Ritorno al futurismo
«No, non è andata così, la cultura italiana, in tempo di democrazia, non è stata una rissa da contradaioli o un parco buoi da orientare secondo ideologia. Almeno: non lo è stata fino a qui»
Credo non ci sia italiano di media o anche piccola cultura che non conosca i futuristi, che non abbia mai sentito parlare di Boccioni, Marinetti, Balla, Depero, Carrà, Severini, che non sappia dell’importanza di quel movimento letterario e artistico, che non abbia in mente le forme in movimento di quei quadri. E che sia all’oscuro del forte legame del futurismo con il primo fascismo, quello “rivoluzionario”. Legame che non ha mai impedito una forte considerazione del valore e dell’importanza di quella corrente.
Partiamo proprio da questo punto. Alla domanda: come mai il futurismo, pur essendo stato quasi organicamente legato al sorgere del fascismo, non solo non è rimasto vittima della damnatio memoriae, ma è sempre rimasto “nello sguardo” degli italiani, amato, studiato, rispettato? La mia risposta è semplice, e credo abbastanza oggettiva: perché i suoi protagonisti furono grandi artisti. Il loro ingegno, la loro qualità, la tempestività con la quale cavalcarono l’epoca e ne furono avanguardia, li ha messi al riparo da ogni equivoco e confusione sulla loro adesione al fascismo, per altro diversa, da artista ad artista, per intensità e durata. Meno in letteratura, molto nella pittura, i futuristi hanno lasciato il segno. E nemmeno il più convinto osteggiatore del loro lavoro può permettersi il lusso di definirli “artisti di regime”, o più genericamente “artisti di destra”. Furono artisti e basta.
La ragione di questo pistolotto iniziale, spero non troppo pedante, è che il governo Meloni (attraverso il ministero della Cultura che, fin qui, è stato sua stretta emanazione propagandistica) sta preparando una grande mostra sul futurismo, in quello spirito di “risarcimento” della cultura di destra che ha già reso goffe e inutilmente rumorose alcune sortite del fu ministro della Cultura, il povero Sangiuliano, e di parecchi esponenti del partito di Giorgia Meloni. Per la serie: adesso che al governo ci siamo noi, finalmente gli italiani potranno scoprire il futurismo. L’idea, vagamente paranoica, è che tutto quanto accaduto in campo culturale, dalla caduta del fascismo ai giorni nostri, sia frutto di una esclusione persecutoria degli artisti e degli intellettuali di destra.
Ma i futuristi, a ben vedere, sono la smentita più eclatante di questo teorema. Non sono esperto del settore, tutt’altro, ma buoni consiglieri mi suggeriscono, a proposito di futurismo dimenticato, o trascurato, di fare breve memoria delle seguenti cose.
Nella primavera del 2009, per il centenario del movimento, fu allestita a Milano, a Palazzo Reale, una grande mostra sul futurismo, a cura di Ada Masoero e Giovanni Lista. È considerata LA mostra sul futurismo, difficilmente replicabile per numero delle opere esposte. La rassegna stampa sull’evento, italiana e estera, è fluviale.
Nel 2019, chiusa nel febbraio del ’20 giusto in tempo per il lockdown, un’altra importante mostra sul futurismo, sempre curata da Ada Masoero, è stata allestita a Pisa, a Palazzo Blu. E risalendo indietro nel tempo, è rimasta nella storia la mostra kolossal di Venezia, Palazzo Grassi, 1986: Futurismo & Futurismi, a cura di Pontus Hultén, allestimento e grafica di Gae Aulenti e Pierluigi Cerri (comunisti! comunisti!). Impossibile fare memoria delle opere futuriste nelle esposizioni permanenti e nelle collezioni private.
Si sa ancora poco di definitivo sulla curatela di questa mostra-fenomeno (nel senso romanesco del termine: a’ fenomeno!) se non che è nata con l’intenzione manifesta di onorare l’”identità italiana” – parole di Sangiuliano – e che non si gioverà dei più affermati studiosi italiani del futurismo. Nel caso, ahimé verosimile, che siano tenuti a distanza perché considerati “di sinistra”, il fatto che abbiano dedicato gran parte della loro vita a studiare e valorizzare artisti “di destra” (mi scuso per lo stupido schematismo, è per capirsi) smentisce l’idea (stupidamente schematica) che il mondo culturale italiano abbia selezionato e discriminato i suoi materiali e i suoi artisti su basi prettamente politiche. No, non è andata così, la cultura italiana, in tempo di democrazia, non è stata una rissa da contradaioli o un parco buoi da orientare secondo ideologia. Almeno: non lo è stata fino a qui.
