Un altro amore libero è possibile
L’idea che nessuno sia proprietario di nessuno – stiamo parlando di amore, anzi di sesso – appartiene alla più felice e ingenua utopia degli anni Sessanta. Il famoso “amore libero”, sapete, quello che poi si infranse rovinosamente contro qualche millennio di consuetudini tribali e patriarcali, e soprattutto dovette fare i conti con il groviglio tenebroso delle nostre pulsioni, non tutte limpide, non tutte democratiche. La sessualità “resta comunque qualcosa di enigmatico”, scrive Pier Aldo Rovatti, filosofo; e avere letto e studiato Freud, Lacan, Foucault, Deleuze, insomma il Novecento da cima a fondo, non gli è certo bastato a risolverlo, questo enigma. Siamo nel bel mezzo di una zona d’ombra vasta come le galassie.
Noi boomer da ragazzi si leggeva La rivoluzione sessuale di Wilhelm Reich, psicanalista allievo di Freud, spero nessuno si offenda se lo definisco, a bocce ferme, mezzo genio e mezzo matto: però di una mattìa suggestiva, visionaria, la teoria degli “orgoni” che venivano dal cosmo, l’energia sessuale come energia vitale che il Potere Malvagio voleva ingabbiare e invece bisognava lasciarla libera di spaziare. Reich fuggì negli Stati Uniti per salvarsi da Hitler ma ebbe i suoi problemi anche oltre Atlantico con il maccartismo (era, tra le altre cose, pure comunista). E ad ogni buon conto morì in galera, tanto per chiarire che i profeti dell’amore libero non hanno vita facile nemmeno nella supposta Patria della Libertà.
Non credo sia rimasto molto, a conti fatti, di quella sognante liberazione sessuale della quale diede una notevole raffigurazione Michelangelo Antonioni nella scena centrale di Zabriskie Point (1970), coppie di amanti nudi nel deserto, pelle e sabbia come fusione magica di organico e inorganico. Finiva quel fantastico (e fantasioso) decennio, cominciavano a deperire molte delle illusioni che lo avevano animato e dunque tanto valeva celebrarle, che era anche un modo per salutarle. Cominciarono a fiorire, sull’amore libero, amare satire e sorridenti riflessioni. Non sono riuscito a rintracciare il titolo di un film (inglese? francese?) degli anni Settanta, o forse primi Ottanta, nei quali si raccontava, in forma di commedia, di una Comune nella quale la promiscuità finiva a sganassoni, giù le mani dalla MIA compagna, dal MIO compagno, altro che Peace and Love, altro che coppia aperta. La realtà, che è raramente edificante ma è pur sempre la realtà, presentava il conto. E già nel ’72 Gaber-Luporini, nella canzone Un’idea, registravano l’inevitabile, galoppante ritorno alla prigionia della norma e della consuetudine: “Era un uomo d’avanguardia/si vestiva di nuova cultura/cambiava ogni momento/ma quando era nudo/era un uomo dell’Ottocento”.
Se vi parlo di queste cose lontane, talmente databili che oggi parlare di “amore libero” non fa pensare ai giovani corpi di Zabriskie Point, ma a vecchi hippies ormai ottuagenari e parecchio fumati, è perché, a ogni ennesimo sussulto della violenza sessuale, oggi più esattamente definibile come violenza di genere, e insomma gli stupri, i femminicidi, le botte domestiche e le minacce degli stalker, queste cose mi tornano regolarmente in mente. Perché in tutta la loro ingenuità, la loro irrealizzabilità, la loro fragilità di fronte alla potenza oscura delle pulsioni, però contengono una di quelle verità di fondo che sono ineludibili. “Nessuno è proprietà di nessuno” è il solo principio che potrebbe sciogliere radicalmente il nodo tremendo del possesso morboso o perentorio o soffocante di un’altra persona, al punto di volerla distruggere se non ci appartiene più – o sei mia, oppure non puoi esistere (che è un po’ anche quello che pensa Putin dell’Ucraina, a proposito di machismo).
