Il deserto è il luogo più affollato di sentimenti
di Marco Marsullo
Il deserto è il posto più affollato di sentimenti. Dentro ci puoi trovare la sete, la paura, la morte. Ma anche la vita. Nei deserti si coltiva così, con dei bracci lunghi chilometri, che irrigano la sabbia, disegnando dei cerchi enormi, così grandi che li vedi dallo spazio.
A questo pensa l’uomo con il cappello di paglia e la camicia bianca, ormai lercia, sudata e piena di terra. Si asciuga la fronte mettendosi dritto sulla schiena, prima piegata, in mezzo al campo numero sedici, quello da allestire per il mese prossimo. La vita, nel deserto, è un lusso artificiale fatto di acqua desalinizzata e piantagioni rigogliose. Di sabbia e controlli. Ortaggi e camion, che porteranno il business in tutta l’Africa del nord, ma anche in Europa. Cipro, Grecia, Italia. L’Italia che c’è, oltre le piantagioni, il deserto e il mare. Che c’è e non si vede perché è lontana. Pensa pure a questo l’uomo con il cappello di paglia e la pelle più scura, piagata dal sole, mentre torna nella casa di fronte al campo numero dodici. La casa dove vive, che gli è stata assegnata. Pensa a questo mentre guarda il figlio dormire, dieci anni e una gamba penzoloni appena fuori dal lenzuolo. Le labbra semichiuse che ogni tanto si muovono, come a scandire una preghiera muta in cerca dell’assoluzione. Del miracolo. L’uomo si toglie il cappello di paglia, piano, lo appoggia sul comodino accanto al figlio. Adesso è soltanto un uomo. In punta di piedi torna in cucina, si piega sulle ginocchia di fronte al mobile grande e apre l’ultimo cassetto. Sposta le camicie e i maglioni che usa di notte, per dormire, e conta i soldi. Un’altra settimana, forse qualche giorno ancora, e basteranno. Li rimette a posto e prende il quaderno lì accanto. Dentro l’elenco delle cose da insegnare al bambino che dorme, che si sveglierà tra un’ora. Sono quasi finite, mancano le ultime due pagine.
Un’ora ancora. Torna fuori, va verso il campo numero sei e attacca l’irrigatore. Il deserto è il posto più affollato di sentimenti perché c’è sempre qualcosa da fare, ma niente da dire a nessuno.
I capi sono tre. Uno alto, capelli biondi, sembra tedesco. Parla poco, si esprime a gesti. Viene solo a pagarlo alla fine di ogni mese. Il secondo è egiziano come lui, ha pochi denti, sempre fasciato in camicie nere di due taglie più grandi. Lui è quello che parla, che spiega, che controlla. Il terzo non lo ha ancora mai visto. Il capo egiziano gli ha detto che è quello che si occupa delle spedizioni verso l’Europa e che lo vedrà solo il giorno in cui comprerà il viaggio.
Non ha più alternative. Le cose stanno così. Ha preso una decisione, forse la migliore. Migliore perché l’unica che ha preso in tutta la sua vita.
L’ha presa nel deserto, perché il deserto è il luogo più affollato di sentimenti dove non c’è niente da dire a nessuno. Infatti non l’ha ancora detto a nessuno, nemmeno a suo figlio. Non è un buon padre, perché un buon padre saprebbe fare di meglio. Ma lui è solo un uomo che cambia vita due volte al giorno. Con il cappello, sotto al sole e tra ortaggi che crescono e che lui non può toccare. E senza il cappello, a casa, a sera, quando insegna le cose fondamentali all’unica persona che gli resta. Un padre, pensa lui, deve essere più uomini, più cose, mutare con il tempo e non restare sempre lo stesso, con e senza il cappello.
Il bambino si sveglia e l’uomo gli dice di venire a studiare, che il tempo è poco. Il bambino protesta, dice di avere sonno, che fa caldo, che ha fame. L’uomo apre il piccolo frigorifero appoggiato a terra e tira fuori una scodella del giorno prima, gliela mette davanti. Mangia, gli dice. Il bambino dice che non gli piace, che è quello che è avanzato ieri. L’uomo insiste. Ricorda pagina tre, afferma, perentorio. Pagina tre? Pagina tre, sì, dove dice che non puoi avere gusti con il cibo, perché la scelta appartiene a chi ha le alternative e loro non ne hanno, al momento. Il bambino sta per piangere. L’uomo lo fulmina con gli occhi. Pagina sei, gli fa, vibrando un dito nell’aria. Pagina sei è che non si piange. Esatto, l’uomo si rimette il cappello e, sull’uscio, gli dice che fuori ci metterà poco tempo e che vuole vedere quella scodella vuota e le unghie di mani e piedi tagliate, al suo ritorno. Il rumore della porta che si chiude è l’addio che ogni giorno i due si danno, senza scelta, senza poter piangere.
