Sorry, we have no bananas
«Con sei milioni, un sacco di bambini possono mangiare, e anche se non sono proprio quei sei milioni, la cifra è quella, e lo scandalo è quello. Almeno su questa cosa, metti un punto e passa ad altro argomento»
Il mio vicino di casa fa l’allevatore e ascolta la radio dal mattino alla sera. Stalla e giornali radio, è la sua vita. Per me, dopo tanti anni, è un fratello acquisito. Quasi ogni giorno commentiamo le cose del mondo, dalle condizioni meteo sopra la nostra testa ai droni che bombardano le teste degli altri, dal passaggio chiassoso delle gru che sono appena tornate in Africa alla nuova gragnuola di satelliti lanciati in orbita da Elon Musk. Lui, ogni tanto, dice la sua con un vigore che mi aiuta a non impigliarmi troppo nella trappola della complessità. È una vita che scrivo: attenzione, ragazzi, che la realtà è complessa. Diffidate delle semplificazioni. Una specie di deformazione professionale, pare che il lavoro intellettuale comporti, quasi per statuto, questa premessa onnipresente e insormontabile: la complessità.
L’altro giorno lui mi telefona apposta per dirmi: “Questa cosa della banana di Cattelan pagata sei milioni da quel riccone cinese che poi se l’è mangiata: mi fa schifo. Mi fa incazzare. È una cosa indecente. Lo sai quanti bambini mangiano, con sei milioni?”. Il mio cervello si è subito messo in moto, con accanimento e perizia, per evitare le scorciatoie moraliste, i giudizi sommari, e per un breve momento danzavano nella mia mente le voci dei critici d’arte, degli analisti finanziari, dei semiologi e degli interpreti del tempo, dei dissuasori occulti che, a vario titolo, ti invitano a pensarci meglio, prima di sbilanciarti.
Poi è arrivato, come Gesù nel tempio, l’angelo della semplicità. Ha cacciato via tutti: andate a chiacchierare da un’altra parte. Mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha detto: il tuo vicino ha ragione. La storia della banana di Cattelan fa veramente schifo. Con sei milioni, un sacco di bambini possono mangiare, e anche se non sono proprio quei sei milioni, la cifra è quella, e lo scandalo è quello. Almeno su questa cosa, metti un punto e passa ad altro argomento.
Ho messo il punto.
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E adesso torniamo pure al pane quotidiano, ovvero a quanto è difficile e complicato capire il mondo – e anche stare al mondo. Abbiamo spesso parlato, in questi primi due anni di Ok Boomer!, della potenza nefasta dei falsi, delle fole, degli slogan brutali, dei veleni politici che grazie ai social circolano con una pervasività e una velocità prima inimmaginabili. Per ragionare ci vogliono il tempo e la voglia: sono forse destinati a essere il lusso di una minoranza, il tempo e la voglia? E ci siamo chiesti se sia irreversibile, questo esilio del Logos (santo cielo, non so come mi sia venuto fuori, “esilio del Logos”, sembra un titolo di Cacciari). Se sia ancora aperta la lotta tra un livello decente di dialettica, di rispetto della realtà, oppure dobbiamo rassegnarci alla vittoria dei fantasmi, che è quasi un anagramma di fanatismi. Ho messo da parte parecchie mail sull’argomento. Questa di seguito mi è piaciuta parecchio.
“Da parecchio tempo mi capita di riflettere sul carattere eminentemente simbolico di molte scemenze che circolano indisturbate e senza pudore nei social (e fuori dai social), nonché del loro legame con la paura e il disorientamento. Per questo invito sempre i miei studenti liceali a sorridere dei vari complottismi, ma anche a comprenderli come elementari, rassicuranti risposte simboliche che hanno la funzione vitale di tenere a bada l’esperienza del caos. Può essere interessante osservare come tale funzione fosse attribuita in passato alle cosiddette ‘grandi narrazioni’ (religioni, ideologie) e come poi, venute meno queste nella società secolarizzata e globalizzata, ognuno si trovi chiamato a definire da sé un quadro di senso per stare al mondo”.
