Piantare gli ombrelloni con le mani
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Piantare gli ombrelloni con le mani
Michele Serra
Martedì 8 agosto 2023

Piantare gli ombrelloni con le mani

(Spencer Platt/Getty Images)
(Spencer Platt/Getty Images)

Chissà se Caterina è riuscita a rivedere le barche che volano… Ho ripensato a lei (vedi le lettere a Ok Boomer! del 20 febbraio) e alla lunga chiacchierata che abbiamo fatto in tanti, a proposito del lavoro – quello “ben fatto” e quello che opprime, quello che non c’è e quello che sarebbe meglio non ci fosse – dopo avere letto il gran pezzo di Stefano Andreoli “Terziario, triste e solitario”. È sul Post, sezione Storie/Idee, e se non l’avete ancora letto, fatelo.
È una delle cose meglio scritte che mi è capitato di leggere negli ultimi tempi, e già questo conta parecchio, almeno per me. La forma, per il vecchio boomer, è già un valore in sé (a proposito di “lavoro ben fatto”). Il contenuto ne giova assai: avrebbe potuto essere una dissertazione pedante su quanto sia alienante il lavoro immateriale; invece è una riflessione profonda e divertente su quanto sia alienante il lavoro immateriale. “Ci guadagniamo da vivere producendo qualcosa che non si può toccare”, scrive Andreoli che avrebbe poco da lamentarsi – è uno dei più bravi autori satirici degli ultimi anni – eppure evoca la stessa, misteriosa malinconia che galleggiava, nei mesi passati, in molte delle vostre lettere sul lavoro, specie se siete dai quarant’anni in giù: “quello strano malessere, quel senso di vuoto, non se ne va. Forse perché la manifattura, l’atto di produrre fisicamente una merce, si è spostata così lontano da noi che non solo non facciamo più le cose, ma nemmeno conosciamo qualcuno che le fa”.
Andreoli cita quello che è ormai un classico della satira aziendale, L’uomo di marketing e la variante limone di Walter Fontana. A me è tornato in mente un pezzo che scrissi, quasi trent’anni fa, con e per Antonio Albanese, L’uomo che non sa che lavoro fa. Avevamo letto le offerte di lavoro sul Sole 24 Ore e ci aveva molto colpito, e fatto ridere, scoprire che erano molto richiesti gli analisti delle gestioni integrate. Ancora oggi nessuno ha mai saputo spiegarmi chi sono, e che cosa fanno, gli analisti delle gestioni integrate. L’alienazione aziendale è comunque un tema già familiare alla satira fino dai lontani anni Settanta. I miei coetanei ricordano sicuramente, su Linus, le strisce di Bristow, gelida saga a fumetti sulla immaginaria azienda Chester Perry nella quale, già allora, nessuno sapeva che lavoro faceva.

Andreoli è del ’79, più giovane di me di una generazione, dunque ha vissuto più direttamente e più incondizionatamente la smaterializzazione del lavoro. Per restare nel nostro ambito professionale (gente che scrive), io ho fatto in tempo a crescere nel fracasso delle rotative e delle linotype, lavorando fianco a fianco con tipografi neri di inchiostro, con le righe di piombo da allineare in un telaio, gli spessori di rame per chiudere le colonne, le lettere di zinco per comporre i titoli, più o meno come ai tempi di Gutenberg. Ho bevuto porcherie, a notte fonda, con camionisti che venivano a ritirare le copie del giornale per consegnarle in mezza Italia. Con uno di loro entrai (clandestino) nell’Italsider di Taranto, tra fuochi e fumi apocalittici. Mi sembrò di penetrare nel nucleo incandescente del mondo, nel cuore stesso del grande corpo della modernità; oggi un’inchiesta sulle acciaierie, almeno qui in Occidente, è un viaggio in un territorio residuale, novecentesco. Il corpo degli operai (che ci sono ancora!) non ha più il peso fisico, e politico, che diede forma e peso al Novecento.

