Tempo da lupi
Vi avevo già raccontato del lupo lo scorso aprile. Di come la convivenza tra questo fantastico animale e gli avamposti umani su per le valli e i crinali non sia semplice. Ora ci sono novità importanti. Nei giorni scorsi la Commissione europea ha proposto di declassificare il suo status da specie “rigorosamente protetta” a specie “protetta”. Vuol dire che tenerne sotto controllo il numero – nei modi e nei tempi stabiliti da ogni Paese membro dell’Unione – non sarà più un tabù, a costo di dover procedere ad abbattimenti mirati. Per il lupo è un momento complicato, come spesso capita quando si ha troppo successo. La specie non è più a rischio di estinzione, soprattutto in Italia dove i lupi dovrebbero essere, un paio d’anni dopo l’ultimo censimento, circa quattromila, quasi tutti sulla grande dorsale dell’Appennino.
Le campagne di tutela e ripopolamento hanno avuto un grande successo – erano un centinaio in tutto, i lupi italiani, concentrati in Abruzzo, negli anni Settanta del secolo scorso. Ora sono quasi ovunque, risaliti fino alle Alpi Marittime, discesi fino alla Calabria, bene accasati in Maremma, e prosperano in branchi anche di otto-dieci esemplari. Sopravvive circa un terzo dei cuccioli, che sono in media 4-5 per ogni parto; generano figli solo le coppie Alfa; il calcolo approssimativo, non semplice perché le variabili sono tante, è che il numero complessivo dei lupi italiani possa aumentare di due/trecento esemplari ogni anno.
Insieme all’orso, il lupo è il predatore in cima alla piramide alimentare, dalle nostre parti. Come la tigre in India, il giaguaro in Amazzonia, il leone in Africa. E per quanto le prede selvatiche, in virtù dell’abbandono delle valli e dei crinali, abbondino (cinghiali, caprioli, lepri), i lupi, secondo natura, rivolgono la loro attenzione alle prede meno complicate da stanare e divorare. Sono animali molto intelligenti. Si dice: opportunisti. Cercano le proteine e i grassi dove possono trovarli senza bruciare troppa energia. Vuol dire che sanno valutare rischi e convenienze. Dunque, poiché inseguire un capriolo è molto dispendioso, e l’esito è incerto, i lupi puntano, sempre più spesso, agli animali di allevamento e agli animali domestici. Pecore, capre, oche e galline, vitelli, puledri, asini, cani.
Il mio cane più piccolo, un segugio sortito dal bosco tre anni fa, e da allora parte del mio branco, mentre correva in un campo di lavande, a fine ottobre, è stato preso dal lupo. A trecento metri da casa. È un cane molto fortunato, siamo accorsi in quattro (due umani, due cani) urlando e abbaiando – è possibile che, nel putiferio, abbia abbaiato anche io – e siamo riusciti a salvarlo. Salvare la pelle, in questo caso, non è una metafora: è proprio quella che le zanne del predatore bucano e lacerano. Il lupo era un vecchio maschio solitario, ha capito che il nostro branco era compatto e combattivo, ha mollato la preda ed è fuggito. Il lupo ha il terrore dell’uomo, da millenni noi siamo il suo solo nemico. Al tempo stesso il suo nemico e il suo salvatore: vedi quanto è complicato e controverso, il ruolo dell’uomo, sul pianeta Terra.
Abbiamo ricucito il segugio e costruito un grande recinto. I cani è meglio tenerli vicino a casa: sono l’unica preda che, invece di fuggire, corre verso il lupo. In una sola valle del Piacentino, la val Nure, si calcola che i cani scannati dal lupo siano ormai una cinquantina. In parte cani da caccia “morti sul campo”, ovvero predati dal lupo mentre cercavano di braccarlo. In parte cani domestici, ghermiti in assenza del padrone, specie quelli tenuti alla catena per una perdurante e ignobile usanza contadina. Il cane alla catena, se arriva il lupo, è un cane morto.
Io con il lupo ci convivo. Non nell’immensa solitudine nella quale il tenente John Dunbar (Kevin Kostner) incontra il lupo solitario Due Calzini: così soli e così distanti da tutto, l’uomo e il lupo, che diventano fratelli. Il mio avamposto è pur sempre in una valle antropizzata, come tutte le valli. Non è il galoppo dei cavalli, ma il rumore dei motori e le sirene delle ambulanze che attraversano i boschi e arrivano alle orecchie attente degli animali selvatici.
Li sento ululare di notte, e nella nebbia fitta la loro voce esercita un potere ancestrale: è la natura che ti dice “non sono un idillio, non sono un’arcadia, sono il regno delle zanne, delle fauci, della corsa, dell’equilibrio luttuoso e al tempo stesso virtuoso tra le diverse specie”. Ogni tanto lo avvisto, mezzo argenteo, mezzo bruno, che fugge dove solo lui sa. Io so poco di lui, lui di me quasi tutto, non un solo mio spostamento gli sfugge, conosce i rumori della mia casa e delle mie macchine (l’automobile, il trattore), mi evita, mi aggira, mi sorveglia.
Sono preoccupato per lui. La sua energia, la sua intelligenza, la sua prolificità lo stanno rendendo, lui così sfuggente, troppo visibile e troppo invadente. Specie in quella zona di confine dove l’uomo tenta disperatamente di non abbandonare la montagna, fa agricoltura, fa allevamento, fa pastorizia, l’impatto con il lupo a volte è duro e lo è per entrambe le bestie, il quadrupede e il bipede. Già scrivevo, il 10 aprile scorso: «Confido nella lungimiranza delle autorità: che siano più forti degli animalisti integralisti e più forti di chi vuole fare giustizia sommaria. Ci vuole una politica del lupo, ci vuole una politica della natura».