“Lei ed io, probabilmente, tendiamo a pensare alla società liberale – la società aperta – pur con tutte le sue contraddizioni, come opportunità per ciascun individuo di vivere come gli pare. Forse abbiamo sottovalutato la necessità di elaborazione culturale che questa libertà, storicamente inedita, richiede: in assenza di dogmi, servono strumenti culturali non elementari per orientarsi nel mondo contemporaneo, per reggere il caos di informazioni che ci entra in testa ventiquattrore al giorno, per leggere e affrontare il mutamento sempre più rapido di tecnologie pervasive e mores (in questa parola latina ci sta un po’ tutto: valori, abitudini, modi di vivere). Vedo alcuni coetanei che, come me, da bambini usavano il telefono con il selettore a disco e oggi, privi degli strumenti di cui sopra, condividono su facebook le panzane più incredibili e rifiutano qualsiasi appello a razionalità ed evidenze fattuali. Li capisco, anche se mi fanno incazzare: quelle panzane sono degli psicofarmaci”.
“Quando osservo questo genere di fenomeni penso sempre al campanile di Marcellinara, a quella straordinaria pagina di Ernesto De Martino (in La fine del mondo) che ho incontrato per la prima volta leggendo il saggio, per me illuminante, di Roberto Escobar, Metamorfosi della paura: l’angoscia che De Martino osserva nel vecchio pastore quando perde di vista il campanile che ha sempre definito il suo ‘orizzonte culturalizzato’, la sua ‘patria esistenziale’, è da allora per me una chiave di lettura potentissima, anche per quelle espressioni di rabbia di cui si è discusso quest’estate. Poi, certo, le stupidaggini rimangono stupidaggini anche se un antropologo ci spiega da dove nascono, ma capirle meglio forse aiuta ad affrontarle in modo più efficace, considerando che chi ne è vittima pare incline a simpatizzare per progetti politici farlocchi, se non pericolosi”.
Stefano Colmagro
Mi colpisce e mi convince, nel discorso di Stefano, l’idea che la libertà sia “storicamente inedita”. E che questo improvviso spalancarsi alla libertà possa spaventare, disorientare. Le masse, “prima”, erano bene intruppate dal timor di Dio e dalle grandi ideologie. Ora si ritrovano sole solette, individuo per individuo, di fronte al caos, e ognuno cerca di arrangiarsi come sa e come può. Può darsi che i milioni di seguaci di QAnon, “prima”, sarebbero stati docili devoti di una qualche chiesa o chiesuola. Oggi, pur di non sentirsi troppo abbandonati, sono affiliati alla pazzia.
La tentazione (reazionaria) è invocare i bei tempi andati: ah, quando c’erano i grandi partiti, quando c’era la religione, a tener buone le masse. Subito dopo, per onestà, dobbiamo chiederci: erano meglio Bellarmino e l’Inquisizione, era meglio Stalin, era meglio chinare il capo al padrone che ti elargiva un salario di merda in cambio della sua devozione? Oppure – come dice Stefano – dobbiamo attrezzarci a sopravvivere, e possibilmente vivere, nel nuovo caos, perché indietro non si torna, perché “prima”, forse, era anche peggio?
Qui di seguito altre due mail. Una pessimista, una ottimista.
“Sono un boomer farmacista quasi in pensione, lascio sempre i suoi articoli a mia figlia Noemi di 22 anni, completamente assorta nei suoi studi di ingegneria. Ha come unica fonte di informazione… Tiktok. Fortunatamente, avendo come canale informativo solo tiktok, almeno non si interessa di politica, anche se poi alla fine la politica è in tutte le cose, è la tua visione del mondo e di come ci cammini sopra. Uso i suoi articoli come vaccino contro la stupidità, la superficialità, ma purtroppo funzionano fino ad un certo punto, perché sono molto importanti per chi già capisce e conosce qualcosa, e non ha ormai ‘cablato’ la modalità Tiktok. Ha notizie di come si possa tentare di incrinare questo flagello, questa pandemia? Credo che sarà molto complicato sopravvivere ai social, e come diceva Paul Auster: ‘l’esperimento umano è destinato a fallire per eccesso di stupidità.”
(lettera firmata)
“Mi ha un po’ rattristato leggere queste sue righe: ‘Ho la netta impressione che la battaglia in favore della realtà – una sola, e uguale per tutti – sia perduta. Quanto meno: sia perduta nella sola vera comunicazione mainstream, che è quella dei social’. Nemmeno un Michele Serra preso dalla più drammatica pigrizia può credere fino in fondo a queste parole. La battaglia non è perduta, ma non si combatte sui social: si combatte con l’istruzione e la cultura. Per ora (intelligenza artificiale permettendo) i social sono ancora ‘alimentati’ da esseri umani: alimentare è il verbo giusto, ché i social sono ingordi. Di tali esseri umani, ahimé, gli stessi social riflettono lo spessore talvolta limitato e la brama di verità (poca) o visibilità (tanta). Migliore istruzione dovrebbe significare migliori esseri umani (tant’è che certi governi l’istruzione la affossano con grande energia), migliori esseri umani dovrebbero significare migliori social. Io, che non sono un utente social attivo, vorrei che tutti insieme riconquistassimo non i social, ma le menti e il pensiero che ci stanno dietro… la comunicazione mainstream seguirà. La realtà può prevalere”.