Ho vissuto il giornalismo anche come fabbrica, come manifattura e come metalmeccanica. Quel modo di produzione non esiste più – sostituito, intendiamoci, da pratiche meno faticose e meno pericolose: ma soprattutto più profittevoli per le aziende – e con esso qualcosa di noi è scomparso. Qualcosa “manca”, e se non sappiamo definirla bene, la riconosciamo ogni volta che il nostro rapporto con il mondo si ri-materializza. Siamo animali, la realtà fisica è ciò che ci dà vita e senso, ci rimette in quadro. La tecnologia, anche se silicio e terre rare ne garantiscono l’hardware, è metafisica, ci fa sembrare di essere ovunque ma, nel farlo, ci leva la terra sotto i piedi, espropria il nostro metro quadrato e ci fa galleggiare come anime nel paradiso – e siccome il paradiso non esiste, la sensazione di spaesamento, e di truffa, è anche peggiore.
Mesi fa, a proposito dell’importanza di rimettere le mani addosso al mondo, vi suggerivo La lezione del legno, di Arthur Lochmann, storia di un filologo francese quarantenne che “rinasce” facendo il carpentiere: “si impara a pensare con le mani”. Ho letto l’articolo di Andreoli subito dopo avere finito di pulire a mano due file di elicriso (pianta officinale tra le più affascinanti). So di essere un privilegiato – lavoro nei campi parecchie ore a settimana, non per mantenermi ma per mantenere i campi… – e non pretendo di dispensare buoni consigli. Ma non ho dubbi: il cervello, scorporato dal corpo che lo ospita, non è contento. È un orfano.

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Ma è agosto, dannazione! Me ne stavo quasi dimenticando: invece di alleggerire, e alludere al vuoto magico della vacanza, ancora mi dilungo su un tema così tipicamente invernale – il lavoro. Per rimediare, visto che in estate ogni buon palinsesto vive di memoria e di citazioni, estraggo dalle mie teche un pezzo di satira scritto per l’Espresso esattamente un anno fa: l’argomento è da tempi di guerra (i nostri, appunto), ma spero di strapparvi un mezzo sorriso sotto l’ombrellone, ammesso che la trita espressione “sotto l’ombrellone” corrisponda al vostro status del momento. Dunque: satira preventiva, agosto 2022.

Il nazionalismo è tornato di moda, e con lui una serie di usanze collaterali ottocentesche (i baffi a manubrio, le sfide a duello, la cacca di cavallo, le giacche da ufficialetto con gli alamari, i sali per far rinvenire le signore) che parevano sepolte nel tempo, e invece daranno il tono ai prossimi anni, con guerre sempre più avvincenti, sempre più imprevedibili.

Le sorprese – I colpi di scena sono garantiti. È recente, per esempio, la scoperta di una agguerrita minoranza russa a Pavia, che ha chiesto la protezione di Mosca, e di una minoranza kosovara all’interno della minoranza serba del Kosovo. Gli studiosi di cose balcaniche non escludono che, dentro questa minoranza kosovara interna alla minoranza serba del Kosovo, sia contenuta una ulteriore minoranza serba, che sarebbe dunque la minoranza serba della minoranza kosovara della minoranza serba del Kosovo. Una situazione molto ingarbugliata che richiederà, nei trattati internazionali, la distinzione tra minoranze nazionali di primo, secondo e terzo grado.

