Vacanze romane
Una newsletter di
Vacanze romane
Michele Serra
Martedì 31 dicembre 2024

Vacanze romane

«Ci si inchina a Roma, sull’Appia Antica. Si dimenticano il romanesco invasivo che sta de-italianizzando l’Italia, la minacciosa corporazione dei tassinari, il traffico incallito, l’eterno fascismo che stilla dalle scritte sui muri, le greggi di turisti con la panza di fuori in qualunque stagione, le radio devozionali che parlano solo d'aa Roma e d'aa Lazzio, dicessero giusto almeno il nome che amano»

La Villa dei Quintili nel parco archeologico dell'Appia Antica (Matteo Nardone/Pacific Press via ZUMA Press Wire)
La Villa dei Quintili nel parco archeologico dell'Appia Antica (Matteo Nardone/Pacific Press via ZUMA Press Wire)

L’anaconda dello zoo di Roma giace nell’acqua, immobile, le spire grosse come un cavo sottomarino arrotolate nel modo misterioso dei serpenti, la testa invisibile, nascosta in mezzo alla folta vegetazione del grande acqua-terrario dove vive. È esposta allo sguardo pagante dei visitatori ma questa sua funzione, relativa alla società umana e non alla sua cognizione rettilea del mondo, deve essergli del tutto ignota, o incomprensibile. Le arriva, magari, attraverso lo spesso vetro, il riverbero vago delle voci dei bambini che strillano, degli adulti che fotografano, del viavai di umani in visita. Anche se li percepisce, non la riguardano.

Così gli altri componenti del grandioso cast: i suricati, la tigre, la tarantola, gli orsi, i cammelli, gli ibis, gli elefanti, le scimmie, le zebre, i pangolini, il varano, le molteplici forme di vita (di incredibile varietà per stazza, fisionomia, modo di esistere) che chiamiamo animali, e sono la lampante prova dell’esistenza degli alieni. Gli alieni ci sono per davvero, certo che ci sono, e abitano tutti quanti sul pianeta Terra, più colorati, strani e imprevedibili di quanto abbia mai potuto immaginare il più ingegnoso degli autori di fantascienza. Gli animali sono la realtà che supera la fantasia – anzi la annichilisce: c’è molto di più nella realtà che nella fantasia. La giraffa, certe raganelle blu elettrico, il tricheco che gongola nel suo grasso, la balena franca grande come una nave, i pesci fosforescenti, le anguille elettriche, la meccanica loricata dell’armadillo, il naso multiuso dell’elefante: chi avrebbe mai potuto pensarli, prima di vederli? La domanda “esisteranno nell’universo altre forme di vita, oltre all’uomo?” ha già avuto fino dall’alba dei tempi la sua risposta: non solo esistono, ma pullulano, abitano qui da molto, molto tempo prima di noi e ci sono buone probabilità che ci sopravvivano.

Non si chiamano più zoo, si chiamano bioparchi, ma i sentimenti che provo ogni volta che ne visito uno sono identici a quelli di me bambino. Certo evoluti nel tempo, capiti e spiegati meglio a me stesso: ma identici. Lo zoo è un luogo drammatico, come tutti i luoghi di cattività. Come le prigioni. Si ammirano i luoghi e le bestie (il bioparco di Roma è molto bello, e tenuto benissimo) e si prova disagio, ci si sente in pena, si valutano le sbarre, le paratie di contenimento, lo spessore dei vetri e si vorrebbe che gli animali, tutti, potessero andarsene a zonzo dove pare a loro. Che risuoni, generalizzato, ovunque, il grido “aiuto aiuto, è scappato il leone!” (Jannacci) o “attenti al gorilla!” (Brassens), al modo di quelle scritte mezzo utopistiche mezzo distopiche – Fuori tutti dalle galere! – che quando le leggi sui muri pensi: certo sarebbe molto bello, ma…

