Non vedo le barche volare
Mi sono messo nei guai. Sapevo e speravo che l’argomento “elogio del lavoro ben fatto” avrebbe toccato nel profondo molte e molti, evocato passioni, urtato suscettibilità (anche generazionali). Ma le lettere arrivate a Ok Boomer! sono così “vive”, così rilevanti per quantità e per qualità, che minacciano di espugnare già in partenza il mio piccolo potere di governatore di questa isoletta di parole.
Alcune le leggerete in coda a questa puntata (si dirà così?) della mia newsletter. Non integrali – per non alluvionare il vostro tempo – e da me sfrondate con un lavoro redazionale che spero il mio nuovo boss, il peraltro direttore Luca Sofri, sappia apprezzare. Sono lettere che mi hanno colpito, emozionato, irritato, coinvolto, infine insegnato qualcosa – e dunque sarebbe un vero peccato tenerle per me.
Prima, però, ho una cosa da aggiungere.
La cosa da aggiungere, anche per mettere meglio a fuoco l’argomento, è questa. Poche cose sono stupide come maledire il benessere, e dunque considero retorico e fuori luogo ogni riferimento ai “bei tempi andati”. Ai “bei tempi andati” la maggioranza delle persone si spezzava la schiena per un tozzo di pane, oggi la maggioranza delle persone ha tozzi di pane quanti ne bastano per riempire un silos, e non deve nemmeno riempirlo, il silos, portando fino in cima il sacco in spalle. (Unità di misura del sacco in spalle fino alla meccanizzazione, secondo la diffusa memoria orale agricola: cento chili).
Ma anche il benessere – come tutto – va vissuto con il beneficio del dubbio, valutandone l’impatto, dunque non solamente i grandi vantaggi. Quali rimbalzi ha avuto, il benessere, su noi viventi occidentali? Un effetto negativo del benessere potrebbe (potrebbe) essere, per esempio, avere disseminato, nelle pieghe del proprio splendore, una certa indolenza. Una certa assuefazione alla “pappa fatta” – lo sento, lettori non boomer, che siete già in allarme, sul piede di guerra…
La discussione sulla “pappa fatta” è in larga misura, e comprensibilmente, una disputa socio-economica, un rinfacciare ai figli lo sgobbare dei padri, e di contro un rinfacciare ai padri le tante occasioni avute, le molte meno oggi a disposizione dei figli, l’avere “consumato”, tra le troppe cose, anche il futuro, per giunta il futuro altrui. Ma c’è dell’altro, e forse è proprio questo altro che accende la discussione “tra generazioni” in tema di lavoro e di mantenimento, che la rende così sentita e a volte così risentita. Questo altro è l’ansia. L’ansia inferta, l’ansia subita.
L’ansia dei genitori è un vero e proprio classico. Nel primo paio d’anni in cui vivevo fuori casa, quando tornavo a trovare i miei, mia madre mi chiedeva “se volevo farmi una doccia”, irritandomi a dismisura – la facevo a casa mia, ero provvisto, addirittura, di sapone e di asciugamani. Lei lo sapeva perfettamente, che ero in grado di lavarmi per mio conto. Ma era dentro la sua “stretta” (ansia quello vuol dire, etimologicamente) di eterno genitore, e dunque non riusciva a starsi zitta.
Nella nuova ansia, quella dei genitori boomer, c’è un sovrappiù specifico che si aggiunge al carico d’ansia tradizionale. Si teme che le nuove generazioni siano indebolite dal benessere, semisoffocate dalla troppa bambagia della quale abbiamo imbottito la nostra e la loro vita quotidiana. Che se scoppia la guerra, se la crisi ci schianta, se finiscono i soldi, se il welfare collassa, se la siccità ci asseta, se il nonno muore e porta nella tomba la sua pensione, se i lupi tornano a ululare davanti alla porta di casa, insomma se il bisogno torna a manifestarsi nelle sue forme più brutali, primitive, dirette, la disabitudine alla fatica e al sacrificio (parole che a noi boomer, lo so, piacciono oltre il lecito) impedisca ai nuovi occidentali di sfangarla.
