Riprendiamoci i cuori
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Riprendiamoci i cuori
Michele Serra
Martedì 20 agosto 2024

Riprendiamoci i cuori

«Le parole sono importanti, come disse Nanni Moretti e come ci ripetiamo in molti da un bel po’, ma altrettanto importanti sono il contesto che le ospita e l’intenzione di chi le pronuncia»

L'attore Chief Dan George nella parte di Cotenna di Bisonte, in "Il piccolo grande uomo" (1970)
L'attore Chief Dan George nella parte di Cotenna di Bisonte, in "Il piccolo grande uomo" (1970)

Questa volta partiamo dalla fine, cioè dalle quattro parole che scrivo quasi ogni settimana per salutarvi: in alto i cuori. Mi scrive Stefano: “È mio dovere metterla in guardia prima che le venga rinfacciato da qualche zelante compagno, ‘in alto i cuori’ è di fascistissima memoria, piazza Venezia, 9 maggio 1936”.

Oibò. Grazie Stefano, che vegli sulla mia reputazione. Da una breve ricognizione in rete viene fuori che effettivamente M (sta per Mascellone), quel giorno, facendosi forte della brutalizzazione senza preavviso di un paio di popoli inermi dell’Africa orientale, proclamò la rinascita dell’Impero Romano di fronte a una piazza stracolma e succube, sbraitando tra le altre queste parole: “Levate in alto, o legionari, le insegne, il ferro e i cuori a salutare, dopo quindici secoli, la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma”. Non solo i cuori, dunque. Anche le insegne e il ferro. Un sacco di roba, voleva sollevare quel figuro, così tanta che alla fine tutto rovinò addosso a lui e agli italiani.
Poi scopro, per sovrammercato, che “In alto i cuori” è anche il titolo italiano dell’inno delle Camicie Brune, formazione paramilitare nazista, come nell’ottobre del 2010 fece notare Massimo Bordin sul Foglio commentando l’abitudine di Beppe Grillo di concludere con quell’espressione i suoi post. “In alto i cuori, in alto i gagliardetti, serriamo i ranghi, è l’ora di marciar!” è la citazione per esteso (delle Camicie Brune, non del povero Grillo). L’articolo di Bordin fu rilanciato dal blog di Gad Lerner.

Ci ho pensato sopra. Potrei appellarmi al fatto che, non rivolgendomi a voi dal balcone di Piazza Venezia, non disponendo di insegne da levare in alto, usando il ferro nella più disarmata delle maniere (il trattore, le sue frese e le sue trince) e soprattutto non avendo mai invaso l’Etiopia, la mia invocazione non ha niente di minaccioso o di marziale, men che meno di imperiale. Per giunta, allargando la ricerca appena oltre il miserabile (e corto) raggio fascista, si incontrano ben altri “in alto i cuori”. A partire da quello della Messa in latino, il sursum corda, agli infiniti motti araldici, al disco omonimo di Massimo Bubola e al titolo di qualche libro, per finire con la Treccani che taglia la testa al toro: “Si ripete, nel linguaggio comune, come generica esortazione a farsi coraggio, a stare di buon animo, a tenere in alto il morale”. Ecco, è proprio quello che volevo dirvi…

Sorretto anche dall’opinione del Peraltro Direttore (“ci siamo fatti sottrarre l’amore per la patria, il tricolore, eccetera, ogni volta decidendo che fossero cose del nemico: e ancora ne paghiamo il prezzo…”), ho dunque deciso di mantenere saldo il mio commiato settimanale. Le parole sono importanti, come disse Nanni Moretti e come ci ripetiamo in molti da un bel po’, ma altrettanto importanti sono il contesto che le ospita e l’intenzione di chi le pronuncia. Se “prima o poi ti vengo a trovare” te lo dice un serial killer o una persona cara, cambia molto, anzi cambia tutto: eppure le parole sono le stesse. Se il rosario lo solleva il Salvini in un comizio, o un prete in preghiera, non è lo stesso rosario.

