Quegli altri nel nome di Dio
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Quegli altri nel nome di Dio
Michele Serra
Martedì 10 ottobre 2023

Quegli altri nel nome di Dio

Filo spinato intorno alla striscia di Gaza nei pressi della città israeliana di Sderot (Andrew Burton/Getty Images)
Filo spinato intorno alla striscia di Gaza nei pressi della città israeliana di Sderot (Andrew Burton/Getty Images)

Nel 1967 avevo tredici anni. Ricordo ancora Arrigo Levi, conduttore del telegiornale (uno solo; il TG2 arriverà nove anni dopo), che annuncia lo scoppio repentino della guerra dei Sei Giorni. Subito scese, in famiglia, quell’atmosfera di gravità che percepisci anche quando non sei ancora abbastanza grande per valutare fino in fondo il calibro della notizia. Guardi le facce degli adulti e capisci solo che la Storia si sta facendo, e disfacendo, esattamente in quel momento, come quando Cuba diventò la miccia che si temeva non potesse essere più spenta, come quando spararono a John Kennedy, come quando l’uomo mise piede sulla Luna, come quando le Brigate Rosse rapirono Moro.

Qualcuno, più esperto o più coinvolto di me, saprà sicuramente spiegare che cosa è cambiato, da allora, tra israeliani e palestinesi, e nello scenario internazionale che attorno a quel conflitto si dispiega, che lo arma e lo influenza. Ma nella mia percezione “Israele” e “Palestina” sono ancora rimaste quella stessa identica cosa; è come se i loro nomi facessero sempre lo stesso suono di quel telegiornale di più di mezzo secolo fa. Sono i due elementi di un problema insolubile, due pezzi non combaciabili eppure costretti l’uno contro l’altro, uno yin e uno yang disegnati da un incapace, destinati a non essere mai complementari.
Dei grandi conflitti novecenteschi in mezzo ai quali sono cresciuto (Usa/Urss, capitalismo/comunismo, borghesi/operai, morale cattolica/libertà sessuale, e scendendo nel dettaglio geografico la guerra civile tra protestanti e cattolici in Irlanda del Nord, le bombe dell’Eta contro la sovranità spagnola, l’irredentismo sudtirolese contro la sovranità italiana) non ne rimane in piedi neppure uno. Si sono evoluti, o dissolti, o stemperati, o addirittura risolti. Israele/Palestina no, è come se quel nodo non appartenesse alla trama della Storia, fosse una specie di maledizione biblica in luoghi biblici.

Semmai, a peggiorare la situazione – con una battuta da miscredente: a renderla sempre più biblica – è la progressiva radicalizzazione religiosa delle due parti. Il prevalere dell’islamismo di Hamas tra i palestinesi, del nazionalismo ortodosso tra gli israeliani. I fanatici religiosi sono al governo in Israele e i fanatici religiosi indirizzano l’attacco di sabato nella striscia di Gaza. Sequestrano la scena a tutti gli altri e indirizzano la trama secondo il loro unico desiderio, che è annientare l’infedele. L’identità confessionale diventa irriducibile e furibonda. La distruzione del nemico una missione per conto di Dio.
Mi concedo questo pensiero. Il conflitto tra israeliani e palestinesi è la conferma del peso nefasto che il fondamentalismo religioso esercita nelle vicende umane. Non è la sola tara, il solo vizio che l’umanità si porta addosso, né, come è ovvio, il solo motore di quel feroce corpo a corpo tra due popoli. Ma è quello più indecente e più incivile. Dove vince la teocrazia (che vorrebbe dire, etimologicamente, dominio di Dio, nei fatti significa dominio di fanatici religiosi), sistematicamente perdono la libertà e la ragione. Così come esistono gli indiavolati, esistono gli indiati, ed è una forma di possessione ugualmente mortifera, con l’aggravante che in genere è socialmente accettata. L’imam feroce, il rabbino invasato, il reverendo pazzo non vengono additati, nei loro ambienti, come nemici da emarginare, o sobillatori ignobili: peccato, perché lo sono.
Solo un eventuale governo di atei o di agnostici (israeliani e palestinesi), conquistando il potere di qui e di là, potrebbe aprire una fessura di speranza in quel macigno di odio. Ma voi capite: è pura fantascienza. Non essendo gli atei e gli agnostici depositari di alcun potere politico e di alcun seguito popolare, Israele e Palestina continueranno a essere, in eterno, il nome della sconfitta di entrambi.