So bene che questi pensieri fanno parte delle beate utopie, dei princìpi impeccabili ma inapplicabili. Fanno parte della Grande Illusione in mezzo alla quale noi boomer abbiamo avuto la fortuna (o la sfortuna?) di crescere. Però mi piaceva condividerle con voi, in questa prima settimana di settembre, ormai al riparo dai caldi micidiali e pure dagli ingorghi opprimenti, nel fresco che ci rende meglio disposti a ricominciare. L’amore libero, ma vi rendete conto in quali enormi cazzate abbiamo, chi più chi meno, creduto o fatto finta di credere? E però, di fronte all’amore (sedicente amore) carcerario, torvo e violento, nel quale tante donne soccombono al terrore maschile, e padri arcaici (con la complicità di madri arcaiche) uccidono le figlie, e interi popoli sono sottomessi a regimi sessuofobi, come si fa a non rimettere l’accento sulla libertà più elementare e più teoricamente inviolabile, quella del proprio corpo, dei propri passi, del proprio andare e tornare dove si vuole, con chi si vuole, quando si vuole?
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Scrivere sul Post espone alla verifica di lettori molto attenti e molto esigenti (per la nota serie: ho voluto la bicicletta? Ora mi tocca pedalare). E dunque almeno una decina di voi mi ha fatto notare, con amichevole severità, che Papa Francesco è gesuita, non francescano, così come avevo scritto, alla lettera, la scorsa settimana: “Francesco è francescano”. Volevo dire: pur essendo notoriamente gesuita, Francesco è francescano nel senso del Laudato sì e del sentimento panico con il quale guarda alla vita sulla Terra. Volevo anche dire: è francescano perché è il primo papa che ha scelto di chiamarsi Francesco (circostanza abbastanza incredibile, a ben pensarci: moltitudini di Leone, Pio, Innocenzo, Gregorio, Bonifacio, Benedetto, Clemente, Giovanni, Urbano, e perfino Igino, Pasquale, Gelasio, Anastasio, Sergio, Sisinnio, Conone e Agatone). E a chiamarsi Francesco, nonostante l’enorme peso culturale e spirituale del frate rivoluzionario di Assisi, e gli otto secoli trascorsi da lui, questo è il primo e l’unico papa.
Volevo dirlo, ma non l’ho detto, a conferma del fatto che spiegarsi bene, anche se si scrive da una vita, non è mai scontato. In ogni modo, tra le varie osservazioni che mi sono giunte su Bergoglio, trovo insuperabile questa di Stefano: “Bergoglio è gesuita e la cosa più gesuita che poteva fare era proprio chiamarsi Francesco e passare da francescano”. La faccenda potrebbe complicarsi a oltranza, e dunque propongo di chiuderla qui. Non senza aggiungere che sul nome dei papi ho dato il mio valoroso contributo satirico, a suo tempo, annunciando su Cuore l’avvento al soglio dell’arcigno cardinale Biffi, grande fustigatore dei costumi sul finire dello scorso secolo, con il nome di Papa Polifemo I.
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Per non perdere l’abitudine al dibattito (sì, il dibattito sì!), qui di seguito una ulteriore lenzuolata, però breve e molto tagliata, sul tema: la lotta di classe è scomparsa? Si chiama in un’altra maniera? Tornerà? Serve ancora a qualcosa e soprattutto a qualcuno? Sul tema vi consiglio di non perdere, nel prossimo Venerdì di Repubblica, una notevolissima intervista di Riccardo Staglianò ad Abigail Disney, erede dell’omonimo impero, miliardaria e militante politica radicale, fondatrice del movimento “Tax the rich”, tassa il ricco. Un nome che è tutto un programma. E adesso vai con le lettere.
“Il sindacato o non ha capito (e sarebbe grandioso) l’evoluzione del mercato del lavoro in questi ultimi decenni, o ha consapevolmente scelto di fregarsene e dedicarsi a bacini più gestibili di dipendenti pubblici, pensionati ecc. Perdendo tutto il peso che ha di fatto perduto. Oppure, sono buono: non ha trovato gli strumenti per intercettare una domanda di tutela ben presente in una buona fetta del mondo del lavoro che ne è sostanzialmente privo. E a deregolamentare il mercato del lavoro introducendo forme di rapporto sempre più frammentate e a tutto danno del lavoratore è stata una successione di governi, di cui però il primo era di centrosinistra, e quel ministro me lo ricordo bene. Tutta colpa di Tiziano Treu? Certamente no, le intenzioni erano buone. Ma poi, grazie a chi ci ha messo le mani successivamente – governi di ogni colore, nessuno escluso- non si è affatto costruito quel contesto di nuove tutele che era stato immaginato come complemento di una necessaria maggiore flessibilità. Cosa dà maggiore amarezza? È una bella gara”.