Luca Beltritti
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Ho dichiarato conclusa, un paio di settimane fa, la breve rassegna, un poco canzonatoria, dei “nomi leghisti”: esponenti del Carroccio (veri) che hanno un cognome molto local e un nome molto esotico, e molto poco sovranista. Riepilogo finale: Leslie Mulas, Jane Alquati, Viliam Angeli, Kevin Vinetti, Demis Lovato, Albert Bentivogli, Evelin Calderara, Joseph Splendido, Morris Ceron, Derek Donadini, Lewis Trevisan, Alan Fabbri, Mark Buozzi. A tutti loro un saluto cordiale. Per congedarmi dalla materia, avevo anche evocato i tempi in cui si davano ai figli nomi poco canonici non per imitazione delle serie tivù, ma per fare arrabbiare i preti, e fiorirono i Vladimiro per celebrare Lenin e le Alba per annunciare l’avvento del sol dell’avvenire. Grazie ai lettori che mi aiutano, qui di seguito, a chiudere trionfalmente questa lunga parentesi onomastica.
“I nomi più strani in Italia, secondo me, si trovano a Reggio Emilia (Jones, Willer, Wellmer…). Mia zia Carmen (classe 1927) si chiamava così perché all’anagrafe rifiutarono di registrare il nome Ribella. In alto i cuori!”.
Massimo
“Le segnalo che mio nonno, nato all’inizio del secolo, contadino semianalfabeta ma con evidenti simpatie anarchiche, per aggirare le regole dell’anagrafe fascista degli anni ’30, a due dei suoi sei figli maschi (ebbe anche quattro figlie femmine tra cui mia madre) diede nome Stirner (come Max Stirner) e Leober: qui l’impiegato sbagliò a scrivere il nome che in realtà doveva essere Leiber (come Fritz Leiber)”.
Daniele Cavazza
“Nato nel lontano 1972, mia zia Anna scelse per me il nome Mirko. Piacque. E mio padre, operaio, litigò con il parroco per battezzarmi così (semplicemente disse: lo porto da un’altra parte) e l’ebbe vinta. Motivazione del tentato diniego: non c’è il santo. Ma ricevetti comunque il nome in oggetto, in barba a santi e parroci. E ho una lunga storia di volontariato in ambiti cattolici…”.
Mirko Schiavolin
“Sono una settantenne di Ferrara, mio padre dal 1950 al 1970 ha lavorato come impiegato dell’anagrafe ed era molto curioso sull’origine di nomi un po’ strani. Ne ricordo due in particolare: un signore si chiamava Visinto e una signora, non parente, Vandesina. Mio padre chiese loro da chi o cosa derivassero i loro nomi e scoprì che Visinto era una libera traduzione di Washington, e Vandesina altrettanto libera interpretazione di una canzone di quei tempi dal titolo ‘Olandesina mia fanciulla divina’.”
Gloria Testoni
“A proposito di nomi evocativi, devo segnalare l’uso otto-novecentesco degli emiliano-romagnoli in genere, e parmigiani in particolare, di assegnare ai figli nomi tratti dai personaggi dell’opera lirica, specie verdiana. Ormai quasi tutti al cimitero, si leggono molte Aida, Amneris, Radames, forse anche Amonasro e simili. Sempre in alto i cuori!”
Paola di Parma
“Il mio bisnonno, fiero socialista umbro, ebbe tre figlie: Conselice (mia nonna), Tersicore e Atea (che vergognandosi del suo nome si fece sempre chiamare Adria). I genitori di un compagno di scuola di mio figlio, di quelli che si sentono obbligati a dare ai figli i nomi dei nonni, li hanno chiamati Joseph e Thomas pensando evidentemente di assolvere all’obbligo con due nomi inglesi.”.