La definizione – Ma come si definisce una Nazione? Secondo le nuove teorie sovraniste, basta depositare stemma e bandiera presso un notaio e fissare una capitale e si può cominciare a legiferare in proprio, allegando fotocopia della carta d’identità e tessera sanitaria. Ovviamente, essendo la Nazione un concetto collettivo per eccellenza, bisogna essere almeno un paio di famiglie. È il caso della minoranza slavofona in Tibet, composta da due cugini secessionisti e dalle loro mogli. Sorprendente il fiorire di nuove nazionalità nella ex Unione Sovietica, molte delle quali, sotto il comunismo, erano rimaste sconosciute agli stessi popoli interessati, che hanno scoperto solo recentemente la propria identità nazionale. I berghezi, i turalli, i pàpari, i mornati, gli uriani, gli ottantotti (che prendono il nome dal loro numero): popoli dispersi e perseguitati che finalmente stanno ritrovando le proprie tradizioni e la propria storia, dopo secoli di oblio, e potranno dare vita, ciascuno secondo le proprie possibilità, a conflitti piccoli, medi e grandi, ognuno indossando con orgoglio la sua pittoresca uniforme nazionale: i berghezi con il doppio pennacchio di fagiano, gli uriani con i caratteristici shorts di corteccia, gli ottantotti a torso nudo e con il prezioso copricapo di baffi di foca. Sono le conquiste del nazionalismo: tornare alle usanze degli avi, senza dare alcun peso all’ipotesi che gli avi potessero essere fior di coglioni.

La novità – A complicare la situazione, sta entrando in scena il trans-nazionalismo. Si tratta delle persone che rifiutano la propria nazionalità di nascita. Il primo caso fu quello di Manolo Rodriguez, un impiegato andaluso che, pur non essendo mai stato in Giappone, e non sapendo nemmeno una parola di giapponese, si è sempre sentito giapponese. La sua lotta per il riconoscimento del proprio diritto di essere giapponese è stata più forte dell’indifferenza del governo spagnolo e di quello giapponese. Ora Manolo conduce la stessa vita di prima (è impiegato postale a Siviglia), ma si fa chiamare Oshima e tutti rispettano la sua scelta. Si fa strada l’idea che per definirsi giapponese, o turco, o malese, basti l’autoidentificazione. Interessante anche il fenomeno del nation-fluid: a seconda del momento, ci si può sentire congolesi, californiani, usbechi, svedesi. Questo ha eccellenti ricadute nel campo dei diritti della persona, ma potrebbe comportare qualche problema in caso di conflitto. Se per esempio il congolese fluid, combattendo contro i turchi, si sentisse improvvisamente turco, potrebbe arruolarsi all’istante nell’esercito nemico, attraversando la linea di fuoco, o sarebbe crivellato da ambo le parti e dunque non potrebbe esercitare il suo diritto di autodeterminazione? E un presidente russo che un bel mattino si sveglia sentendosi americano, potrebbe insediarsi alla Casa Bianca?.

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Dicono che in agosto si legga molto, dunque ne approfitto per pubblicare una lettera lunghissima (nonostante l’abbia molto tagliata). Prende spunto dal mio articolo sul Post – sempre nella sezione Storie/Idee encomiabilmente governata da Giacomo Papi – nel quale tracciavo un bilancio della mia vita “senza social”. È una storia di fuga dai social, la trovo ben raccontata e soprattutto è un trentenne che la racconta.