Marco
“La scomparsa della lotta di classe deriva dalla scomparsa della coscienza di classe. Non voglio qui perdere tempo ad enumerare quanti ne portino la responsabilità. Il dato di fatto è che gli oppressi non fanno molto di più che lamentarsi, spesso votando a destra. L’obiettivo di trasformare l’intera società, tranne i sempre meno numerosi e sempre più ricchi eletti, in una massa di polli di Renzo è stato centrato. Dovremmo cominciare da qui, da questo dato di fatto.
Siamo una società freneticamente improduttiva, dove ognuno scarica su altri tutta la cacca che riesce a scaricare. Non c’è traccia del senso di responsabilità, non esiste più il noi. Non mi viene in mente nulla di meglio che scuotere le coscienze ad ogni occasione, cosa che peraltro già faccio con qualche risultato. Parlare con le persone, in carne ed ossa. Non restiamo prigionieri del destino scritto da altri.”
Graziano Beghelli, 59 anni
“Sono abbonato, oltre che al Post, a Radio Popolare di Milano da 30 anni. C’è una trasmissione in cui, a un certo punto, qualcuno chiede: Hai chiamato l’ascensore sociale? E l’altro risponde: No, è rotto e nessuno protesta… Quell’ascensore, quando ero piccolo, negli anni 60, non esisteva nemmeno. Poi, a qualcuno è sembrato ci fosse stato regalato dallo ‘Stato Borghese’ per fregarci e imborghesirci. In realtà molti, tutti i giorni, si sono messi con pazienza e determinazione a costruirlo. E io sono modestamente orgoglioso di aver dato un microscopico contributo. Ora è solo un po’ arrugginito ma con qualche aggiornamento tecnico si deve, si può farlo ripartire”.
Francesco, 73 anni
“La grande forza del marxismo era una visione un po’ millenaristica, magari: che cioè il capitalismo inevitabilmente era destinato a crollare, vittima delle sue contraddizioni, e la lotta di classe era appunto una delle forze che avrebbe contribuito al superamento del capitalismo verso una società migliore. Magari per gradi, magari senza troppo fideismo, anche se in alcuni, allora, c’era un vero spirito di “chiesa”, mi tornano in mente i partitini, le sette marxiste leniniste maoiste eccetera. Ma questa idea della lotta di classe come forza della storia, dell’avere la storia dalla nostra parte, è una cosa che mi hai fatto tornare in mente: e credo sia stata importante. E oggi manca. Manca una spinta vera. Mariana Mazzucato, economista, nel suo libro in cui parla di superamento del capitalismo inizia proprio rievocando la carica ideale che negli USA accompagnò e caratterizzò la conquista dello spazio, il viaggio sulla Luna, il discorso di Kennedy. E dice, se ben capisco, che è proprio di questo che abbiamo bisogno, di scopi forti, in comune, pubblici, liberandoci della rassegnazione di dover seguire il profitto a breve”.
Maurizio
“Mi hanno fatto pensare gli interventi sul merito e sulla lotta di classe. Io oggi ho un buon lavoro, mio fratello è magistrato, mia sorella insegna. Tutti siamo e ci riteniamo fortunati perché abbiamo potuto studiare con serenità, mantenuti dall’unico stipendio di famiglia, che poi si è troppo presto trasformato in una pensione di reversibilità. Madre casalinga, padre impiegato, ci è bastato. Siamo stati bravi, perché la vita ci ha dato una possibilità, e anche bravi perché la possibilità la abbiamo poi trasformata in realtà studiando. Quello che mi angoscia è pensare che i miei figli oggi, in teoria, partono da una situazione di privilegio rispetto a me: entrambi i genitori laureati, che lavorano, molti più stimoli e attenzioni. Eppure mi sembra di dare loro di meno, e che forse loro avranno meno possibilità di me”.
Andrea
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Sarebbe crudele e prematuro interrompere l’abitudine dei “techetechetè” estivi. Questa satira di parecchi anni fa parla di processioni religiose. Nel caso che qualche lettore del Post sia devoto a quel genere di riti sia così cortese da non offendersi. È solo per finire in allegria.
