Orsi, lupi e cautele
Fare il direttore di un quotidiano è una fatica che mi è stata risparmiata (il Fato a volte bastona, ma a volte protegge). Mi fosse capitato, la prima decisione che avrei preso sarebbe stata di ridurre drasticamente lo spazio dedicato alla cronaca politica nazionale. Che oggi occupa molte pagine a partire dalla prima, spesso senza che nulla di determinante, o di appassionante, possa far pensare che la giornata politica sia degna di uno spazio così spropositato.
A parte rare interviste lunghe nelle quali chi dispone di un pensiero ha la possibilità di articolarlo, la cronaca politica è confezionata in larga misura come un collage di frasette, pensierini, brevi dichiarazioni catturate al telefono oppure ottenute dalla scrematura dei talk show e di Twitter, sommata ai più tradizionali “lanci di agenzia”. Che a Roma vedono all’opera anche una mirabolante quantità di piccoli misteriosi opifici, spesso unipersonali, che si guadagnano da vivere diramando il pensiero di Tizio e di Caio, o anche di vice-Tizio e vice-Caio.
La materia prima è quella che è. Non sempre memorabile, diciamo. Ciò che colpisce è la lavorazione mediatica della stessa, che tenta di dare una configurazione omerica alla meno epica delle storie: il tran tran quotidiano nei palazzi romani e nei loro immediati dintorni. Tra i verbi più usati “tuonare”, tra i sostantivi “ira”. Esempio: Tizio tuona, in risposta ecco l’ira di Caio. Alla luce implacabile dei fatti, ovvero delle parole pronunciate, Tizio non ha tuonato, ha solo borbottato qualcosa, e Caio non è sopraffatto dall’ira, al massimo un poco seccato. Già domani, incontrandosi nella trattoria dove tutta la Roma politico-giornalistica, più l’indotto, si incontra (una specie di trattoria diffusa, composta da decine di trattorie) o a Montecitorio, nella famosa buvette, i due si saluteranno con la solita cordialità convenzionale. Non è successo niente, non è stato detto niente di così significativo e irreparabile. Al tavolo accanto, il giornalista che ha scritto “Tizio tuona” e “ira di Caio”. Prenderanno il caffè insieme.
Un esempio recente – non tra i peggiori, tra l’altro: in passato sono volati titoli di prima pagina anche per molto meno. Silvio Berlusconi, anziano leader del quinto partito italiano, viene ricoverato in condizioni molto gravi. Carlo Calenda, giovane leader del sesto partito italiano, pronuncia in un talk show del mattino le seguenti parole: «Penso sia la chiusura di fatto della Seconda Repubblica. La Seconda Repubblica è Berlusconi, nel bene e nel male. Non ho mai creduto alla sua successione». La frase è preceduta da parole di augurio per il degente e di elogio per la persona («è un leone»).
Rileggendo anche più volte le parole di Calenda, è impossibile cogliervi alcunché di offensivo o di scorretto. Al massimo una certa intempestività, perché è bene pronunciare gli epitaffi solo a decesso avvenuto. Ma che Berlusconi sia stato il leader simbolo della cosiddetta Seconda Repubblica (che poi sarebbe il nome, esagerato, dato alla Prima dopo Tangentopoli) è un’ovvietà: è stato capo di quattro governi. E che Forza Italia senza di lui sia destinata a scomparire («non ho mai creduto alla sua successione») è un’opinione politica del tutto legittima, nonché un’ipotesi assai probabile. Per un paio di giorni, invece, quasi tutti i quotidiani e molti siti politici hanno riportato reazioni indignate («l’ira di Forza Italia»), dai tradizionali «Calenda chieda scusa» e «Calenda si vergogni» ai più elaborati «non conosce i fondamenti dell’educazione», «è uno studente svogliato». Nonché l’immancabile radical-chic ormai così diffuso che minaccia di entrare presto in uso anche nelle liti tra calciatori.
