ricerca di uno sbocco oltreconfine. Ha ceduto soltanto a fine settembre, allo scadere della deadline imposta dalla Casa Bianca, permettendo agli allevatori americani di aumentare le esportazioni di latticini. In cambio, però, il Canada è riuscito a mantenere l’attuale sistema di risoluzione delle controversie, che è affidato a un panel di rappresentanti dei due Paesi e che, sosteneva la Casa Bianca, violerebbe la sovranità americana. Il nuovo accordo, rinominato United States-Mexico-Canada Agreement, non ha invece sfiorato i dazi che a marzo gli Stati Uniti hanno imposto – ufficialmente per ragioni di sicurezza nazionale – all’acciaio e all’alluminio in arrivo da Canada e Messico, una decisione che il governo di Ottawa aveva considerato un affronto e che verrà discussa nuovamente in futuro. Trump ha mosso dunque una guerra commerciale ai Paesi confinanti, e con le stesse armi ha sfidato la Cina: le conseguenze, anche in quel caso, sono rimbalzate però nella baia di Fundy. In risposta ai dazi del 25 per cento imposti dagli Stati Uniti sui prodotti Made in China, infatti, Pechino ha stabilito tasse equivalenti su beni americani per 34 miliardi di dollari: fra questi c’erano anche le aragoste, vive e surgelate, che, una volta esportate in Cina, saranno tassate rispettivamente del 40 e del 35 per cento, rallentando le vendite in un mercato che vale da solo il 10 per cento delle esportazioni di aragoste del Maine ma che, secondo il Fishermen’s Voice, il giornale della comunità dei pescatori dello Stato, potrebbe addirittura essere ben più grande di quanto si pensi.
In questa estate in cui i rapporti fra Stati Uniti e Canada erano dunque già complicati, le intimidazioni del Border Patrol americano – che fra giugno e luglio ha cominciato ad accostare le imbarcazioni in mare aperto chiedendo la cittadinanza dei pescatori – hanno creato ulteriori tensioni lungo il confine. “Non vogliamo farne un’incidente internazionale, ma è piuttosto curioso”, ha spiegato al New York Times Laurence Cook, presidente della commissione aragoste del Grand Manan Fishermen’s Association del New Brunswick. “Dicono che si tratti di pattugliamenti di routine, ma sono i primi che fanno in 25 anni”. Rivendicando la sovranità su Machias Seal Island, il Canada ha inviato la Guardia Costiera e ha iniziato a sua volta a pattugliare la zona grigia. “Basterebbe una semplice linea di confine”, ha commentato John Drouin, membro del Maine Lobster Advisory Council, sostenendo che i canadesi la stiano facendo troppo lunga e che il conflitto sia dovuto più che altro a una competizione commerciale. Quando nel 2002 il governo di Ottawa autorizzò i pescatori a depositare trappole nella zona grigia per tutto l’anno – l’unica in cui è permesso ai pescatori di operare per tutti i dodici mesi – si sviluppò una competizione diretta fra le barche in arrivo dal Maine e quelle canadesi: oggi sono un centinaio, equamente divise, che si spartiscono l’oceano e le ultime aragoste.
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La pesca non è mai stata una garanzia, notava l’editoriale del Fishermen’s Voice di agosto, e per l’industria ittica, costantemente in balia della natura, far quadrare i conti è sempre stato complicato. L’unica eccezione si è avuta ai tempi del grande boom delle aragoste negli anni Novanta e Duemila, quando il cambiamento climatico aveva riscaldato le acque del golfo del Maine e della zona grigia portandole a una temperatura ideale per le aragoste e aveva fatto lievitare il valore dell’industria ittica dello Stato, arrivata secondo il Wall Street Journal a toccare gli 1,7 miliardi di dollari. Quello stesso cambiamento climatico, però, fa ora temere a pescatori e scienziati che le acque stiano diventando troppo calde per la pesca delle aragoste, calata lo scorso anno del 20 per cento a 50 milioni di chili. Nel golfo del Maine, entro il 2050, la popolazione delle aragoste potrebbe diminuire anche del 62 per cento. “Il cambiamento climatico ci ha aiutato per vent’anni, ma ora ci ucciderà per i prossimi trenta”, ha sintetizzato Dave Cousens, ex presidente della Maine Lobstermen Association che lo scorso anno ha visto calare i propri introiti del 30 per cento. “Le migrazioni delle aragoste sono un chiaro segnale del cambiamento climatico, come lo è lo scioglimento dei ghiacciai”, scrive Christopher White nel suo libro The Last Lobster, uscito in estate, che racconta l’impatto dell’ambiente su un’industria che rappresenta il Nordest americano e questo confine. “Al ritmo attuale, le aragoste risalgono verso Nord a una velocità compresa fra i 5 e i 7 chilometri all’anno, che fanno quasi 350 chilometri negli ultimi cinquant’anni: fra il 2036 e il 2046 la maggior parte della aragoste americane potrebbe già risiedere in Canada”.
Risalendo come le aragoste la costa del Maine verso Nord, le eleganti cittadine turistiche del New England americano lasciano un poco alla volta spazio alla natura incolta e rigogliosa, ma pur sempre ordinata; le barche a vela alle tozze imbarcazioni da pesca incrostate di mare e patelle; i portici immacolati delle villette ai capanni degli attrezzi con i trattori che fanno capolino fra le assi di legno spezzate; i negozi biologici che vendono frutta ai turisti a malinconici Dollar General che rifilano cibo in scatola e che spuntano qua e là come fontanelle di acqua contaminata in un food desert senza supermercati. Raramente i viaggiatori si spingono così a Nord: qui la popolazione è più bianca, e vecchia, che nel resto d’America, diminuisce a ogni censimento e si impoverisce man mano che si avvicina al confine canadese. Le strade, ormai polverose, sono solcate giusto da qualche vecchio pickup sgangherato e da motociclisti di mezza età e senza casco che risalgono nel vento la Highway 1 e poi la Rural Route 1, costeggiando il confine, con un occhio alla strada e uno al Canada dall’altra parte della baia. In questo angolo rurale d’America, i due Paesi si confondono fino a essere quasi indistinguibili: a dividerli, molto più di quanto non faccia la geografia, ci pensano proprio le aragoste che corrono verso Nord per sfuggire al cambiamento climatico e, soprattutto, l’aggressività di un presidente che – fra guerre commerciali e pattugliamenti lungo la frontiera – guarda con diffidenza oltre ogni confine.
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