Speriamo che smetta
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Speriamo che smetta
Michele Serra
Martedì 22 ottobre 2024

Speriamo che smetta

«Abbiamo nuove macchine, nuovi materiali, nuove conoscenze in grado di rifare gli argini più velocemente, suturare le frane, mettere in sicurezza le strade e le case. Farlo o non farlo dipende solo da noi, da come vogliamo spendere i soldi pubblici, da quali sono le famose priorità, ovvero: che cosa è più importante e più lungimirante mettere davanti a tutto il resto»

(ANSA/VIGILI DEL FUOCO)
(ANSA/VIGILI DEL FUOCO)

“Piove, senti come piove, Madonna come piove, senti come viene giù.”

Nella mia fetta di Appennino la pioggia è scesa per cinque giorni di seguito, con brevi intermezzi di azzurro e un paio di arcobaleni sbiaditi, incerti se annunciare la tregua. E i cani che non volevano uscire, e ogni tanto guardavano fuori prima di ributtarsi sul pavimento con un sospiro filosofico – che noia, ma prima o poi tornerà il sole, è sempre stato così.
È perfino successo che un gufo, stanco di sentirsi fradicio, abbia deciso di rifugiarsi in casa mia, entrando da non si sa dove – i rapaci notturni sono una delle più evidenti prove dell’esistenza degli spiriti. E ho dovuto faticare parecchio, in una notte buia e tempestosa, quella tra sabato e domenica, per dividerlo dal gatto (una rissa mai vista) e avviarlo, con molta pazienza (come si parla ai gufi?) verso una finestra e verso il bosco dal quale era venuto.

Con il mio vicino siamo andati un paio di volte a controllare fossi e torrenti qui attorno, gli stessi gesti, le stesse parole e lo stesso spirito degli avi, noi uomini sotto, il cielo sopra di noi, immenso e totalmente autonomo nelle sue decisioni.
“La terra che ci ospita/ comunque è l’ultima/ a decidere”: dopo Jovanotti canticchio anche Niccolò Fabi (“Filosofia agricola”), più passano gli anni e più canticchio. E non posso lamentarmi del repertorio, che è ampio e buono quasi per tutte le occasioni. Sono stato fortunato, quanto a canzoni.

“Speriamo che smetta”, dice il mio vicino. “Speriamo”, aggiungo io, ed è una conversazione che risuona identica dall’inizio dei tempi, anche l’intelligenza artificiale, incrociando miliardi di parole spese in migliaia di anni su migliaia di argini dell’intero pianeta mentre si valuta con lo sguardo il livello del fiume, non saprebbe dire qualcosa di diverso: speriamo che smetta. Immagino che la preghiera e la bestemmia (che sono le due facce dello stesso discorso) siano nate proprio guardando il cielo, maledicendo la siccità o ringraziando per la buona stagione, imprecando per la distruzione, la frana, il fango, benedicendo la neve quando arriva a proteggere dal gelo i germogli nei campi.

A parte Elon Musk, che sicuramente ha in programma il controllo personale del clima terrestre con un joystick entro un paio d’anni, in concomitanza con lo sbarco su Marte e con la resurrezione dei morti; e a parte una ristretta cerchia di tecnomani convinti che sarà la tecnologia in quanto tale a risolvere ogni problema, lenire ogni ansia, cancellare ogni soggezione; noi altri, tutti quanti, sappiamo che la tecnologia è una gran cosa, un’uscita dalle tenebre, un riscatto dalla paura e dall’impotenza: a patto che si impari a usarla per il vantaggio di tutti, o perlomeno di molti, e a patto che la spocchia non abbia il sopravvento, che non ci si illuda di poter condurre il gioco come se fossimo i padroni dell’universo e non una sua microscopica e miracolosa conseguenza.