Poi però lo zoo – se adesso si chiama bioparco una ragione ci sarà – ha anche assunto, nel tempo, una funzione scientifica e zoofila molto importante. In rete tra loro, i bioparchi provvedono a salvare in cattività specie a un passo dall’estinzione. A farle accoppiare e riprodurre. A studiare le loro malattie e curarle. A dare a zoologi, veterinari, naturalisti l’opportunità di approfondire lo studio del comportamento animale e di incrociare le esperienze. A ricoverare e proteggere esemplari salvati dalla crudeltà o dall’idiozia umana (la tigre albina del bioparco di Roma, inopinatamente chiamata Gladio, prima viveva denutrita e maltrattata nel recinto di un privato). Alla didattica, alla diffusione di una coscienza zoologica e naturalistica non favolistica, non dettata solo dalla “maraviglia”, come negli zoo di una volta nei quali le bestie erano soltanto fenomeni da baraccone.

Ho pensato, davanti al grande recinto del leone (che neanche mi guardava, mentre io lo fissavo con totale ammirazione, e mio nipote Carlo riconosceva Mufasa) che lo zoo è una specie di riassunto perfetto della nostra condizione abnorme, così abnorme che minaccia di diventare quasi extra-naturale. Siamo oggettivamente padroni del pianeta, la nostra specie si è evoluta con una velocità e una potenza mostruose. Il gap tecnologico e culturale tra homo sapiens e la bestia a noi più prossima (il nostro cugino bonobo) è immenso, e ovviamente incolmabile. Al tempo stesso, è proprio questa condizione di smisurato potere sugli altri animali, sulla natura, sul mondo intero, a inchiodarci alle nostre responsabilità. Il pangolino non potrà mai occuparsi di noi, dunque noi dobbiamo occuparci del pangolino.

La differenza tra un padrone e un responsabile, come ognuno può capire, è tanta. “Responsabile della bellezza del mondo”, scrisse Marguerite Yourcenar, era (o sentiva di essere) l’imperatore Adriano. Vedendo i tre lupi nel loro recinto ho pensato che attorno a casa mia girano liberi e famelici un paio di branchi – li abbiamo sentiti ululare, certe sere, come in un film alla Jack London. Ma ho pensato, anche, che il nostro ingombro spaventoso, la nostra moltiplicazione fuori scala, la nostra tecnologia di sterminio così come quella di pace, ci costringono (è il verbo giusto) a occuparci del mondo. Non possiamo più fare un passo indietro. Né fare finta di niente. Purtroppo o per fortuna, ormai tutto dipende da noi, dall’Amazzonia al pasto dei suricati.

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Una passeggiata di qualche chilometro lungo l’Appia Antica, nella luce gentile del sole decembrino, costringe a deporre ogni ostilità contro la nostra meravigliosa e insostenibile capitale. Ci si inchina a Roma, sull’Appia Antica. Si dimenticano il romanesco invasivo che sta de-italianizzando l’Italia, la minacciosa corporazione dei tassinari, il traffico incallito, l’eterno fascismo che stilla dalle scritte sui muri, le greggi di turisti con la panza di fuori in qualunque stagione, le radio devozionali che parlano solo d’aa Roma e d’aa Lazzio, dicessero giusto almeno il nome che amano.
Ci si incanta e quasi ci si sgomenta davanti alle prospettive inimmaginabili che quel rettilineo millenario offre allo sguardo (neppure in sogno vedrete mai altrettanto), il verde molteplice dei lecci, dei pini, dei cipressi, i muri senza epoca tiepidi alla mano come se fossero vivi, l’azzurro mediterraneo del cielo, la neve sulle cime dell’Appennino laziale. Una costruzione ottica incredibile, dal vicino al lontano tutto appare perfetto e armonioso. La voce umana si fa quieta e rispettosa, si sente il rumore dei passi, anche il saluto natalizio è discreto e cauto, i ciclisti scivolano via sul basolato assorbendo i colpi, i cani sono tutti al guinzaglio, è molto precisa e giusta l’idea che nei posti belli le persone migliorano, in quelli brutti peggiorano.
Dalle mie vacanze romane, è tutto. E non è poco, direi.

