Taylorismo
Sto pedinando Taylor Swift. In senso buono. Da qualche mese, sull’onda del suo debordante successo negli Stati Uniti, e di rimbalzo in tutto il mondo, cerco di capire il fenomeno. Ovvero la trasformazione di una “ordinaria” star della musica pop americana in icona di massa, con un fatturato mirabolante (tipo Beatles, Michael Jackson, Madonna) e ormai capace di influenzare gli orientamenti politici: un suo post su Instagram avrebbe spinto 35mila americani a iscriversi nelle liste elettorali (era già successo, condizionale d’obbligo). Su di lei sono annunciati corsi a Harvard e in altre “prestigiose università americane” (non si hanno mai notizie di quello che accade nelle università non prestigiose). È lei la “persona dell’anno 2023” secondo il settimanale Time, per quello che conta: conta quanto basta perché, da quando leggo i giornali, cioè da quasi sessant’anni, io sappia ogni anno qual è la persona dell’anno secondo Time.
Ho ascoltato una dozzina di sue canzoni, non so se siano quelle giuste da ascoltare ma sono comunque le più ascoltate; visto spezzoni dei suoi concerti; visitato i suoi siti, anzi sitoni, e quasi comprato una felpa ma poi non sapevo a chi regalarla; letto diverse cose su di lei. L’ho fatto, diciamo così, con un pregiudizio a favore. Mi interessa, anzi mi piace sapere che cosa di nuovo e potente può ancora accadere nel mondo. Nella certezza che qualcosa di nuovo e di potente, nel mondo, debba ancora accadere, come è ovvio che sia. (In confidenza: non avrei mai cominciato a scrivere queste newsletter non fosse per il desiderio/bisogno di mettere in discussione le mie esperienze, convinzioni e pigrizie confrontandole con “il mondo dopo di me”. Fa testo, tra le altre cose, la recente digressione, fatta assieme a voi lettori, su quali sono “i nuovi maestri e i nuovi punti di riferimento”, che i miei li so già e li conosco fin troppo).
Fate conto: un tizio di una certa età, ancora curioso di capire che cosa sta succedendo in giro, interrompe il suo lavoro di archiviazione di dischi, libri e conserve alimentari, esce di casa e gli dicono: c’è Taylor Swift. Bene, risponde il tizio. Voglio assolutamente conoscerla, questa Taylor Swift.
Fatta questa premessa, devo dirvi che TS mi piace: sa cantare, è bella, è sicura di sé, non bamboleggia e anzi se ne sta dritta e orgogliosa davanti allo sguardo pubblico. Volendo – forse perché da poco ho visto Blonde, lo spietato film che racconta Marilyn Monroe come agnello sacrificale del Padre e del Maschio – TS è giusto il contrario di Marilyn. Non ha niente da chiedere, tantomeno da implorare, è visibilmente al comando della propria vita. Ed è decisamente un salto d’epoca, la bionda americana che non ha niente da chiedere e canta solo quello che pare a lei (ha anche denunciato, per una faccenda di diritti, il suo vecchio produttore), rispetto alla bionda americana in disperata attesa della benevolenza maschile. Certo, lo aveva già fatto Madonna, quel salto d’epoca. La strada era aperta da parecchi anni. Ma bisogna saperla percorrere, e TS lo sta facendo al galoppo.
Detto questo, che non è poco, va aggiunto che non è ancora abbastanza per capire perché questa ragazza tosta, con un repertorio brillante ma non inconfondibile, una voce brillante ma non inconfondibile, una presenza scenica brillante ma non inconfondibile, sia diventata la nuova regina dello star system americano e dunque mondiale. Ce ne sono parecchie altre, sulla scena, di giovani showgirl gagliarde, intonate, coreografiche, capaci di occupare un palcoscenico grande cento volte la cameretta da teenager dalla quale sono sortite. Perché lei sì e altre no?
Il repertorio di TS mi è sembrato un pop a largo spettro, molto ben confezionato, prevalentemente country (da quella musica lei proviene) ma aperto a molte altre sonorità. I testi sono prevalentemente gradevoli, che non vuol dire necessariamente banali, ma nemmeno da leggere e rileggere come i grandi cantautori nordamericani, tipo Dylan, Tom Waits, Lou Reed, Joni Mitchell o altri più contemporanei. Esiterei a riconoscere ai testi di TS “valore letterario”, per quello che conta la mia opinione, forse non coincidente con quella delle prestigiose università americane. Anche la comunicazione del personaggio è tipicamente mainstream: non disturbante, senza opacità, coinvolgente, luminosa, sorridente.