Se per esempio uno viene a dirti: presto aboliremo batteri e virus e vivremo in un mondo sterilizzato, è meglio stargli alla larga, e sperare che nessuno lo nomini mai ministro. Se invece uno viene a dirti: presto troveremo il modo di curare sempre meglio, e in maniera sempre più estesa, gli effetti di batteri e virus sull’uomo e sugli animali, perché con batteri e virus ci tocca comunque convivere: beh, possiamo fidarci di lui.
Con il clima è lo stesso. Non ci sono scorciatoie, non esiste il tocco geniale che mette in fuorigioco Giove, Eolo e Nettuno in un colpo solo. La Terra sarà comunque sempre l’ultima a decidere, ma possiamo fare parecchio, o almeno qualcosa. Per rallentare il riscaldamento del pianeta; per curare le ferite che la potenza degli elementi ci infligge; per governare meglio le acque, rimediare alle siccità, contenere le alluvioni, soccorrere i colpiti, ridurre le morti. Abbiamo nuove macchine, nuovi materiali, nuove conoscenze in grado di rifare gli argini più velocemente, suturare le frane, mettere in sicurezza le strade e le case. Farlo o non farlo dipende solo da noi, da come vogliamo spendere i soldi pubblici, da quali sono le famose priorità, ovvero: che cosa è più importante e più lungimirante mettere davanti a tutto il resto.

La tecnologia è una ruspa. Nuova fiammante. Si possono fare molte cose, con una ruspa. Tenerla ferma o metterla in moto, intanto. Rifornirla di gasolio o decidere che i soldi del gasolio meritano altra destinazione. Avviarla a lavori di pubblica utilità o stabilire che una corsa di ruspe sarebbe molto spettacolare e divertente. La politica, in definitiva, è più importante della tecnologia, e forse uno dei grandi problemi (difetti) della nostra epoca è che ce lo siamo dimenticati.

Piccola riflessione a latere, ispirata da qualche chat e qualche ripescaggio di vecchi articoli che hanno ripreso a circolare in questi giorni, ennesimi, di alluvione. Nel 2014 il governo Renzi aveva istituito una struttura interministeriale battezzata Italia Sicura, con l’obiettivo di contrastare il dissesto idrogeologico del nostro delicatissimo Paese, che è tutto valli e crinali, una specie di enorme toboga che ogni diluvio usa per dilavare il terreno e allagare le bassure sottostanti. Era stato scomodato, per l’occasione, anche Renzo Piano. Si monitorarono i lavori in corso, si scoprì che un sacco di soldi erano già stati stanziati, pochissimi spesi, i lavori avviati erano appena il 20 per cento, dei quali conclusi solo il 5 per cento (un cantiere sui venti!), quelli rimasti sulla carta l’80 per cento. Si decise che i presidenti di Regione erano, in automatico, commissari straordinari per il dissesto del territorio, e grazie a iter accelerati e poteri accentuati potevano, entro 30 giorni, avviare i lavori di rammendo.

Sembrava una buona idea, ma qualche ministero si sentì meno importante, qualcuno criticò l’eccessivo accentramento di potere di Italia Sicura, e quattro anni dopo, nel 2018, il primo governo Conte provvide a smantellare tutto. Non sono un fan di Renzi, nemmeno di Conte, ma come avrete sicuramente capito stiamo parlando d’altro. Stiamo parlando di quanto sarebbe importante, e quanto è complicato, che la politica decida finalmente che cosa fare di una ruspa in buona parte inutilizzata. È lì, nuova fiammante: potete vederla meglio, adesso, perché nel frattempo ha smesso di piovere, è tornato un poco di sole e i torrenti qua attorno, piano piano, stanno passando dal rombo furibondo dei giorni scorsi a un bel rumore di acqua ruscellante.

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Ancora tante, tantissime mail sulla paura del futuro, l’ansia del presente e la differente percezione dell’una e dell’altra a seconda che si sia vecchi o giovani o a metà strada. Nello scorso numero ho scelto di dare voce a una ventina di ragazze e ragazzi che in prevalenza non erano di buon umore: specie quando parlavano di lavoro e di stipendio. Questa settimana ne pubblico solo due, non di ragazzi, di padri di famiglia. Mi sono sembrate molto intense (vita vissuta) e piuttosto diverse l’una dall’altra, o forse complementari, nel senso che una completa l’altra. Jacopo dice, in sostanza: i ragazzi dovrebbero essere molto più incazzati con noi di quanto sono. Marco dice: il mondo fa schifo, ma dirlo non serve a niente, bisogna darsi da fare.