Per giunta, e non è l’ultimo dei dettagli, ho sempre avuto in mente, a proposito di cuori che vanno in alto, quel fantastico personaggio che è il capo indiano Cotenna di Bisonte nel Piccolo grande uomo di Arthur Penn. “Il mio cuore vola alto come un falco” è la frase che il vecchio capo pronuncia quando vuole manifestare una speciale soddisfazione, una raggiunta armonia. Direi che tra Cotenna di Bisonte e M corre la stessa differenza che separa i giusti dagli sbagliati. E dunque, ogni volta che scrivo “in alto i cuori”, è al volo di un falco, non alla proclamazione dell’Impero, che vorrei farvi pensare.

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Chiedo a una ragazza sui vent’anni, molto sveglia, se sa chi era Charlie Chaplin. Mi risponde di no. Ma già lo sapevo, che non lo sapeva. È una domanda che faccio spesso, quando mi capita di parlare con i ragazzi. Provate anche voi: al di sotto dei trent’anni, forse dei quaranta, sono pochissimi quelli che conoscono Chaplin (almeno qui in Italia, non saprei dire altrove). E siccome per me Chaplin è quasi come Picasso e i Beatles, uno che ha dato la sua fisionomia al Novecento, l’idea che possa essere dimenticato un poco mi sgomenta.

È lo sgomento del “tempo che passa volando”, come in Chiedi chi erano i Beatles, grande testo di Roberto Roversi per gli Stadio (Chiedi chi era Charlot è una delle tante varianti possibili di quello stesso format). Passa, e passando non lascia quasi mai intatte le cose. Anche “la ragazzina bellina con il suo naso garbato” di quella canzone, che nel 1984 aveva quindici anni, oggi viaggia tra i cinquanta e i sessanta, e ha avuto tutto il tempo per capire chi erano i Beatles, ma anche tutto il tempo (e tutto il diritto) di non capirlo e di ascoltare altro. Non sta scritto da nessuna parte che i materiali che hanno costruito la mia vita intellettuale debbano essere gli stessi che si adoperano oggi. Per i miei genitori e per i miei nonni furono importanti e formative cose, persone, esperienze che per me hanno contato molto poco.

Certo, ci sarebbero “i classici”. Quei pochi artisti, scrittori, pensatori che per calibro e talento sono o dovrebbero essere al riparo dalle offese del tempo. Ma se non sono nel catalogo Netflix? Se si perdono nell’immensità di Spotify? Se non riescono a fare capolino nel caos? Nella quantità sterminata dei consumi culturali oggi disponibili, più o meno pop, più o meno di élite, quanto si perde di importante, e soprattutto per quale via le nuove cose importanti – i nuovi Chaplin – avranno modo di sedimentarsi? E chi, come, quando sarà capace di stabilire quale opera è importante, o almeno un poco più importante del resto, e che cosa no? (Rispetto al vecchio dibattito sulla “morte del romanzo”, mi è sempre sembrato più rilevante chiacchierare attorno alla “morte della critica”). Nell’attesa che si diradi il polverone sollevato dal big bang della moltiplicazione digitale di tutto, sempre, ovunque e per tutti, lasciatemi nell’illusione che quella ragazza un giorno, per caso, incontri Luci della città, o Tempi moderni, o La febbre dell’oro, e si chieda: ma perché nessuno di quei vecchi rompiballe che mi stavano attorno mi ha mai parlato di Charlie Chaplin?

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Due mail su tutte (e non si offendano gli altri). Una, a proposito di tatuaggi (vedi lo scorso Ok Boomer!) è di un tatuatore, Mattia. Avere un tatuatore professionista tra i miei lettori è un privilegio imprevisto. L’altra, brevissima, propone un quesito che, ne sono sicuro, vi appassionerà. Cominciamo dalla seconda.

“Una rapida visione di Dagospia mi ha lasciato nelle pupille un Fedez a torso nudo al Billionaire. Ma questo, mi chiedo, gira sempre a torso nudo? E, se sì, chi gli tiene la canottiera mentre si esibisce?”
Luca, 48 anni, Meldola

Dichiaro aperta la discussione, necessariamente indiziaria a meno che voi siate intimi di Fedez: chi tiene la sua canottiera (o altro indumento) quando compare a torso nudo? La appoggia da qualche parte? La ripiega e la mette nella tasca posteriore degli shorts? Ha un maggiordomo addetto? La mamma? Esce di casa già senza?

Ora la lettera di Mattia, che di mestiere segna la pelle degli esseri umani.

