Scene di lotta di classe e altre cose in ballo
Due lettere, di un trentenne e di un ventenne, aprono questa Ok Boomer! che è l’ultimo di luglio. E di vacanziero ha molto poco (vedremo di rimediare in agosto, canonicamente). Colpa mia, che lunedì scorso ho tirato in ballo, con questo caldo, addirittura la lotta di classe. Con quel che ne consegue.
“Caro Michele Serra,
ho 32 anni e il privilegio di classe è una cosa a cui penso di continuo, soprattutto quando sento parlare di meritocrazia. Sono figlio della Napoli bene (qui si direbbe anche chiattillo) e, anche se sono ben lontano da finire su Forbes, tecnicamente rientro nell’1% più ricco d’Italia. Non mi sono reso conto subito di essere un privilegiato, da bambino per me erano normali belle case, persone di servizio, vacanze a Capri e in Costiera, viaggi; ed erano normali anche per i miei amici e compagni di scuola. Poi ho capito. Ho capito la fortuna sfacciata che ho avuto e tutte le cose che ho potuto e posso fare grazie all’agiatezza della mia famiglia, prima fra tutte mandare al diavolo una carriera in Medicina per dedicarmi all’arte. Il più grande privilegio: avere la possibilità di trovare il proprio posto nel mondo con calma, dedicarsi a cose belle, studiare a lungo o non farlo, senza l’ansia di doversi guadagnare da vivere”.
“Scrivendo ‘ho capito’ non voglio auto-assolvermi, non rinuncerei mai alla mia condizione di privilegio (perciò la lotta di classe, no?). Però di questa condizione almeno mi rendo conto. La consapevolezza del proprio mazzo a nascere dalla parte giusta non è comune tra gli appartenenti alla mia classe sociale, meno che mai tra gli straricchi – Alain Elkann uno per tutti. Per esempio, quasi nessuno di chi studia per il concorso in magistratura viene da una famiglia povera: sono tutti figlie e figli della borghesia medio-alta. Studiare per il concorso è totalizzante (non si può certo lavorare) e costoso (senza seguire un corso non c’è speranza). Qualsiasi aspirante magistrato rimane a carico della famiglia per anni. Se la famiglia è povera, non è proprio un’opzione. E vale per qualsiasi carriera di alto livello. Questo non toglie nulla all’impegno durissimo dei miei amici che hanno preparato e in diversi casi vinto questo benedetto concorso, però molti non si rendono conto del loro privilegio schiacciante. Pensano di essere arrivati dove sono con le loro sole forze: ma sono lì perché ne avevano la possibilità. I sogni di tutti gli altri si fermano a ‘non ci stanno i soldi’.”
Giovanni
“Ciao Michele,
mi chiamo Jacopo e ho 24 anni. Condivido pienamente la riflessione sul problema, sempre verde, delle discriminazioni sociali di cui ci si dimentica. Io sono un privilegiato. Non vengo da una famiglia facoltosa o benestante, ma non mi è mai mancato nulla. Istruzione, educazione, attività sociali (sport, scoutismo, musica ecc.). Sono tra quei fortunati che possono dire di aver raggiunto, già alla mia giovane età, uno dei propri sogni, nel mio caso essere un atleta professionista. Da qui però nasce una brutta bestia: perché proprio io? Il senso di colpa è costante. Vedo ragazzi che si impegnano e non riescono ad avere le occasioni che ho io. Ma cosa ci posso fare? Eppure ci soffro, come se rubassi il posto ad altri. Me lo merito? Cresciuto in un ambiente dai valori ‘solidali’, penso troppo agli altri e mai abbastanza a me?”.
Jacopo De Marchi
Giovanni, Jacopo, il senso di colpa non è una terapia. È una patologia. Liberatevene. Non si sceglie dove nascere e da chi nascere. Semplicemente, se si è intelligenti e sensibili, si fanno i conti con la realtà delle cose, e si prendono le misure al mondo senza raccontarsi frottole. A quanto pare voi due lo avete fatto, e magari “in colpa” dovrebbe sentirsi chi non ci ha mai pensato, di essere “nato dalla parte giusta”. Gli sembra una condizione naturale, un diritto di permanenza, un bene ereditario, qualcosa che gli è dovuto, punto e basta. Il problema “morale” è tutto suo: non vostro. Il mondo è pieno di figli di papà che non sanno di esserlo, e se lo sanno se ne compiacciono assai.