Anche se tutti e due lo vorrebbero tanto.
I campi sono rotondi per una questione di comodità. I colori aumentano d’intensità, dal centro verso il bordo, sempre di più. Sono rotondi per avere un punto equidistante dal centro in ogni momento e risparmiare sulle attrezzature di irrigazione. La terra è morbida, sempre, perché non può mai restare secca. Altrimenti si spacca e dopo, con il caldo, non torna più morbida. Ed è strano perché basta mettere un piede fuori dal campo per sentire la differenza, vedere come il mondo possa cambiare da un centimetro all’altro. Quelli naturali non sono mai rotondi, sono irregolari, rettangolari, lunghi, scomodi. Questi no, li ha creati l’uomo moderno e l’uomo moderno conosce la spietatezza della precisione. Sprecare meno risorse per dare tutto a chi ha le scelte. Prodotti migliori a costo minore. La legge dell’uomo moderno non conosce l’errore. Perché l’errore costa soldi e i soldi sono tutto.
L’uomo con il cappello questo lo sa, perché la prima cosa che controlla sempre, tornato a casa, anche se alle volte manca solo per pochi minuti, è il cassetto. Sposta le camicie pulite e i maglioni pesanti e li conta. Li conta perché sono il futuro. E il futuro è tutto quello che ha un padre.
La notte, quando dorme accanto a suo figlio, l’uomo pensa a quando la sua vita non era questo. Soltanto quattro anni prima. Ma non riesce a ricordare. In città c’era sempre rumore di motori, di gente che urlava, rideva, parlava. Il ritmo scandito dalla luce e dal buio. Qui no, nel deserto il ritmo è un lusso. Di notte è come di giorno. Tranne quando arrivano le jeep con i due capi. Una nuvola di sabbia si alza da lontano e sente il rumore soffocato del motore vecchissimo e con poco olio. Il terzo capo, quello che non viene mai, l’uomo lo immagina uno che ha scelta, quindi non sceglierebbe mai di guidare dalla città fino al deserto, alle piantagioni. Lo immagina ben curato e senza rughe. Lo crede ricco. Perché chi vende i viaggi è ricco. Chi incassa il futuro delle persone per forza mantiene per sé la parte migliore.
L’uomo con il cappello, un giorno, ha pensato di rubare una parte di futuro. Il capo egiziano ha sempre la pistola, dietro la schiena. Per un attimo l’idea di afferrarla e prendersi ciò che doveva accumulare un po’ alla volta, era stata forte. Poi, però, il bambino. Il figlio. La fuga. Il deserto. Un uomo con il cappello di paglia non ha le risorse necessarie per avere tra le mani la pistola di un altro.
Il senso di colpa, nel luogo più affollato di sentimenti, è il sentimento più letale. L’uomo sa che dirà addio al figlio, quando comprerà il biglietto. Che lo abbandonerà. Che non potrà più insegnarli niente, non potrà più esserci, essere un padre. È un anno che convive con il senso di colpa in mezzo al deserto. Non ha alternative. Non le ha neanche cercate, perché un’opzione diversa c’è sempre, ma non sempre merita di essere presa in considerazione.
Una volta il bambino gli ha chiesto cosa ci fosse oltre il deserto, che non ricordava niente di prima. Gli ha chiesto cosa volesse dire andare a scuola, mangiare le patatine fritte, avere amici. L’uomo con il cappello di paglia è rimasto in silenzio. Poi gli ha detto di aprire il quaderno a pagina ventuno. I rapporti con le persone, come gestirli, come crearli, come romperli. Tutto su carta e inchiostro nero pasticciato. Tutta teoria. La pratica, presto, sarebbe toccata a lui. Da solo. Il destino di padre e figlio è sempre quello di separarsi al momento sbagliato.