“Sono nato nel ‘71, operaio, due figli di 20 e 24 anni. Una ventina di anni fa una vicina di casa, in pensione, conclude un breve scambio di convenevoli con un (non richiesto) ‘certo che voi vivete in un bel mondo, oggigiorno. Noi, una volta…’. Mi è un po’ scesa la catena, ho risposto educatamente che mio padre manteneva una famiglia di quattro persone con uno stipendio da rappresentante di tipografia, mia madre lavorava saltuariamente, si facevano dei sacrifici ma il piatto era sempre pieno e l’affitto pagato. Io invece, con uno stipendio, a Bologna non riuscivo a mantenere nemmeno me stesso. Allora lavoravo come magazziniere, contratto a tempo indeterminato, stipendio fisso e tuttavia il monolocale-gattabuia in periferia aveva un affitto che equivaleva a circa tre quarti del suddetto stipendio, col rimanente quarto potevo scegliere se pagare le bollette o in alternativa fare la spesa al discount. Non avevo automobile, andavo al lavoro in bici. Mi ero rassegnato a dividere l’affitto di un bilocale con un operaio marocchino in stanza con me; nell’altra uno studente del DAMS e un altro ragazzo lavoratore”.
“Poi, un passo alla volta, mi sono sposato e con due stipendi e qualche aiuto siamo riusciti a fare partire le cose, a metter su famiglia, come si dice. Ho iniziato a lavorare tardi, complice un goffo tentativo di studiare all’università: potevo esibire un diploma di liceo scientifico, valore di mercato zero. Ho trovato posto in una carrozzeria, su raccomandazione (ovviamente). Da lì sono passato al magazzino e in seguito alle caldaie. Tutto questo per dire che, per la mia piccola esperienza personale, la precarietà economica, l’incertezza del futuro, la mancanza di possibilità di progettare sono sotto i miei occhi da almeno una trentina di anni. Dunque capisco la frustrazione e la disillusione di chi inizia a lavorare oggi, purtroppo la mia generazione e quella precedente, pur avendo il problema davanti al naso, non sono riuscite o non hanno voluto fare niente per risolverlo. Trovo che queste ragazze e ragazzi, i ventenni (lustro più, lustro meno) di oggi, siano ammirevoli. Ne conosco tanti davvero in gamba, intelligenti, svegli, aperti, volenterosi, sul pezzo. Sono adatti al mondo in cui sono nati, che a ben guardare è quello che noi abbiamo preparato per loro. Si sono guadagnati gli anticorpi per sopravvivere, riusciranno a fare belle cose, ho tanta fiducia in loro”.
“Con mia moglie frequentiamo uno squinternato gruppo di persone che fa volontariato. Età media molto alta, siamo tra i più giovani. Servirebbe un ricambio, sangue giovane, qualcuno che prenda in mano la baracca e la porti avanti. Detto fatto provo a tirare dentro i figli, che accettano e partecipano. Ma un po’ alla volta, dopo un paio di anni, iniziano a mollare la presa. Ne parliamo a cena. “Pa’, ma cosa vengo a fare? Non mi fanno fare niente…”. Questo è il punto. I vecchiacci sono aggrappati ai loro ruoli, alle loro posizioni, al loro piccolo angolo di potere e non mollano. Quando uno dei ragazzi (i miei non sono gli unici figli che hanno provato a dare una mano) propone: ‘monto il gazebo?’, la risposta è: ‘no, no, lascia, faccio io’. ‘Allora carico i tavoli sul furgone?’ ‘Eh no, vanno messi in un modo particolare, lascia, facciamo noi’. ‘Allora friggo le crescentine?’ “No no, per carità! Lascia che faccio io’. Certe volte mi prende la sensazione che le ragazze e i ragazzi stiano aspettando con pazienza infinita che noi vecchi tromboni ci si levi di torno per poter tirare un lungo e sconsolato sospiro, rimboccarsi le maniche, raccogliere i cocci e cercare di salvare il salvabile”.
Jacopo