Con l’arrivo di agosto, mese mariano, si radicalizza nel nostro Sud il fenomeno delle processioni religiose gestite dai boss mafiosi. L’ultimo caso, che ha destato molto scalpore, quello del boss Ginocchio, capo dei Ginocchio di Santa Fisima, che appena uscito dal carcere ha preteso di portare personalmente in macchina la statua della Vergine, offrendole anche un drink sul lungomare di Locri prima che i carabinieri intervenissero.
Prove di sangue/1 – Nella tradizione meridionale il trasporto della Vergine o del Santo dalla città al santuario a monte, con un dislivello medio di milleduecento metri lungo tratturi impraticabili, è una vera e propria prova di iniziazione. A Pitrì, dove è molto sentito il culto della Madonna delle Disgrazie, i giovani portano in spalle una statua di ottocento chili lungo l’orlo del precipizio, oscillando paurosamente mentre le donne del paese si fustigano con rami di rovo gridando maledizioni contro Giuda Iscariota, ritenuto responsabile della vera e propria strage degli ultimi secoli: in paese i maschi ancora vivi sono pochissimi. Tanto che il boss Bafuso, unico superstite del suo clan perché è all’ergastolo da quando ha sedici anni, è costretto a prezzolare ogni anno una cinquantina di immigrati, reclutati da un caporale, per tenere viva la tradizione issandosi la statua in spalle e precipitando nel burrone con un urlo agghiacciante.
Prove di sangue/2 – A Schiacci, nel cuore dell’Aspromonte, dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità a causa delle centinaia di cartelli stradali finemente crivellati da colpi di fucile, ogni anno le personalità più influenti del paese tentano di sollevare la statua di Santa Ollia (un gigantesco monolito, probabilmente precristiano, pesante diverse tonnellate) allo scopo di portarla in processione. Si è persa, nei secoli, la destinazione del corteo sacro, perché la statua, dopo pochi metri, si rovescia schiacciando i presenti. L’arciprete, che si mantiene a distanza, benedice le salme e nomina il nuovo boss del paese.
La faida – A Pignatuono, da tempo immemorabile, le due famiglie rivali, i Mammorizio e gli Sgamorto, si contendono il diritto di guidare il corteo che porta la Madonna delle Briciole dalla spiaggia fino al monte. La sparatoria comincia un paio di giorni prima dell’Assunta, poi nel giorno solenne le armi da fuoco tacciono e i Mammorizio e gli Sgamorto si affrontano a mani nude, cercando di sottrarsi gli uni con gli altri la statua della Madonna, spesso gettandola dalla finestra del campanile nel tentativo di farla avere ai compari che aspettano di sotto. Essendo di gesso colorato, lungo i secoli la statua ha preso il nome di Madonna delle Briciole. Oggi è contenuta in un grosso cesto, e i restauratori di tutto il mondo la considerano una sfida impossibile, forse perfino più ardua del ripristino dei lineamenti originali nei ritratti cubisti.
Caso limite – I carabinieri di Camminatella Soprana segnalano un episodio gravissimo: per portare la statua del santo sotto il balcone del boss locale, Carmine Ascella, i circa trecento abitanti del paese hanno dovuto andare a piedi fino a Zurigo, dove il boss si trovava per affari, sfilando sotto il suo balcone all’Hotel Zumm Palace. Ascella si è affacciato in canottiera, secondo la tradizione, salutando la piccola folla e costringendo il personale dell’hotel a dire il rosario sotto la minaccia delle armi.
L’imitazione – Per richiamare i turisti il villaggio altoatesino di Odershnap, isolatissimo, si è gemellato con Miricò, un piccolo borgo delle Madonie, emulando la pittoresca processione di Santa Maddalena, famosa perché è forse la sola processione incruenta del nostro Meridione: la gente segue a capo chino, in silenzio e con grande compostezza, una normale statua di legno portata da un normale prete. In mancanza di boss, a Miricò la cerimonia dell’inchino si svolge davanti alla casa dell’ostetrica del paese, donna stimatissima. Il sindaco di Odershnap ha ritenuto che quel tipo di processione fosse molto adatta all’indole degli abitanti della sua vallata. Purtroppo, per un errore di valutazione, la processione è stata avviata lungo la pista di bob ed è precipitata a valle a centodieci chilometri all’ora, tra urla di panico e scene di grande crudezza. Molte le vittime.