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Torniamo, brevemente, sulla questione delle omonimie che alimentano le dicerie sui social, le false convinzioni, le fole malevole o più semplicemente gli equivoci – se un rapinatore di nome Michele Serra fosse arrestato, non dubito che qualcuno commenterebbe: “lo sapevo, io, che l’Amaca era solo una copertura”.
Nei primi tempi mi incazzavo (l’identità è un bene inalienabile), ora la prendo sul ridere. Le mie sentinelle in quel territorio mi segnalano, per esempio, questo capolavoro. Un signore polemico (taccio sempre i nomi, sarebbe sleale accanirsi) scrive su Twitter: “Tutte le volte che mi chiedo perché i boomers ex Fgci siano oggi a destra di Bava Beccaris mi torna in mente Caravan, fumetto di Michele Serra”. Il primo commento, tutto maiuscolo perché sia chiaro il tono indignato, dice così: QUESTO ERA ISCRITTO AL PARTITO COMUNISTA! RIPETO: QUESTO ERA ISCRITTO AL PARTITO COMUNISTA!
Ora, per quanto smemorato, non ricordavo di avere mai fatto il fumettista. Difatti, è bastato un controllo di pochi secondi per sapere che Caravan (Feltrinelli) è una serie a fumetti di Michele Medda, già autore del celebre Nathan Never. Ignoro per quali vie Caravan confermi che i boomers ex Fgci sono a destra di Bava Beccaris; ma sono certo di non essere Michele Medda. Sarà stato anche lui ISCRITTO AL PARTITO COMUNISTA!? Chissà. Magari sì, magari no.
Qui siamo alla finta omonimia, o all’assonanza misteriosa (ci vorrebbe un enigmista). Mi viene da mettervi in guardia: se un Michele Sedda si candidasse con i neonazisti, o un Michele Merra debuttasse alla Scala come primo ballerino, sappiate che non sono io. Sappiate, anche, che è sempre meglio rileggere quello che si scrive, tanto più se lo si è digitato in fretta. Metà delle scemenze non vedrebbe mai la luce.
PS – Nel podcast di Matteo Caccia sul delitto Klinger, scopro, a mio carico, un equivoco vintage (pre-social) che ignoravo. La Falange Armata, in un volantino di rivendicazione, tirò in ballo “il prefetto di Milano Michele Serra”. Il prefetto si chiamava Achille Serra. Non ho mai fatto il prefetto di Milano. RIPETO: NON HO MAI FATTO IL PREFETTO DI MILANO!
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Edizione sontuosa di Zanzare Mostruose, questa settimana. Cominciamo con un refuso (dalla newsletter Il Mattinale, segnala Tommaso) in cui si confermano le difficoltà non solo politiche, anche psicologiche, dell’Unione Europea:
L’EUROPA HA BISOGNO DI UNA FRUSTRATA ORA
Claudio segnala, dal sito News Mondo, uno spaventoso caso di accanimento ai danni di persone già in difficoltà:
GRAVE INCIDENTE: AUTO UCCIDE 35 MORTI E 15 FERITI
Sulla prima pagina del Fatto Quotidiano di tre settimane fa Matteo ha scovato questo ennesimo caso di incomprensione tra il ceto politico e la società civile.
IL COMMISSARIO AI SUINI:
“VANNO RIVISTE STRATEGIE”
Chissà che cosa avranno capito i suini. La necessità della sintesi ha portato il Resto del Carlino (segnalazione di Jacopo) ad aggravare l’emergenza climatica, già grave, dell’Emilia-Romagna:
MAREGGIATE E NEVE IN APPENNINO
Infine, ecco un imprevedibile esito del caso Assange, il classico gran finale (anche romantico) che nessuno poteva immaginare. Lo ha trovato Ottilia sul sito Ansa:
ASSANGE SI DICHIARA COLPEVOLE
E VOLA IN AUSTRALIA DA UN UOMO LIBERO
Basta un “un” in più per essere felici.
Prima dei saluti, aggiornamento della miniserie “nomi straordinari di esponenti leghisti”. Paola segnala Albert Bentivogli, segretario della sezione di Forlì, e Laura la consigliera provinciale di Varese Evelin Calderara. Un caro saluto dal vostro Michel Serra e mi raccomando: in alto i cuori.