Eliana
“Mi è tornato in mente un personaggio per me mitico, spesso protagonista delle ricorrenti narrazioni di mio padre (classe 1925, anarchico non militante della grigia Alessandria). Il personaggio è Fielde, che di mestiere vendeva giornali e libri con un carretto ambulante. Era l’anarchico che – ogni volta che c’era la visita di qualche pezzo grosso del regime – si consegnava in Questura. Capolavoro ineguagliato: a mo’ di strillone, durante la guerra, girando con il suo carretto gridava il meraviglioso titolo (degno del Vernacoliere, se non del Male): “I russi a Mosca! I russi a Mosca!” (papà lo imitava, dando un tono molto particolare da speaker degli anni ’40). L’intenzione del papà di Fielde, anarchico pure lui, era chiamare suo figlio in onore di Samuel Fielden, uno degli 8 di Chicago (evento del maggio 1886 noto negli Stati Uniti come ‘Haymarket Eight’). Non si sa se all’anagrafe per italianizzare il nome, o semplicemente per storpiatura mandrogna, la ‘n’ era misteriosamente e definitivamente caduta”.
Lorenza
“In un paesino friulano ho conosciuto, già anziani, i fratelli Primomaggio e Mirtillo. Mi sono sempre chiesta la motivazione di questa virata dallo spirito libertario alle acidofile, ma forse fa tutto parte di una visione futuristica del mondo. Più evidente è quale dei due abbia maggiormente sofferto, nella scuola del Ventennio. Infine, insuperabile, il nome di una mia prozia, figlia di un giovanissimo garibaldino dalla camicia rossa. Ho sempre pensato si chiamasse ‘zia Vite’, da come la chiamavano tutti, e quando le cose accadono nella prima infanzia sono tutte strane, dunque tutte normali. Solo recentemente ho visto un suo documento d’identità. Il bisnonno nutriva una grande ammirazione per la giornalista Jessie White, che aveva seguito i Mille dell’esercito garibaldino, e la prozia ne ha fatto le spese”.
Francesca
“Elenco i nomi di 11 fratelli e sorelle, una delle sorelle era mia nonna. Tutti nati fra il 1897 e il 1920. Iride, Maddalena, Rosa, Euridice, Urania, Minerva, Giovanna Darco, Lepanto, Mentana, Bezzecca, Monfalcone. Se si escludono Maddalena e Rosa (nate quando mio bisnonno, al tempo marinaio, era imbarcato e quindi non aveva potuto scegliere i nomi personalmente) tutti gli altri nomi sono notevoli. Riguardo a mia nonna Iride, la prima figlia, si narra che al momento del battesimo (mio bisnonno era anarco/comunista ma i figli li faceva battezzare) il parroco non volesse accettare il nome sostenendo erroneamente che fosse un nome da animale. Ma mio bisnonno ebbe gioco facile facendogli notare che il papa (siamo nel 1897) era Leone, che degli animali è il re”.
Riccardo Ferrando
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Due zanzare soltanto, ma mi sembrano belle. Antonella segnala, dall’Arena, il titolo di un incontro medico-culturale che però, di primo acchito, fa pensare a un’emergenza risolta con una certa approssimazione scientifica:
TUMORE ALLA PROSTATA, L’UROLOGO VA IN BIRRERIA
Ivana ha scovato su Redacon, giornale della montagna reggiana, questo specifico e allarmante proliferare di una piaga sociale che, fin qui, non avevamo mai collegato alla lettura:
CARPINETI, UN MOMENTO DI RIFLESSIONE SUL TEMA FEMMINICIDI IN BIBLIOTECA
Sabato notte la temperatura, qui da noi, è scesa finalmente sotto lo zero, e così il primo di dicembre, domenica, il risveglio è stato classicamente invernale: galaverna (bella parola, etimologia incerta) ovunque, sugli alberi e sui prati, sulle automobili e sui tetti. I cani sono usciti di casa con cauta meraviglia, lasciando qualche sbuffo di fiato nel biancore totale. Poi è uscito il sole e si è passati, in pochi minuti, da un bianco e nero d’anteguerra “allo splendore del Technicolor”, come dicevano, negli affollati cinema degli anni Sessanta, i promo dei film di prossima uscita. L’erba gelata, nei prati, scricchiolava appena sotto le suole. Ho pensato, anzi sperato, in sintonia con i cani, che nevicherà presto. Dovrò aumentare il numero di palle di grasso e semi che appendo al pergolato per sfamare gli uccellini, che ne vanno pazzi. In alto i cuori, e non lasciatevi sopraffare dal Natale: come tutti gli anni, passerà.