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Uno dei tanti lettori di questa newsletter, Mario Castelli, mi manda un “racconto di Natale” che pubblico con grande piacere – fino a Capodanno siamo ancora in atmosfera. Sono un paio di pagine di Giovannino Guareschi, la saga è quella, popolarissima, di don Camillo e Peppone. Mi scrive Castelli che quel libro è stato centrale nella sua infanzia, e lo è stato anche nella mia. Avrò avuto dieci/undici anni, me lo diede da leggere mio nonno materno, mi disse che dovevo considerarlo “un libro di avventure” e così feci. Lo lessi come leggevo Salgari, poco sapevo di comunisti e preti ma don Camillo e Peppone, con le loro liti, le loro scazzottate, le loro bande di compari, mi piacevano molto. Quando vidi i film, con Gino Cervi e Fernandel, li ritrovai tutti e due – specie Peppone – quasi identici a come li avevo immaginati.

Poi la vita è lunga e, appunto, avventurosa, e da grande, e per giunta da comunista, mi capitò addirittura di diventare uno degli editori del “Don Camillo”, che ripubblicai come allegato di Cuore con una mia prefazione quasi dotta. L’idea (già maturata nella lettura infantile) era che i due antagonisti fossero, nel profondo, non solo amici, ma difensori di uno stesso mondo (il passato contadino) contro il mondo nuovo, la modernità che tutto corrompe e snatura. Guareschi fu un grande scrittore popolare e un grande reazionario, conobbi i suoi figli, visitai la sua casa natale a un passo da quella di Verdi, vidi il suo ristorante, le sue motociclette, i suoi disegni, mi emozionai.

Ringrazio Mario Castelli per questa parentesi guareschiana, sono contento di condividerla con voi tutti, è un buon modo di salutare il Natale, qualunque cosa si pensi che il Natale sia. Il racconto è edificante, se vogliamo un poco melenso, ma così devono essere i racconti di Natale. È ideologico in senso cattolico, Guareschi era profondamente cattolico. È anche molto umano, Guareschi lo era. Infine, è molto ben scritto, ai tempi di Guareschi “popolare” non era sinonimo di sciatto o di declassato.