Ho letto un po’ di “spiegazioni” del fenomeno, ma non mi hanno aiutato più di tanto a cogliere la sua unicità. È “attenta ai problemi della gente comune”, e ci mancherebbe, con il mestiere che fa, che della gente comune se ne infischiasse. I suoi testi “li possono capire tutti e riconoscersi nelle situazioni”; e anche qui, non mi sembra un elemento di distinzione così evidente. Infine, “la sua musica ha saputo evolversi dalle origini country”, perché TS è curiosa, dinamica, disposta ad assorbire sonorità diverse. E questa sua uscita dal country “stretto” delle origini pare abbia coinciso con una decisa apertura delle sue idee politiche: il country, si sa, è in prevalenza conservatore. Ma la crescita delle prospettive e delle ambizioni espressive vale per decine e forse centinaia di musicisti e cantanti di tutte le epoche.
In conclusione. Qualcuno mi dia una mano (anche il Peraltro, che sul pop è un pozzo di scienza). Fornitemi degli indizi. Indicatemi un codice di lettura. Non lasciatemi qui da solo a pensare che basti essere una eccellente interprete della “medietà” (che non vuol dire mediocrità, ma nemmeno eccellenza) musicale, esistenziale, artistica per diventare la Numero Uno del mondo.
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I commenti al mio lungo articolo sul Post per “Storie/Idee”, dal titolo “Prima l’italiano”, sono stati tanti e vivaci. Alcuni mi hanno colpito, al punto che voglio condividere con voi un paio di riflessioni nel merito.
L’articolo era mosso da una tesi di fondo, che qui sintetizzo: la lingua italiana del ceto politico e dei media (insomma, l’italiano “pubblico”) mi sembra sempre più deformata dalle inflessioni locali, specie dal romanesco della presidente del Consiglio, del suo entourage e di buona parte dei giornalisti Rai, un tempo tenuti per contratto a una dizione corretta: ma non solo dal romanesco. Ne traevo – con tutto l’arbitrio che OGNI lettura personale di un fenomeno comporta – un’impressione molto più generale: che siano le “forme” in sé a essere mal sopportate da buona parte del nostro popolo e dai suoi rappresentanti, a partire da quella “forma nazionale” per eccellenza che è, o sarebbe, la lingua italiana. In sostanza, azzardavo una lettura politica dell’eloquio di Giorgia Meloni.
Ringrazio i molti che si sono detti d’accordo, o interessati; non è mai scontato, quando si scrive, che ci siano lettori contenti di quello che hai scritto. Ma ringrazio anche il manipolo, nutrito e vigoroso, dei critici, perché mi dà l’occasione per provare a dire un paio di cose che mi sembrano importanti. Ancora più importanti se scritte sul Post.
Le critiche si dividono, grosso modo, in due gruppi. Critica tecnica: non puoi parlare di lingua se non sei un linguista; o se non ti sei consultato, per l’occasione, con alcuni linguisti. Mi si rimprovera, per esempio, di “non distinguere diglossia da bilinguismo”, ed effettivamente non li distinguo. Cosa che non mi impedisce di registrare che l’italiano di Meloni rivela una spiccata inflessione romanesca: basta l’orecchio, non serve un corso di laurea in fonetica. Poi c’è un secondo gruppo, che definirei di critica “etica”: non ci si deve permettere di far notare a chi dice “subbito” che la pronuncia corretta della parola è “subito”. Avendolo fatto merito l’accusa di “glottofobia, elitismo e razzismo”, e perfino di essere in sintonia con Alain Elkann, capo di imputazione che mi ha messo di buon umore a causa della evidente caratura comica del modello.
In estrema sintesi. Alla critica “etica” rispondo che il limite tra il rilievo critico e l’offesa è spesso ambiguo e alquanto soggettivo, e non esiste autorità morale che possa tracciarlo in modo inoppugnabile. Riguardo all’uso delle parole non ho l’intransigenza “liberal” di Guia Soncini (della quale pur tuttavia ammiro molto il piglio battagliero del suo L’era della suscettibilità), ma non sono neppure disposto ad ammettere che gli errori di dizione, e gli errori in generale, non meritino di essere sottolineati per non incorrere in “glottofobia” e altre fobie. Non si dice subbito. Si dice subito, con una sola b, cazzo! E farlo notare fa pienamente parte di quell’esercizio (anche) pedagogico che è il lavoro intellettuale.