È questo (Forza Italia versus Calenda, per ragioni forse oscure anche ai contendenti) il più rilevante “caso politico” della settimana passata, almeno valutandolo a peso – le quintalate di titoli. Non dev’essere facile, per chi fa politica, dire una cosa interessante al giorno: difatti non la dice. Né dev’essere facile, per chi segue professionalmente la politica, trovare ogni giorno una notizia decente: difatti non la trova. Questo potrebbe consentire a giornali e telegiornali di parlare d’altro, ma per farlo dovrebbero configurarsi in maniera così profondamente differente che forse non si sentono ancora pronti. Sarebbe un salto nell’ignoto, e la libertà spaventa.
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L’orso che uccide l’uomo, per noi che viviamo lontano dalla città, non è solo una paura ancestrale che si risveglia. È una conferma che la natura non è un pranzo di gala, non è un’arcadia, non è un idillio, come possiamo registrare con micidiale evidenza, noi forastici, quando troviamo la carcassa del capriolo e del cinghiale spolpata dai lupi. Quando i lupi, sul far della sera, ululano nel bosco dietro casa (esperienza ormai molto diffusa in Appennino, meno nelle Alpi) posso assicurarvi che anche il più entusiasta dei naturalisti non pensa solamente: è un grande successo della salvaguardia di un animale meraviglioso, salvato dall’estinzione. Pensa anche: domani quando vado nel bosco mi porto la scacciacani, che fa un gran botto e pare sia molto efficace per allontanare quei lupi diciamo così eccentrici, che non si allontanano spontaneamente quando vedono arrivare l’uomo. Anche lo spray al peperoncino forse potrebbe funzionare, in casi di emergenza. Per “casi di emergenza” intendo: quando non dovesse funzionare la raccomandazione del professor Boitani, grande lupologo italiano e autorità mondiale in materia, che suggerisce, di fronte a lupi singoli o in branco, di rimanere fermi, tranquilli e allargare le braccia, perché in natura conta molto dare l’impressione di essere grossi. La natura è (anche) teatro. Ecco, io rimarrò fermo e allargherò le braccia. Ma sarò contento di avere in tasca la scacciacani.
Due anni fa scrissi per Repubblica un lungo racconto. La storia di Uno, capobranco dei cani maremmani miei vicini di casa (proteggono un gregge di pecore) scannato dai lupi. Morto sul lavoro.
Su orsi e lupi, ho da dire questo: hanno ragione gli animalisti e hanno ragione quelli che hanno paura degli orsi e dei lupi, dunque hanno torto entrambi. Illudersi che la salvaguardia della natura non comporti, per l’uomo, un prezzo, è insensato. Circa cinquanta italiani muoiono, ogni anno, per choc anafilattico indotto da punture di vespe. Eppure lo sterminio delle vespe (che occupano il loro bravo segmento, nel grande cerchio della vita) non è proponibile, difatti nessuno lo propone. Ma insensato è anche pretendere che la bestia – in quanto bestia – sia innocente e intoccabile. I lupi in Italia sono ormai migliaia (l’ultimo censimento dice tremilatrecento. Mi permetto di supporre che sia un numero approssimato per difetto). Può darsi che sia necessario controllarne il numero. Parlare con ragionevolezza e cognizione di causa del problema (perché il problema c’è) non sembra probabile, per il momento. Io nel frattempo conto i morti – quaranta i cani scannati nelle valli qui attorno, Appennino di Piacenza, e non si contano pecore, capre, vitelli, anche qualche asino e qualche puledro – e confido nella lungimiranza delle autorità: che siano più forti degli animalisti integralisti, e più forti di chi vuole fare giustizia sommaria. Ci vuole una politica del lupo, ci vuole una politica della natura.
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Venerdì santo, a tarda sera, è morto il mio computer. Non sto a dirvi le successive peripezie – corsa a Milano, nel quartiere cinese, dove la cibernetica ortodossa, quella da Silicon Valley, pomposa e inefficiente, è fortunatamente spodestata da Johnny l’Aggiustatutto, che in poche ore ti risolve il problema. Poche cose danno l’impressione dell’imminente dominio cinese del mondo, quanto Johnny l’Aggiustatutto, che sempre sia lodato: è aperto anche la domenica di Pasqua!