Quanto alla meritocrazia, io la penso così: il concetto, in sé, è impeccabile. Significa che in una società sana e funzionale il merito individuale dovrebbe essere il principale criterio-guida. Dovrebbe. Ma molto spesso chi loda la meritocrazia ignora quello che voi invece sottolineate: non tutti partono nelle stesse condizioni, e anzi le condizioni di partenza sono spesso così diverse, per censo, per educazione, per occasioni materiali, che la gara è già decisa prima ancora del “via!”. La pista non è la stessa, non sono uguali le regole, qualcuno deve correre per mille metri altri per diecimila, alcuni con gli ostacoli altri senza, qualcuno ha le scarpe giuste qualcuno è scalzo, altri nemmeno sapevano che c’era una gara e sono rimasti a casa aspettando una convocazione che non arriverà mai. Se ancora si cita, mezzo secolo dopo, don Lorenzo Milani, è perché seppe spiegare meglio di altri che la gara era truccata in partenza.
Ora cerco di farvela breve, cosa non facile per un boomer che si è fatto le ossa e ha affinato lo sguardo proprio negli anni nei quali di queste cose si parlava tantissimo, forse anche troppo e non sempre a proposito. Quando toccò a me avere vent’anni c’erano molti illusi, e molti spocchiosi, che pensarono di risolvere la faccenda con le spicce. Quasi in quattro e quattr’otto, come se la Storia avesse aspettato proprio loro per sciogliere nodi vecchi di migliaia di anni. C’erano catechismi, chiese e chiesuole, nelle quali si insegnava la retta via per l’Uguaglianza, che era un poco il Regno dei Cieli a portata di mano. Non funzionò – ovviamente – perché non funzionano le formule magiche: “lotta di classe”, in quegli anni, lo era quasi diventato.
Ora fate conto di ritrovare in un baule un vecchio arnese ormai inutilizzabile, molto ammaccato, chiamato “lotta di classe”. Appartenne agli avi. Ai braccianti di Pellizza da Volpedo e di Giuseppe Di Vittorio, alle mondariso del Dopoguerra, agli operai dei Consigli di fabbrica, a epoche – l’Ottocento e il Novecento – nelle quali la divisione della società in classi era molto più evidente di adesso: impossibile non vederla. Adesso le classi ci sono ancora, eccome, ma dissimulate e confuse da una specie di travestitismo sociale, poveri camuffati da ricchi, ricchi in t-shirt e molto “andanti” come i multimiliardari del tecno-capitalismo, che sono cento volte più ricchi dei “padroni del vapore” di cento anni fa, ma se la passano da “uno di noi”. Fumo negli occhi liberal per nascondere l’evidenza: non solo il mondo è diviso, fondamentalmente, in pochi ricchi e moltitudini di poveri, ma si è quasi rinunciato a considerarlo un problema.
Cercate di guardare quel vecchio arnese con simpatia (come quando si ritrova un aratro da buoi) e chiedetevi qual era la sua funzione. La sua funzione era mettere insieme molte persone con un interesse comune e per un obiettivo comune. Volendo, accostate quel relitto ideologico a quelle che oggi si chiamano classaction. Più o meno di quello si tratta, l’ideologia non le apparenta ma l’etimologia sì. Si tratta dell’idea che da soli, a parte i casi propri che per carità contano eccome, non si riesce a cambiare un bel nulla, e forse perfino i casi propri possono avere solamente una soluzione collettiva e un percorso politico. È il famoso “nessuno si salva da solo” che forse mesi fa, parlando di risotti condominiali, vi avevo già detto. Del resto è tipico degli anziani ripetersi. L’importante è ripetere le cose giuste.
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Ha a che fare, a suo modo, con il nostro argomento anche la lettera che segue. Riguarda un caso molto discusso nei giorni scorsi, con inevitabili accenti derisori: quello di Alain Elkann alle prese con una vagonata di ragazzini rumorosi. Un bel compito per le vacanze, avendo del tempo da perdere, sarebbe chiedersi se il conflitto era tra l’anziano scrittore libro-dotato e i teenager incuffiettati (scontro tra culture) o il riccone azzimato, capitato per errore in un treno, luogo promiscuo per definizione, e la massa giovanile turbolenta (scontro tra classi).