“Sono nel mondo del tatuaggio da vent’anni, ho iniziato per caso a lavorare in uno studio di tatuatore per pagarmi gli studi (uscivo dal liceo artistico e volevo andare all’accademia di Brera). Ho vissuto quel momento di transizione in cui il tatuaggio, da marchio infame o di ribellione, diventava un prodotto di massa. Mai avrei pensato di intraprendere la carriera del tatuatore, lo vedevo un mondo privo di contenuti, mi capitava spesso di vedere gentaglia e la parte artistica del lavoro era veramente minima. Ma poi, approfondendo l’argomento e conoscendo tatuatori di un certo livello, ho scoperto un mondo che mi ha letteralmente rapito! La storia del tatuaggio è qualcosa di incredibile e in Italia ne abbiamo un sacco di tracce (basti pensare alla mummia Otzi o al tatuaggio di Loreto). Se si guarda poi all’estero la storia si fa ancora più affascinante, ultimamente mi sono concentrato sul tatuaggio giapponese, tutto il tatuaggio artistico odierno lo dobbiamo a loro (dalla fine del 1700 in poi hanno sviluppato una tecnica incredibile). Penso che oggi il tatuaggio stia vivendo un momento di crisi identitaria, essendosi aperto a chiunque molti lo vivono con superficialità (sia tatuatori che tatuati) e questo è abbastanza triste. Ma poi c’è la nicchia di appassionati, quella dei nerd del tatuaggio, quelli che studiano e ricercano, pubblicano libri e vanno a cercare il legame storico di ogni immagine, quelli che costruiscono macchinette artigianali e cercano di tramandare il fascino storico del tatuaggio anche ai clienti… questo è il mondo del tatuaggio che mi piace! Sono troppo contento di leggere che i tatuaggi iper-figurativi ti disgustano. ‘Figure carnose incise su figure carnose’ te la ruberò! Anatomicamente aberranti e di pessimo gusto (senza contare che si impastano malissimo con il tempo)”.
Mattia

Mattia ripropone l’annosa, nevralgica questione quantità/qualità. Non solo non sono la stessa cosa, ma la prima, sovente, minaccia la seconda. Lo scrive anche Davide: “Questa estate è iniziato un moto di repulsione per i vari schizzi di inchiostro (anche se da millennial dovrei esserci cresciuto in mezzo, alla moda dei tattoo) che vedo su ogni tipo di persona. Fino a pochi anni fa li trovavo affascinanti. Sarà perché sono così diffusi da diventare di massa e non più alternativi? O è semplicemente la vecchiaia che avanza?”

Peccato sia chiusa da poco una bella mostra al Mudec di Milano, inaugurata la primavera scorsa, che tratta il tatuaggio come un segno culturale antico e importante. Si chiama Tatuaggio. storie dal Mediterraneo, è curata da Luisa Gnecchi Ruscone e Guido Guerzoni. Secondo il catalogo di quella mostra, l’Italia è prima al mondo per numero di persone tatuate (48 per cento…), seguita da Svezia e Stati Uniti.

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Le locandine continuano a dare il loro prezioso contributo a Zanzare Mostruose, rassegna di sviste, sciagure, errori ed equivoci giornalistici. Questa, segnalata da Valerio, risale ad alcuni anni fa e promuoveva Ottopagine, giornale online con sede ad Avellino.

BENEVENTO, DROGA TRA I GIOVANI
DA OTTOBRE ABBONAMENTO MENSILE A 25 EURO

Lo stesso identico font e la consecutio molto compressa delle locandine creano l’indesiderato effetto comico. Sul Telegrafo, oggi giornale online a Livorno, Ronni e anche Mario hanno trovato questo magnifico refuso (ora corretto):

MIGRANTI SOCCORSI IN BARE
LA NAVE GEO BARENTS DIRETTA A LIVORNO

Il timore è che possa essere un suggerimento per il governo, unificando le pratiche di soccorso e di congedo dei migranti.

Fa finalmente fresco, nel Nord Ovest ha piovuto parecchio ma senza gravi danni, mentre chiudo questa newsletter un paio di poiane prendono quota pigramente sopra casa mia, sfruttando le termiche. In pochi minuti diventano invisibili, ingoiate dalle nuvole basse. Immagine perfetta per dirvi, come sempre: in alto i cuori.