Quanto alle critiche “tecniche”, la risposta è semplice. Se dovessi scrivere solo di ciò che conosco in modo approfondito e completo, potrei scrivere solo delle motociclette costruite dal 1970 al 1985: credo non esista un solo modello che mi sia sconosciuto. Ma dubito che questo mi avrebbe permesso di farmi leggere, lungo tutti questi anni, da un numero rilevante di persone. Dubito anche che mi avrebbe permesso di allargare le mie nozioni, migliorare il mio italiano, permesso una comunicazione così ampia e così varia con una fascia di lettori che solo in piccolissimo numero è interessata alle motociclette degli anni Settanta.
Come è ovvio (e come il Post, con suo grande merito, ha reso ben più ovvio rispetto a quasi tutti gli altri giornali) si deve controllare quello che si scrive e si deve cercare di non commettere errori. Anche se questo non porterà mai al cento per cento di “esattezza”, ci si avvicinerà al 95 per cento, ed è già un buon traguardo, oltre che un dovere deontologico (era un sacco di tempo che non mi capitava di usare “deontologico”). E dunque prometto di approfondire, nelle prossime ore, la differenza tra diglossia e bilinguismo.
Ma mi tengo stretto il mio diritto, che è anche mio dovere, di avere delle opinioni, soprattutto opinioni politiche, e di scriverle. Se c’è una disciplina indefinibile “tecnicamente”, legata a fattori molteplici e cangianti (culturali, sociali, individuali, familiari, psicologici) è la politica. Ogni digressione intellettuale e ogni valutazione politica è sempre “a rischio”. Confutabile, smentibile da considerazioni opposte o complementari. E dunque? Si tace per prudenza? Si decide che solo le competenze tecnico-accademiche consentono di affrontare gli argomenti, uno per uno, beninteso, guai a mischiarli e guai a impicciarsi degli argomenti “altrui”? E se poi si muore di noia, e di pedanteria, e nessuno azzarda più mezzo discorso politico (difatti la politica, di questi tempi, quando non è sboccata è afasica) perché teme di non avere raccolto abbastanza dati, mettiamo, sulla produzione di tuberi nel mondo, cosa che gli impedisce ogni valutazione sul tema della fame o della povertà? E il famoso “ruolo degli intellettuali”, per quanto scalcinata o improbabile sia la mia annosa interpretazione di quel ruolo, non sarebbe correre tutti i rischi che la parola porta con sé? O ci limitiamo solo a discorsi forbiti e precisini sulle due cose che sappiamo per benino, tacendo su tutto il resto pur sapendo che “tutto il resto” è moltissimo, e ci riguarda?
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“Buongiorno,
sono Gabriele (di 17 anni) e innanzitutto devo dire che rivedere le mitiche Zanzare Mostruose mi ha decisamente rallegrato, ho sentito la loro mancanza. Riguardo al discorso sul riformismo (Ok boomer della settimana scorsa, ndr) ho delle idee ambivalenti: una parte di me vorrebbe solo dare fuoco a tutto (metaforicamente), mentre un’altra è consapevole che per ottenere un cambiamento sistemico non si può smantellare il patriarcato di botto, ma bisogna inserirsi nel sistema, capirlo e modificarlo con tenacia. Anche perché il cambiamento è già in atto, solo che non è completo, e la popolazione degli uomini non disabili, bianchi, etero e cis (gruppo al quale non appartengo) deve trovare un modello a cui ispirarsi, delle sicurezze, perché come ha detto lei il potere maschile si è trasformato in ‘terrore maschile (terrore da detronizzati)’. Personalmente sono convinto che il genere è un mero costrutto senza basi biologiche, e che è solo un caso che nella nostra cultura si sono imposti proprio questi stereotipi di genere e non altri: il genere non è altro che un’invenzione di gruppo e se non funziona più non ha più senso mantenerlo”.
“Detto in altre parole il cambiamento che voglio vedere non è l’abolizione del sessismo, ma proprio la scomparsa del concetto di genere, che nella mia esperienza (anche se limitata) porta solo sofferenza. Visto che il cambiamento che auspico è più che drastico, a maggior ragione so che un approccio brusco porterebbe solo a una reazione di rifiuto che bloccherebbe qualsiasi progresso. Sono quindi giunto alla conclusione che c’è più bisogno di perseveranza che di rabbia esplosiva, quanto meno per questo obiettivo. Certo, ciò non significa che sono contrario alle manifestazioni, dico solo che scendere in piazza serve a dare voce a uno sentimento comune che è già stato coltivato prima da una sensibilizzazione costante. Le discriminazioni di genere sopravvivranno a lungo, temo, ma i passi che facciamo adesso a qualcosa servono tutti, tanto quelli riformisti quanto gli altri. Almeno spero”.