L’ultimo giorno di lavoro. L’indicazione al capo tedesco è arrivata dal capo egiziano, che ha contattato, davanti all’uomo con il cappello di paglia, il capo dei viaggi. Dopo poche ore un’altra jeep, alla guida un uomo che non aveva mai visto, ha portato alle piantagioni il suo sostituto. Un ragazzo egiziano alto e magro, braccia e gambe nodose, una polo rossa e un paio di bermuda bianchi. Presto il ragazzo avrebbe imparato che, nelle coltivazioni, era meglio subire il caldo che i morsi degli insetti. Ma l’esperienza serve agli uomini solo dopo che hanno già subito il danno. L’esperienza è quella cosa inutile finché non sai già le cose. Serve solo a non ripetere lo sbaglio. Serve solo quando hai scelta.
L’ultima notte, l’uomo ripassa il quaderno con il figlio, che ha sonno, vorrebbe solo dormire. Non può sapere che quella è la sua ultima notte da figlio, perché i figli non hanno l’esperienza dei padri e non conoscono ancora lo sbaglio che qualcuno compirà al posto loro.
Quando chiude l’ultima pagina, sicuro che il figlio sappia tutto a memoria ormai, l’uomo gli dà un solo bacio sulla guancia e il bambino resta pietrificato. Nel deserto non c’era mai stato un bacio. Forse neanche prima. L’uomo gli dice ora dormi, domani dobbiamo andare in un posto. Che posto, chiede il figlio. L’uomo risponde solo che domani vedrà cosa c’è oltre il deserto.
E cosa, domanda ancora il figlio, con le ultime energie mentre lotta con gli occhi più pesanti di un macigno. L’uomo dice il mare, ma il bambino già dorme.
Nel furgone, padre e figlio sono seduti dietro, insieme a un’altra decina di persone. Tutti stanno zitti, guardano in terra, al petto ognuno stringe una borsa, uno zaino, una busta di plastica stracolma di vestiti, cibo, acqua. Anche l’uomo con il cappello di paglia ne ha una, sente il cuore che batte contro la plastica azzurra. Il fiocco che chiude il grande sacco di plastica sembra la ciliegia che sta su un dolce italiano tutto bianco che una volta ha visto in televisione, anni prima. Chissà se lo troverà mai, sul suo cammino.
Chissà se avrà mai un cammino, oltre il deserto e il mare.
Il furgone si ferma dopo ore e ore. Quando aprono il portellone, c’è una luce forte, accecante, e persone che vanno avanti e indietro, ovunque: parlano, strillano, dicono a loro cosa devono fare. Il porto è un alveare di gente distratta ma con le idee chiarissime.
Li portano, rapidamente, di fronte a una barca grande, con la chiglia nera e arrugginita. Il capo dei viaggi è quello che passa da persona a persona a prendere il futuro. Chi glielo dà in una busta da lettere, chi se lo sfila dai calzini e dalle mutande e, tutto stropicciato, glielo consegna nelle mani aperte. Ogni azione si compie molto rapidamente. Arriva il turno dell’uomo con il cappello di paglia. Dal taschino della camicia tira fuori quello che c’era nel cassetto. È il momento esatto in cui finisce ogni scelta. L’unica, era questa. Sbagliata o giusta. L’unica davvero. Basta per uno, fa il capo dei biglietti, un uomo libico ben vestito e che profuma di buono, una catenina d’oro al collo che si perde tra i peli del petto. Va bene così, fa l’uomo con il cappello di paglia, che intanto dal retro dei pantaloni sfila il quaderno con le cose da imparare e lo mette, forte, sul petto del figlio. Prendilo, gli dice, non perderlo mai, leggilo sempre. Il bambino non capisce, esegue, perché è abituato a farlo, ma non capisce. L’uomo si toglie il cappello di paglia e glielo mette in testa. Non toglierlo mai sotto al sole, in mezzo al mare, aggiunge. Il capo dei viaggi afferra il bambino per una mano e lo mette in fila, a pochi metri di distanza, mentre l’uomo senza cappello guarda tutto da lontano.
Il bambino sgrana gli occhi, fa per muoversi, ma una persona lo rimette dritto, in riga. Sta per piangere, ma da lontano l’uomo gli fa un solo segno con le dita. Pagina sei.
Il bambino ingoia la saliva e fa sì con la testa.
Pagina sei, non si piange.
L’ultima pagina che resta da scrivere spetta a te, figlio mio. Scrivi tutto, scrivi forte, scrivi con ogni inchiostro che hai. Scrivi sempre. Impara cose che nemmeno io so, che non ho saputo insegnarti.
Il mare, pensa l’uomo mentre vede la nave salpare, è il luogo più affollato di sentimenti.