“Era oramai Natale e bisognava tirar fuori d’urgenza dalla casetta le statuette del Presepe, ripulirle, ritoccarle col colore, riparare le ammaccature. Ed era già tardi, ma don Camillo stava ancora lavorando in canonica. Sentì bussare alla finestra e, poco dopo, andò ad aprire perché si trattava di Peppone.
Peppone si sedette mentre don Camillo riprendeva le sue faccende e tutt’e due tacquero per un bel po’.
Don Camillo prese a ritoccare con la biacca la barba di San Giuseppe. Poi passò a ritoccargli la veste.
“Ne avete ancora per molto?” si informò Peppone con ira.
“Se mi dai una mano in poco si finisce”.
Peppone era meccanico e aveva mani grandi come badili e dita enormi che facevano fatica a piegarsi. Però, quando uno aveva un cronometro da accomodare, bisognava che andasse da Peppone. Perché, è così, sono proprio gli uomini grossi che son fatti per le cose piccolissime.
Filettava la carrozzeria delle macchine e i raggi delle ruote dei carretti come uno del mestiere.
“Figuratevi! Adesso mi metto a pitturare i santi!” borbottò. “Non mi avete preso mica per il sagrestano!”
Don Camillo pescò in fondo alla cassetta e tirò su un affarino rosa, grosso quanto un passerotto, ed era proprio il Bambinello.
Peppone si trovò in mano la sua statuetta senza sapere come e allora prese un pennellino e cominciò a lavorare di fino.
Lui di qua e don Camillo di là dalla tavola, senza vedersi in faccia perché c’era, fra loro, il barbaglio della lucerna.
“Non ci si può fidare di nessuno, se uno vuol dire qualcosa. Non mi fido neppure di me stesso” disse Peppone.
Don Camillo era assorbitissimo dal suo lavoro: c’era da rifare tutto il viso della Madonna. Roba fine.
“E di me ti fidi?”, chiese don Camillo con indifferenza.
“Non lo so”.
“Prova a dirmi qualcosa, così vedi”.
Peppone finì gli occhi del Bambinello: la cosa più difficile.
Poi rinfrescò il rosso delle piccole labbra.
“Hai paura?”
“Mai avuto paura al mondo!”
“Io sì, Peppone. Qualche volta ho paura”
Peppone intinse il pennello.
“Be’, qualche volta anch’io” disse Peppone. E appena si sentì.
Don Camillo sospirò anche lui.
Ora Peppone aveva finito il viso del Bambinello e stava ripassando il rosa del corpo.
Oramai il Bambinello era finito e, fresco di colore e così rosa e chiaro, pareva che brillasse in mezzo alla enorme mano scura di Peppone.
Peppone lo guardò e gli parve di sentir sulla palma il tepore di quel piccolo corpo.
Depose con delicatezza il Bambinello rosa sulla tavola e don Camillo gli mise accanto la Madonna.
“Il mio bambino sta imparando la poesia di Natale” annunciò con fierezza Peppone. “Sento che tutte le sere sua madre gliela ripassa prima che si addormenti. È un fenomeno”.
“Lo so” ammise don Camillo. “Anche la poesia per il Vescovo l’aveva imparata a meraviglia”.
Peppone si irrigidì.
“Quella è stata una delle vostre più grosse mascalzonate!” esclamò. “Quella me la dovete pagare”.
“A pagare e a morire si fa sempre a tempo” ribatté don Camillo.
Poi, vicino alla Madonna curva sul Bambinello, pose la statuetta del somarello.
“Questo è il figlio di Peppone, questa è la moglie di Peppone e questo è Peppone” disse don Camillo toccando per ultimo il somarello.
“E questo è don Camillo!” esclamò Peppone prendendo la statuetta del bue e ponendola vicino al gruppo.
“Bah! Fra bestie ci si comprende sempre” concluse don Camillo.
Uscendo, Peppone si ritrovò nella cupa notte padana, ma oramai era tranquillissimo perché sentiva ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa. Poi udì risuonarsi all’orecchio le parole della poesia che ormai sapeva a memoria. “Quando, la sera della Vigilia, me la dirà, sarà una cosa magnifica!“ si rallegrò.
Il fiume scorreva placido e lento, lì a due passi, sotto l’argine, ed era anche lui una poesia cominciata quando era cominciato il mondo e che ancora continuava. E per arrotondare e levigare il più piccolo dei miliardi di sassi in fondo all’acqua, c’eran voluti mille anni.
E soltanto fra venti generazioni l’acqua avrà levigato un nuovo sassetto.
E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l’ora su macchine a razzo super atomico e per far cosa? Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha pitturato col pennellino”.

*****

Due sole zanzare. La prima è misteriosa, nel breve contiene un romanzo, ma non si sa bene quale. La segnalazione è di Mauro dalla Gazzetta del Mezzogiorno.

SI SPARÒ DA SOLO
PATTEGGIA 2 ANNI

Il secondo titolo appartiene alla lunga e gloriosa tradizione pisano-livornese. Il direttore, che la conosce bene, segnala dal magazine Seconda Cronaca questo titolo, di possibile matrice livornese:

STORIE DI PISANI
INVASI DAGLI INSETTI
(E DAI RODITORI)

E adesso siamo agli auguri per l’anno che arriva. Non è inutile ricordarci, tutti quanti, che è nuovo nuovo, e rovinarlo o cercare di renderlo decente dipende anche da noi. Mentre leggete questa newsletter sto tornando al Nord, a temperature più consone, con l’Appia Antica e l’anaconda nel cuore, ma molta voglia di ritrovare il bosco e il gelo. A Roma sembrava primavera, e l’anno mi piacerebbe poterlo salutare con i piedi nella neve, o perlomeno nella galaverna. In alto i cuori, e mi raccomando le scarpe pesanti e le calze di flanella.