Gabriele
Caro Gabriele, se frequentassi una bocciofila di anziani (ancora qualche anno e lo farò) mi vanterei con gli amici: tra quelli che mi leggono e mi scrivono ci sono anche diciassettenni. Chiuso questo angolino delle vanità, entro nel merito. Non credo che il genere sia “un mero costrutto senza basi biologiche”. È senza dubbio, e lo è in larga parte, un costrutto culturale, ideologico e psicologico lungo molti secoli (a partire dal Dio monoteista, che è un Dio Padre) ma le basi biologiche esistono, e hanno un peso tutt’altro che secondario nel farci sentire ciò che sentiamo di essere, o anche ciò che non ci sentiamo di essere.
In ogni modo, basta l’enorme componente culturale e politica di ciò che chiamiamo patriarcato a rendere appassionante l’argomento, e molto dura la lotta di chi vuole intaccare i luoghi comuni, creare nuove identità individuali e nuovi spazi sociali. Sono molto d’accordo, dunque, quando dici che c’è molto più “bisogno di perseveranza che di rabbia esplosiva”, perché “un approccio brusco porterebbe solo a una reazione di rifiuto”. Cambiare il mondo è molto complicato. Forse la formula giusta potrebbe essere: bisogna avere uno sguardo rivoluzionario ma adottare una pratica riformista. Senza il primo e senza la seconda non si arriva da nessuna parte.
Infine: appartengo innegabilmente al gruppo “bianco, etero, cis”, ma già “non disabile” è definizione confutabile. L’età cambia parecchie cose. Ci vedo di meno, ci sento di meno, cammino con meno baldanza e la lombosciatalgia si fa sentire. Ci sono cose che non posso più fare. Come vedi, purtroppo, le basi biologiche hanno il loro maledetto peso non solamente sui generi. Stammi bene, Gabriele, vai diritto per la tua strada.
“Sono del ’37 e non ricordo che nome viene dato a questa generazione di sopravvissuti. Sono lo stesso affezionato e grato lettore che si lamentò di non aver sentito citare Cipolla quando si parlò della stupidità. Oggi ho un gran dispiacere (parlando di maestri e punti di riferimento, ndr) a non sentir mai citare Pasolini, i suoi Scritti corsari e altro ancora. Devo constatare che v’è difficoltà a distinguere un Maestro da un bravo Cantastorie. Illuminati e meritevoli anche loro, ma troppo evanescenti e circoscritti”.
Nonno Giuseppe
Già, che nome viene dato (o che nome possiamo inventarci) per la generazione che precede i boomers? Gli antenati? I novecentini? La Generazione G (una guerra mondiale sul groppone), o adottiamo quelle anglofone?
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CINESE UCCISO A COLTELLATE: È GIALLO
Zanzare mostruose comincia con questo magnifico “classico” del 2012 (tratto dalla Nazione, pagine di Prato, la segnalazione è di Giulio). E dire che Prato, di cinesi, dovrebbe avere pratica. Ma anche l’Unità, negli anni Sessanta, aveva gran pratica dei leader progressisti africani, tra i quali il celebre Patrice Lumumba, primo ministro del Congo. Eppure sotto una sua fotografia, in prima pagina, apparve questa didascalia:
LUMUMBA SCURO IN VOLTO ESCE DAL PALAZZO DELL’ONU
Notevole anche questo recente titolo (è del 2 dicembre scorso) di VicenzaToday, segnalato da Giuseppe:
CADAVERE RITROVATO A MONTE BERICO. DA QUALCHE GIORNO AVEVA FATTO PERDERE LE SUE TRACCE
Il dinamismo dei cadaveri, a volte, sorprende. Anna invece attinge dallo sterminato repertorio “rapporto uomo/animali”, ispiratore di decine di barzellette, prevalentemente oscene. Il titolo è del 2014 ed è uscito su Today:
IMPRENDITORE VIOLENTA LA GALLINA DELLA VICINA DI CASA: BECCATO
Il titolo, aggiunge Anna, apparve anche sul Mattino di Padova, sul Gazzettino e su Padova Oggi, ma senza il magistrale tocco finale: beccato. Interessante anche l’approfondimento contenuto nell’articolo relativo: “Nel 2007 era stato denunciato per atti osceni quando si era esibito nel cimitero di Legnaro di fronte ad alcune vedove in preghiera sulla tomba del proprio consorte.”
Gran finale da Il Saronno, segnalazione di Leonardo:
SARONNO, SORPRESO MENTRE RUBA UN PAIO DI PANTALONI CAMBIA IDEA E LI PAGA