“Caro Michele,
vorrei condividere con te il punto di vista di una persona che ha preso, anni fa, la decisione di abbandonare i social network ma, a differenza tua, non è nata negli anni ’50 ma negli anni ’90. Nel 2003, anno zero dei social network, avevo 11 anni; decisamente troppo piccolo per poter accedere a quel mondo, cellulari, computer e internet esistevano già ma il loro livello di penetrazione nella vita di tutti di giorni era ben lontano da quello attuale. La valanga, tuttavia, era già innescata: da lì a poco quelli che ancora non si chiamavano social network avrebbero già iniziato a modificare – avrei preferito minare, ma rimaniamo neutrali – le interazioni sociali delle fasce d’età più fragili, adolescenziale e preadolescenziale.
Ero uno studente delle scuole superiori quando erano diventate ormai comuni tra i miei coetanei espressioni tipo “ci sentiamo dopo su MSN”, oppure “gli/le ho mandato dei trilli” e via discorrendo. Io, che abitavo in una piccola frazione di campagna dove la connessione internet non era ancora arrivata, mi sentivo escluso come se mi fosse stato impedito di frequentare fisicamente un luogo di aggregazione.
Dopo esser riuscito ad arrabattare una connessione internet districandomi tra varie difficoltà e inventandomi i più fantasiosi espedienti, con la stessa forza della disperazione di un tossicodipendente alla ricerca della sua dose (similitudine non casuale), l’era di MSN era già passata. Feci però in tempo a iscrivermi a quello che è universalmente considerato il primo vero social network: Facebook. Avevo circa 16 anni, il mio modo di relazionarmi e di concepire le interazioni sociali sarebbe stato da quel momento in poi inconsapevolmente stravolto.
L’età in cui ci si tuffa nel mare dei social è determinante, perché farlo da adulto non preclude di certo il rischio di affogare o, peggio ancora, di veder mutare i propri arti in pinne e le proprie narici in branchie, ma quantomeno la persona che lo fa è cosciente del fatto che esiste un mondo al di fuori di quel mare: non è quello il nostro universo, ma solo una parte di esso. Nascere nell’era social vuol dire invece ignorare quasi del tutto l’esistenza di ciò che c’è al di fuori; in soldoni, ignorare che ci sono innumerevoli altri modi di socializzare, interagire, conoscere e informarsi. Lo dico per evidenziare la drasticità della scelta di chi ha meno di 35 anni e decide di abbandonare l’universo social: non si tratta di abbandonare un ambiente frequentato dai più a discapito di altri, si tratta di abbandonare l’unico ambiente nel quale si è cresciuti.
Tornando al dunque, in quel lontano giorno del 2008 entrai a far parte del mondo dei social network e, rimanendo sulla metafora del mare, fui immediatamente sopraffatto dalla corrente senza nemmeno rendermene conto. La modalità di interazione con le altre persone non subì alcuna modifica, semplicemente venne cancellata; il social network non rappresentò un nuovo modo di interagire con più persone, il social network divenne la sola entità con cui interagire. Da quel momento in poi qualsiasi esperienza, fosse essa una serata con gli amici, una battuta scambiata o un’esperienza vissuta, non rappresentavano più elementi della mia, della nostra vita, ma tasselli con cui arricchire il nostro profilo; le persone con cui condividevo la mia esistenza – e loro viceversa, beninteso – erano ormai delle semplici pedine da disporre sul tavolo della mia personalità virtuale. Si entra in un vortice entro cui persone, emozioni, esperienze sono mere appendici della nostra immagine virtuale.
La goccia che, nel mio caso, fece traboccare il vaso arrivò nel periodo post adolescenziale, quel florido periodo della vita in cui la massa informe di pensieri che si ha in testa inizia a prendere forma e a trasformarsi in una bozza di coscienza, perché no, anche politica. Non ho molto, anzi nulla, da aggiungere a quanto detto da Umberto Eco nella sua celeberrima frase riguardante i social network; mi rendevo conto di essere uno dei tanti imbecilli di cui parlava. Ecco che all’improvviso il signor nessuno sciorinava teorie e opinioni sulla termodinamica dei buchi neri, ed ecco che io, trascinato dal fervore della folla che mi circondava, iniziavo a parlare alle mie centinaia di seguaci (centinaia! ci sono persone che solo dopo 30 anni di studi sono arrivati a parlare a una platea di centinaia di persone) di cose di cui non sapevo assolutamente nulla.
Mi sono fermato un attimo, ho riletto ciò che avevo pubblicato con gli occhi di un osservatore esterno. “Questo no” mi sono detto, “questo no”. Correva l’anno 2015, avevo 23 anni, ho fatto un bel respiro, l’ultimo fatto con le branchie, e sono riemerso. Non è stato facile e, come hai scritto nel tuo articolo, sicuramente mi sono perso qualcosa. Ma vedendo come il mondo dei social si sia evoluto – nel frattempo sono arrivati Instagram, TikTok e compagnia cantante – mi permetto di dire con relativa sicurezza che quel che mi sono perso è stato più che compensato da ciò che ho guadagnato. Vivere un’esperienza, sia essa positiva o negativa, disaccoppiarla dal bisogno di condividerla sul proprio profilo e tenersela per sé: ecco, questa è una cosa che non sono più disposto a perdere”.
Patrizio