Ma questo era solo per dirvi che, causa blackout di un paio di giorni, ho potuto dare scarso e frettoloso rilievo alle vostre lettere sul tema “stress scolastico” (vedi il precedente Ok Boomer!). Che sono state, al solito, tantissime, e preziose – non lo dico per ruffianeria, giuro. Qui di seguito le poche che sono riuscito a selezionare prima del blackout pasquale.
«Questo allarme lanciato dagli studenti mi fa venire in mente la serie Netflix Tredici, tredici puntate in cui si raccontano i tredici motivi per cui la protagonista, Hannah, si è suicidata. Mentre la guardavamo, io e mia moglie (era il nostro guilty pleasure del periodo) ci stupivamo di queste situazioni che a noi sembravano piuttosto normali e che venivano presentate come ‘gesti di bullismo’ subiti dalla ragazza (peraltro bella, simpatica, con un sacco di amici). Insomma, ci veniva da dire: poteva andarle molto peggio”.
“Poi penso, però, alla mania che hanno ora le aziende di valutare la performance dei dipendenti. Lavoro in una piccola agenzia (per fortuna o purtroppo) le cui dinamiche sono ancora molto all’italiana, ma sento racconti di amici e conoscenti impiegati in queste multinazionali milanesi con obiettivi da fissare, colloqui di valutazione e salary review. All’insegna della ‘trasparenza’ e dell’ossessione americana per la meritocrazia, il manager di turno non può concedere l’aumento al suo amico di merende senza prima aver messo nero su bianco che costui exceeds expectations, supera le aspettative. Quindi forse effettivamente una certa ossessione per la performance c’è. Se è dunque è giusto sdrammatizzare l’ansia scolastica, e che i ragazzi devono essere consapevoli che le difficoltà sono parte della vita, è forse anche vero che la società richiede di ottenere risultati in un modo esagerato».
Matteo
«1 – Ai ragazzi di oggi non viene permesso di sperimentare neppure l’ansia da ‘ho bigiato, speriamo di non essere scoperto’. Il registro elettronico avvisa i genitori alle 8.05 se il ragazzo non è in classe. 2 – Il maledetto registro elettronico dice ai genitori in tempo reale se il figlio ha preso quattro come se ha preso otto. 3 – Molti genitori geolocalizzano gli adolescenti, con la scusa del ‘se succede qualcosa so dov’è’. 4 – Io da neolaureata dieci anni fa avevo un ottimo curriculum, laurea, un Erasmus, un’esperienza di stage extra europea e diverse attività extra scolastiche all’attivo. Un responsabile delle relazioni umane qualche giorno fa mi ha detto ‘ormai l’Erasmus è uno standard, l’anno di studio all’estero alle superiori è un quid in più e non si può non avere un C1 di inglese’. 5 – Corsi di approccio alla lingua inglese per bimbi di 3 anni, psicomotricità a partire dal nido, educazione musicale la si inizia a 2 anni… Ora: se vengo cresciuta a continui stimoli, continuo controllo, senza aver mai la possibilità di annoiarmi, perdere tempo, capire cosa mi appassiona veramente, scontrarmi con l’autorità, come potrò diventare un adulto risolto in grado di affrontare gli ostacoli della vita? Non è che forse l’ansia dei più giovani nasce dall’ansia degli adulti che non sono più capaci di fare un passo indietro rispetto alla vita dei figli?»
Chiara
«Le asticelle e le aspettative individuali diventano sempre più alte. Se non eccelli niente autostima. Molti rinunciano fino alla resa (ikikomori o aspirazioni zero, o nemmeno cercano lavoro), altri combattono, ma quasi tutti perdono, perché nella nostra società non dico il secondo ma figuriamoci in decimo non contano niente. Se non vinci sei un perdente e pure sfigato. Così la distanza fra le mie possibilità di sentirmi bene con me stesso e le mie stesse distorte aspettative diventa abissale. E con essa l’ansia da sconfitto. Ma sconfitto in che gara? Decisa da chi? Mannaggia!»