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Non bisognerebbe mai parlare bene degli amici, ma questa volta non riesco a trattenermi. L’esordio alla regia di Claudio Bisio, a sessant’anni ampiamente suonati, è un gioiello. Tanto più se si considera che il tema del film – la deportazione dei bambini ebrei dal ghetto di Roma nell’ottobre del ’43 – consiglierebbe di dedicarsi ad altro argomento: come può un’opera d’arte essere all’altezza di una così indicibile tragedia? Se ne discusse già ai tempi della Vita è bella di Benigni, che pure, io penso, vinse la sua sfida.
Ora è un altro comico a confrontarsi con un tema così inavvicinabile. Il film si chiama L’ultima volta che siamo stati bambini, è tratto dal libro omonimo di Fabio Bartolomei e racconta la guerra, il fascismo, la deportazione, con gli occhi di quattro bambini. Lo sguardo è il loro. Si ride e si piange – come capita al cinema quando è buon cinema. Ho un pregiudizio favorevole nei confronti del genere comico e dei comici, del resto ci lavoro in mezzo da una vita. Ho sempre pensato che la comicità sia nata per salvarci dalla retorica; che contenga il tragico, ma sappia dirlo senza pesare, senza ricattare, senza opprimere. Che sia proprio un attore comico a dare alla luce un’opera così delicata, rispettosa, poetica su quella pagina abominevole della storia italiana, non mi sorprende. Che quel comico sia il mio amico Claudio, mi fa felice.

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A proposito di comico, compie dieci anni il mio libro Gli sdraiati, che tecnicamente proprio questo era ed è: un racconto comico, con la verbosa impotenza di un padre che si infrange contro il silenzio di un figlio. Se ne fece, all’epoca, una specie di caso sociologico, o politico-giornalistico, come se avessi scritto un saggio “sui” o addirittura “contro” i giovani, e non un’opera di narrativa. Ma ormai poco importa: il libro è stato messo ampiamente in salvo dai suoi tantissimi lettori, loro sanno cosa c’è scritto. E arriva in libreria proprio in questi giorni un’edizione “del decennale” con una nuova copertina di Gipi, otto disegni del medesimo e una mia postfazione. Il 25 ottobre a Milano, alla Feltrinelli di piazza Piemonte, si festeggia e ci sarà anche il peraltro direttore del Post Luca Sofri. Ci sarà a ragion veduta: avere scritto Gli sdraiati è, tra le altre cose, uno dei fortunati accidenti che mi hanno portato a scrivere questa newsletter “generazionale”.

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Infine, spazio alle vostre mail, che riguardano le mie considerazioni della settimana scorsa su Massimo Troisi (questa dunque è proprio la settimana del comico) e la cultura del Sessantotto. I sessantottini furono e sono molto verbosi, ho dovuto tagliare drasticamente… Vi chiedo, se possibile, di scrivere lettere più brevi.

“Sono del ’54. Quando si parla del 68’ si sottolineano sempre i rapporti con il terrorismo, la liberazione sessuale, il movimento sindacale, il ‘lassismo’ nella scuola e nell’università. Raramente viene sottolineata l’importanza che in quegli anni, nel cosiddetto “movimento”, davamo ai libri e alla cultura. Il sogno di poter cambiare la società e di renderla più giusta passava attraverso lo studio e la necessità di capire la realtà. Tutto sommato era un pensiero molto razionale e illuminista, che faceva parte della tradizione della sinistra. Raramente di Don Milani viene ricordato il ruolo di insegnante esigente e anche, a suo modo, rigido. Nella sua scuola non esisteva l’ora di Educazione Fisica e nemmeno il momento della ricreazione. Lo studio e la cultura erano un valore assoluto, erano lo strumento per raggiungere la consapevolezza e la liberazione. A Don Milani non piaceva che i suoi ragazzi andassero a ballare il sabato sera, la vedeva come una cosa futile che li avrebbe distratti da cose più serie. Non avrebbe avuto dubbi a giudicare questi ultimi decenni, avrebbe detto: ‘Avete messo da parte lo studio e i discorsi importanti per dedicarvi alla distrazione e alla ricreazione’. Forse si può trovare un punto d’equilibrio fra impegno e studio da una parte e leggerezza ed ironia dall’altra. Forse si può cominciare proprio da Massimo Troisi”.
Leo Rotundo

“Ho 53 anni, cresciuto a pane e Drive in, sotto l’ombra dell’ingombrante seno di Tinì Cansino. Nessun regista moldavo come maestro, ma Spielberg con E.T. e Lo squalo. In casa però la politica era presente tutti i giorni, con il telegiornale che ogni sera sciorinava l’elenco degli attentati o degli arrestati con l’immancabile chiusura, per me allora incomprensibile: ‘l’arrestato si è dichiarato prigioniero politico’. Uno dei miei ricordi più vividi delle elementari è l’ingresso durante la lezione del bidello che annunciava il rapimento di Aldo Moro. Tutto ciò per dire che dal ’68 sarebbe potuto nascere qualcosa di splendido, ma probabilmente nacque soprattutto odio. Non ho mai dato il mio voto a Berlusconi, credo però che la responsabilità che lei dà al fu Cavaliere sia eccessiva. Penso semplicemente che la mia generazione non ne potesse più di prigionieri politici e bombe, volesse altro, anche divertirsi. Semplicemente lui colse l’attimo e quello che le persone volevano. Se non ci fosse stato Berlusconi ci sarebbe stato qualcun altro, infatti anche nel resto del mondo occidentale non mi sembra che il cinema moldavo vada così forte…”.
Gian Luca, San Giovanni in Persiceto