Tradotto in parole semplici vuol dire che la gestione del lupo minaccia di essere consegnata all’arbitrio dei privati, dunque al caso. I risarcimenti per le bestie domestiche scannate, i finanziamenti per i presidi difensivi (recinti, cani maremmani) fanno qualcosa, non abbastanza. Gli uomini degli avamposti di montagna sanno benissimo che uccidere un lupo è reato penale. Ma qualcuno, per proteggere pecore e vitelli, lo fa ugualmente, non lo dice a nessuno e sotterra la carcassa, perché è così che accade quando le autorità non governano i fenomeni. La gente si sente autorizzata a fare da sé; si arma e si sente investita di diritti e facoltà che dovrebbero appartenere solo allo Stato; e fa sicuramente peggio di quanto potrebbero e dovrebbero fare le famose autorità competenti. Che sono, a occhio e croce, l’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), la Guardia Forestale, il Ministero dell’Agricoltura e Foreste, il Governo, le Regioni, gli ATC (Ambiti Territoriali di Caccia), e a vario titolo le associazioni benemerite che si occupano da sempre di salvaguardia della fauna selvatica, prima tra tutte il glorioso WWF.
Sono gli esperti – quelli che sanno come sono composti i branchi, di quanto territorio ciascun branco ha necessità, eccetera – che dovrebbero stabilire il da farsi. Sedando alcuni esemplari e portandoli altrove, per esempio. O decidendo, quando sia il caso, abbattimenti mirati, che preservino la salute del branco ed evitino la formazione di branchi ulteriori: già troppi per un territorio già saturo. Ma sono pessimista. Nessuno prenderà decisioni, troppo impopolare l’idea di proteggere il lupo controllandone il numero, e per altro verso troppo difficile spiegare a una società così ottusamente antropocentrica che con i predatori dobbiamo imparare a convivere, minimizzando i rischi, non certo azzerandoli. Se vogliamo il lupo (e lo abbiamo fortemente, tenacemente voluto) un prezzo minimo dobbiamo pagarlo. Nel prezzo minimo, non metterei i cani scannati: i cani sono persone di famiglia.
Azzardo una previsione: nessuno farà niente, nessuno deciderà niente, e al primo incidente uomo-lupo (dopo un paio di secoli dall’ultimo) scoppierà il famoso “caso mediatico”, grande emotività, insulti reciproci tra il fronte “giù le mani dal lupo” e il fronte “basta con quelle bestiacce”. Lo sgoverno è sempre la via peggiore, ma è anche la via più facile da imboccare. Così accadrà, vedrete. Io e il lupo, nel frattempo, cercheremo di arrangiarci da soli.
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La Teresa di Cerignale ha detto a suo figlio che si sentiva stanca e aveva bisogno di coricarsi. Dieci minuti dopo si è addormentata per sempre. A novantaquattro anni, ne aveva il diritto.
Fino a pochi giorni prima era ai fornelli del suo ristorante di montagna, a cavallo tra Emilia e Liguria. La sua specialità erano i “pin”, gnocchetti di farina e ricotta che di stagione in stagione accolgono, nell’impasto, quello che la natura offre. In primavera, una volta, i pin si facevano anche con le primule. I suoi erano leggendari, per mangiarli salivano dal mare e dalla pianura padana. Teresa ha preparato, nella sua lunga vita, milioni di pin – oltre a tutto il resto. Ha sfamato e rallegrato un numero di persone così grande che non è possibile calcolare quante. Sotto la grande pergola del suo ristorante i tavoli hanno visto sedersi almeno tre generazioni in convivio: mangiare bene, bere bene, conversare, ditemi se conoscete una maniera migliore per ammazzare il tempo.
Sicuramente ha ragione chi sostiene che il genere è in larga misura anche un portato culturale. Ma possiamo ben dire che è stata una formidabile e propizia manomissione della storia quella che ha portato certe donne, come Teresa, a diventare nutrici e matriarche, al comando di un esercito di mestoli, pentole, taglieri che fa impallidire, per la sua bellezza e la sua sapienza, le armate (maschili) preposte alla guerra. È un archetipo, quello delle Terese, al tempo stesso sontuoso e umile, semi-divino (Demetra, Cerere) e terra-terra. Ha la luce del cielo e profuma di orto. Siano benedette le mani di Teresa, uguali alle enormi mani di madre che campeggiavano, in bianco e nero, come un’immagine sacra, nel ristorante di Piero Alciati a Pollenzo. In quel caso non erano i pin, erano i ravioli del plin (chissà se l’etimo li apparenta) il prodotto quotidiano ripetuto all’infinito, come una forma perfetta e invariabile. Altrove sono agnoli e agnolotti, tortelli e tortellini, pici, trofie, anolini, cappelletti, cappellacci, vincisgrassi, ravioli, pansotti, panzerotti, casoncelli, culurgiones, lasagne. Sono le molteplici forme del trionfo dell’uomo, anzi della donna, sulla fame e la solitudine.
E questo era anche un modo, sonoro e profumato (non lo sentite il profumo del burro fuso con il parmigiano grattato?) per augurarvi Buon Natale e buone feste. Non esagerate con il cibo, ma non esagerate, nemmeno, con la sobrietà. A modo mio, vi abbraccio tutti. Il lupo, qua attorno, alla sua maniera è partecipe.