“Sono un falegname di Bobbio. Nato nel ’66 da papà montanaro, morto a 29 anni quando io ne avevo quattro, ho cominciato a lavorare 12enne in un albergo sul Passo Penice per poter comprare TV e vespino, ma anche per alleggerire una mamma eccezionalmente attenta e intelligente ma poco in salute che ci ha lasciati a 54 anni, quando ne avevo 26 ed ero funzionario di Deutsche Bank a Milano. Da dove me ne sono andato per ricominciare (boh?) a casa mia, seguito per amore da una moglie che operava alle grida per un agente di cambio di Torino. Tra assicurazione, elicicoltura, boscaiolo (il lavoro più bello che ci sia), segheria e poi falegnameria, con parecchie variazioni sul tema, ce la siamo cavata benone e sono riuscito tra figli e amici a tenere in piedi il Progetto Penice asd (www.progettopenice.it ), testimonianza di libera ed egualitaria espressione umana nel rispetto di tutti attraverso sport e vita in natura”.
“Ora sto davvero invecchiando, sono dolente e anche il lavoro mi pesa. Un figlio è a Los Angeles da ormai 8 anni ed è come mi mancasse un rene, la piccolina (29 anni ) fa l’orafa coraggiosa qui con me in capannone dopo aver studiato e lavorato a Firenze. Cosa vuole che le dica, maestro… sono un campione di vie alternative coltivate e consolidate. Vie inedite e allibenti per i più. Realtà concrete, rifugio di memoria e consolazione, solo perché esistono, per molti bimbi/ragazzi/giovani ormai cresciuti che potranno replicare se vorranno, o anche solo ripararvisi quando ne avranno bisogno. Il mondo è una merda, mi spiace smentire il mio proverbiale ottimismo, ma sta a noi avere il coraggio di mangiarne la nostra parte per renderla cioccolato a quelli che verranno. Non voglio essere pubblicato, e neanche citato perché mi conoscono tutti e mi vogliono bene per quello che sono senza tanta pubblicità. È il mio capitale più prezioso”.
Marco

Perdonami Marco se ti ho pubblicato, ma non sono riuscito a farne a meno. Il mio capitale più prezioso sono le parole, e mi sarebbe sembrato un delitto non spendere le tue.

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Generosamente, Eugenio e Daniele consentono anche al Post di partecipare a “Zanzare Mostruose” grazie a questo titolo:

A TIRO ORMAI NON C’È QUASI PIÙ NESSUNO

Dalla redazione fanno notare di essersi accorti quasi subito che il titolo necessitava di un ritocco immediato. È diventato infatti “Nella città di Tiro ormai non c’è quasi più nessuno”.
Manuel segnala sul Corriere della Sera on line, nella rubrica “Giorno per giorno”, una fatale promiscuità tra due titoli messi nello stesso riquadro

MACRON HA UN PREMIER.
L’UOMO CHE DROGAVA LA MOGLIE (PER ABUSARNE).

È il ben noto “effetto locandina”. A volte, in uno spazio compresso, non basta un punto per consentire allo sguardo del lettore di cambiare argomento.

Notato da Andrea sulla Stampa on line di qualche giorno fa (adesso emendato) questo raro caso di raddoppio identitario, o di identità al cubo. Molto rafforzativo:

USA, IL PRESIDENTE JOE BIDEN CELEBRA LA COMUNITÀ ITALO-ITALIANA

Chissà se sono stati ammessi all’incontro anche gli italo-americani.

Sono invece americo-italiani, tecnicamente parlando, i nomi degli esponenti leghisti che formano, ormai, una lunga e gloriosa catena, segno che la vecchia Italia dei campanili e dei dialetti è stata soppiantata dalla globalizzazione delle serie tivù. Chiara segnala la ex assessora leghista a Cremona, Jane Alquati, specificando spietata che “la sorella si chiama Sueellen”. Stefania riporta con cura filologica (da lettrice del Post) il nome di Viliam Angeli, detto Willy, consigliere a Rovereto della Lega Nord. Ricordo ai lettori che solo una certificata appartenenza al Carroccio legittima l’ammissione a questo ormai lungo Albo.
Siamo ai saluti, e dirvi “in alto i cuori”, questa settimana, è più facile del solito. È tornato il sole, e dunque chi sta scavando nel fango (in Emilia, in Sicilia) vede meglio dove dirigere la ruspa e dove ficcare la pala.