“Caro Michele,
dimmi pure che sono un’anima bella, ma vorrei spezzare una lancia a favore del povero Elkann sr. Forse questo anziano signore, stanco per il lungo viaggio, ma anche stanco, come i boomers più agées, di tanti fatti della vita, dalla ex moglie litigiosa ai tre figli che parlano solo del nonno, alla casa editrice che lo spedisce a Foggia in treno per l’ennesimo firmacopie, ha pensato di esorcizzare l’orrido viaggio scrivendo un pezzo che voleva essere sottilmente autoironico: purtroppo al signore in questione manca la dimestichezza che hai tu con comicità e satira, quindi l’autoironia è rimasta un po’ troppo nascosta (se a suo tempo avesse fatto bel tirocinio a Cuore il risultato sarebbe stato molto diverso); poi la vanità di rendere pubblica quella che avrebbe dovuto rimanere una paginetta del suo diario privato ha fatto il resto. E tant’è, questa sua quasi coetanea, che col signore in questione non ha sostanzialmente nulla in comune, se non la boomerie, non si sente di dargli torto. ‘Ricominciamo a darci del lei’ diceva la Camilla Cederna in tempi che, ripensandoci oggi, non esiterei a definire di grande educazione e quasi signorilità. Buona estate”.
Silvana ’49
Cara Silvana, ho provato per il signor Elkann una certa tenerezza, per l’ingenua goffaggine con la quale è andato a infilzarsi in uno spiedo da lui stesso predisposto nel momento stesso in cui ha pensato: «Adesso scrivo un bell’articolo così gliela faccio vedere io, a questi giovinastri!». Che il mondo pulluli di burini imberbi, così come di burini di ogni età, è cosa nota, ma altrettanto noto dovrebbe essere che non è opponendo Proust e un abito di lino blu (si suppone non acquistato all’OVS) che si migliora la situazione. Anzi, di solito, come è capitato al povero Elkann, aumenta il volume delle pernacchie.
In proposito, ecco un breve raccontino che lascia capire come, da un certo punto di vista, rischiamo tutti il nostro “momento Elkann”; ma per fortuna sappiamo come evitarlo.
L’altra sera ero a Fontanigorda, borgo montano della Val Trebbia ligure, per un omaggio a Giorgio Caproni. Piccolo spettacolo in piazza con gli amici musicisti del gruppo Enerbia (bravissimi, repertorio popolare e colto, violino, pifferi, chitarra e fisa che fanno danzare). Con mia moglie Giovanna Zucconi abbiamo letto alcune poesie di Caproni, che passò da quelle parti molti anni (da insegnante) e sposò una ragazza del posto. Tra le sue poesie più note, Ballo a Fontanigorda (1938). Descrive un ballo popolare di quei tempi. L’ho letta con una certa emozione perché proprio a Fontanigorda eravamo; e davanti a me, in prima fila, c’erano i due figli di Caproni, Silvana e Mauro.
Finita la nostra serata, è partita dal fondo della piazza una musica tecno di quelle che potrebbe perforare non solo le orecchie, anche alcuni organi interni; e un gruppo di ragazzi, là attorno, ballava a quel ritmo. Inevitabile il contrasto, indubbiamente abissale, tra il ballo raccontato da Caproni (mazurka? valzer?) e il piccolo sabba ritmico in corso nell’estate del 2023. Fossi stato Alain Elkann, avrei così apostrofato i ballerini di oggi: “Giovanotti! Vergogna! Perché non ballate una giga, o una mazurka, recitando negli intervalli le poesie di Caproni? E invece perdete il vostro tempo in questo sconcio fescennino, vestiti come scellerati?”.
Non essendo Elkann, ho pensato che per loro cominciava la notte, per me era ora di andare a dormire. Quanto a Caproni, se fosse redivivo scriverebbe Ballo a Fontanigorda 2023, e sarebbe una poesia bellissima. Resterebbero buoni anche per la tecno, quasi un secolo dopo, almeno due versi: “Bruciano alla bramosia segreta/ le carnagioni giovani”.
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