Giorgio
«Che i ragazzi oggi vadano in merda per poco, è cosa nota. Un bel mea culpa lo dobbiamo fare noi genitori, sempre pronti col rullo compressore a spianare il loro cammino, poco importa se davanti c’è un bruscolino o un vero intralcio.
Però… il sistema scolastico italiano è moribondo per davvero, ma a parte qualche chiosata giornalistica qua e là, non c’è nessuno a cui questo problema interessi veramente. Io faccio la preside e oramai sono rassegnata. La scuola pubblica sta agonizzando nel più vibrante disinteresse generale. Un sistema selettivo, mutuato pari pari dall’impianto fascista che fa andare avanti i soliti e rottama gli altrettanto soliti. Non sono mai stati reclutati insegnanti, ma laureati. Poi qualche laureato con la passione per l’insegnamento c’è, ma son proprio pochi.
La Spagna post-franchista ha raso al suolo il sistema scolastico della dittatura e oggi ha un impianto democratico. Da noi l’orario dei docenti è ancora quello del 1923. Abbiamo fatto finta di dare le opportunità a tutti, di rimuovere gli ostacoli: ma in Italia si diploma o si laurea chi proviene da un certo background. Gli altri li espelliamo. Hanno ragione gli studenti: il merito e la competizione sono alternativi e non prodromici alla costruzione di una società efficiente. Ormai è il saper lavorare in team a fare la differenza per il PIL. Da noi, invece, si continua a fomentare un individualismo narcisista quanto inutile. A settembre andrò in pensione e volentieri: non voglio più essere complice delle tante ingiustizie che vedo in ogni consiglio di classe che presiedo. Il ministero del Merito non lo voglio aiutare».
Cristina
«Credo che il problema non sia tanto la bassa soglia di sopportazione insita nei ragazzi, ma i valori costruiti da noi adulti. Continuiamo come società a caricare i ragazzi con continui stigmi e idee malsane di meritocrazia assurda e falsa, che li spingono a vedersi sempre inferiori, a controllare quanto il vicino e coetaneo corra più veloce invece di godersi la loro, di corsa. A questa generazione è stata negata, a suon di falsi miti sulla produttività anglosassone e meritocrazia mediterranea, la possibilità di esplorare l’ozio come virtù. Sono sicura che lei è quello che ora è e fa quello che scrive anche per i pomeriggi passati al cinema ed al biliardo. Lo dico anche da un punto di vista personale: ho capito come il modo di vivere e vedere il mio percorso era legato al modo di criticarlo dalla nostra di società. Mi sono sentita per molti anni di Politecnico come il coniglio di Alice: sempre perennemente in ritardo. Ho potuto defilarmi da questo moto uniformemente accelerato solo con il percorso di tesi: mi ci è voluta la Colombia, Bogotà ed una comunità che viveva nell’informalità degli slums sudamericani. Non incolpiamo i giovani per la mancanza di risposta agli stress minori, perché maggiori sono le finte virtù da noi create».
Erada
«Ho 40 anni, insegno dal 2001, ho iniziato forse troppo presto. Le sue parole sulla gestione dello stress e dell’ansia, sulla percezione della fatica, esprimono gli stessi pensieri che cerco di condividere con gli studenti del biennio dell’istituto in cui insegno italiano e storia. Incontro ragazzi super ansiosi per una prova di storia, disperati per una valutazione negativa, e indago con loro sulle cause del malessere, cerco di capire le cause di un fallimento e… beh, scopro che non avevano preso appunti, fatto compiti, schematizzato, sottolineato, ripassato le pagine del libro, non avevano chiesto spiegazioni per la lezione persa. Quindi spiego loro che possono affrontare l’ansia di una prova preparandosi per la prova. Spiego l’acqua calda. E mi guardano smarriti, domandandomi piccati perché mi intrometto del loro legittimo essere ansiosi come richiesto dalla società che descrive giovanissimi fragili e imbronciati; io docente che ho la colpa di chiedere loro il (legittimo) sforzo necessario ad affrontare il percorso scolastico che è di crescita, formazione e giocoforza di fatica».
Elena