“Gentile Serra,
da giovane ho letto quella Recherche che un suo collega sfoggiava tempo fa su un treno, e inconsciamente mi sono domandato se oggi riuscirei ad avere la stessa tempra e la stessa costanza dei miei vent’anni, quando ne leggevo un po’ ogni giorno, fino a leggerla tutta. Con il passare degli anni mi accorgo sempre più che io, che non potevo non finire un libro già iniziato, per quanto non mi piacesse (ricordo di aver letto l’ultimo dei Mohicani nonostante un latente disgusto, o il saggio di Tolstoj in Guerra e Pace in cui parla della sua idea di storia, a rischio di morire di noia), oggi, se un libro, una serie o una opera non mi garbano, le abbandono senza alcun rimorso. Ho più tempo di un tempo, ma forse sento di avere meno tempo in generale, chissà. O forse sono mio malgrado influenzato dell’etica mordi e fuggi dell’intrattenimento attuale, dove ogni cosa non deve superare i 30 secondi, altrimenti è noiosa. Mi impegnerò di più per annoiarmi”.
Federico

“Leggendoti ho tirato un sospiro di sollievo, anche io mi rendo conto che certi romanzi, certi film non tornerei né a leggerli né a rivederli. Ho vissuto l’adolescenza negli anni Ottanta come se avessi sbagliato decennio. Per fortuna non ero sola. Le cose cambiavano velocemente, ma molti di noi ragazzi si sentivano in dovere di ‘acculturarsi’. Spulciavamo di qua e di là, come naufraghi, dalla cultura della generazione del ’68, sentendoci pure un po’ orfani! Se qualcosa ci pareva astruso e pesante non osavamo confessarlo, con un’ipocrisia anche un po’ comica. Adesso non so… ascolto mia figlia diciottenne che vuole capire e conoscere, ma è come se quel filo che univa le generazioni si facesse sempre più sottile, spezzato. Sono troppe le distrazioni. Si fa fatica, dopo una giornata di studio o di lavoro, a mettersi a leggere i Fratelli Karamazov quando sai che TicToc, Netflix e compagnia bella sono là che ti aspettano. Forse è solo perché guardiamo alle nostre spalle, mentre una nuova cultura, una cultura seria e di rifondazione, è già alle porte. O almeno lo spero…”.
Deborah

“Ho vissuto gli anni giovanili nel tentativo, goffo e disordinato, di arricchire la mia conoscenza con letture, musica, film, provando un po’ a reinventarmi, fermo restando che non mi sono mai avventurato in piani sequenza da 25 minuti o in assemblee fumose. Tutto molto meno intenso di chi ha vissuto gli anni e le esperienze che lei descrive, però nel mio piccolo ho provato questo impulso, così come i tempi passati a discutere dei massimi sistemi con gli amici, a volte accapigliandoci sul nulla, spesso sulle basi di letture e di conoscenze non così salde. Ricordo con assoluta nettezza il cambiamento repentino degli anni 80: entrai al liceo nell’80, appunto, e i più grandi arrivavano con barba ed eskimo. Poi, l’anno dopo… fine. Stop. Disimpegno totale, anzi guai a parlare a scuola di argomenti impegnati, a costo di essere emarginati. Non saprei dire le cause dello stravolgimento così repentino e plateale che nel giro di pochissimi anni ha visto l’arrivo dei paninari, e poi via di seguito. Il messaggio berlusconiano certamente ne ha responsabilità, ma non può essere sufficiente. Penso anche ad una sorta di crisi di rigetto, chissà. E comunque faccio ancora fatica a pensare che sia vero che ‘la gente vuole le cose facili’. Penso che la qualità vinca, ma forse non trova più spazio nei tempi ristretti e frammentati della comunicazione a base sensazionalistica, che rifugge l’approfondimento”.
Guido

“Non credo che ci siano poche persone che si pongono domande sulle cose grosse della vita. Sono convinto, anche per esperienza diretta, che ce ne siano tante, e che non sia un lusso di pochi pensarci. Di certo son cambiate una marea di cose, e la televisione di Berlusconi è un buon capofila tra queste. È sicuramente difficile immaginare come queste cose possano dare origine ad una rivoluzione paragonabile a quella del 68: ma forse è un problema di immaginazione. Poi manca quell’aria frizzante che si respira quando il futuro è incerto. Non mi ricordo se se ne parlava qui o su Morning, ma mi viene in mente il discorso sul fatto che la natalità aumenta di più creando un clima di ottimismo e il piacere di vivere, che con gli sgravi fiscali. Ora abbiamo molti più dati e previsioni (quasi tutti sempre nella stessa direzione) e una convinzione diffusa e direi ben fondata che il futuro sarà peggiore. In questo contesto, immaginare un’alternativa richiede molta più fatica, e consumare è così facile e soddisfacente… Concludo ringraziando per la lettera del giovanissimo Gabriele. Dovremmo anche smetterla di vederli sempre come vittime inermi/smidollati”.
Stefano