Il padre verboso e molesto degli Sdraiati – romanzo che uscì dieci anni fa tondi tondi – riesce a sciogliere la sua ansia solo nelle ultime pagine, quando il figlio lo supera e lo lascia indietro, come è sempre accaduto e come sempre accadrà in virtù delle leggi biologiche e cronologiche. (È soprattutto un libro sui padri, Gli sdraiati, certo non “contro i figli”, chi lo ha letto lo sa). Nella sua meravigliosa Vince chi molla, canzone terapeutica sugli attacchi di panico – paura di non farcela, di morire, di non respirare – Niccolò Fabi include, tra le zavorre di cui liberarsi, l’ansia dei genitori: per guarire, per respirare, per sentirsi liberi, “lascio andare mio padre, mia madre e le loro paure”.
Non è dunque il nostro rimprovero, piuttosto è la nostra paura quella che devono fronteggiare i nostri figli. Sintesi un poco alla buona che psicanalisti e terapeuti mi perdoneranno, e che consegno ai lettori così come mi è venuta. E che mi serve per proporre ai frequentatori di questa newsletter, soprattutto i tanti più giovani di me, una specie di patto: liberiamo il campo dal rimprovero reciproco, produce un tono noioso e maledettamente prevedibile. Parliamo piuttosto, oltre che delle tante cose belle che alleggeriscono il cammino, delle tante cose che ci fanno paura, ci disorientano, ci spaventano. Essere spaventati è più sorprendente – e a volte più divertente – che essere incazzati: non sarebbe così fiorente, altrimenti, il cinema horror.
*****
La faccenda dei palloni aerostatici forse cinesi mi fa sentire la mancanza della mia ventennale Satira preventiva sull’Espresso – alla quale ho rinunciato motu proprio. Il titolo faceva il verso alla “guerra preventiva” di George Bush, dopo l’11 settembre, contro i paesi ritenuti terroristi. La scrittura satirica è faticosa – c’è un “ritmo interno” da tenere ed è un attimo perderlo – ma per affrontare certi argomenti è impossibile trovare di meglio. Su quella storia c’è stata una de-escalation mediatica (e politica) semplicemente strepitosa. Prima erano possibili Ufo (minaccia aliena); poi possibili spioni informatici del governo cinese (minaccia comunista); poi palloni di compagnie private non cinesi (minaccia capitalista); poi palloni destinati agli studi meteo (minaccia della lobby dei meteorologi). La chiusura satirica è servita su un piatto d’argento: forse sono palloni sfuggiti di mano ai bambini (minaccia della lobby dei Luna Park). L’ultima notizia “vera”, comunque, sarebbe che alcuni dei palloni abbattuti costavano dodici euro e incenerirli tramite top-gun è costato centinaia di migliaia di euro per ciascun pallone. Se non è satira questa…
*****
E adesso spazio alle lettere sul lavoro, quello ben fatto, quello mal fatto e quello normale. Le ho selezionate tra le tante e ho creduto giusto scegliere le più critiche, le più spinose: in sostanza quelle dei più giovani. Ringrazio cumulativamente i tanti boomer che hanno caldamente condiviso le mie parole, mi avete fatto venire voglia di fondare un Dopolavoro Tino Faussone e costruire gru e tagliare legna, da vecchi, tutti assieme.
Quanto alle lettere che seguono, se la sintesi che ne ho fatto è imperfetta (ho dovuto tagliare moltissimo) se ne accorgeranno solo gli autori, a cui ho chiesto permesso. Conto sulla loro benevolenza. Erano tutte lettere firmate, mi è sembrato sufficiente il nome proprio, quello che conta è il racconto, il pezzo di vita, l’umore, l’ansia e – soprattutto – la condivisione dell’ansia.
FILIPPO, 25 ANNI
“Ho 25 anni e sono quasi ingegnere informatico. Inizierò a lavorare, e non vedo l’ora, tra meno di sei mesi. Probabilmente sarà un buon lavoro, rispetto a quello di tanti miei coetanei, sia per stipendio che per condizioni lavorative. Sono uno di quelli a cui il lavoro dà soddisfazione, uno che si fissa sulle cose e non le molla più finché non sono fatte e rifinite come si deve. Sarebbe facile per me fare la vita di Tino Faussone, amare la gru montata a regola d’arte, gioire e soffrire con gli alti e bassi del lavoro, vivere proiettato nel futuro. Caro Serra, io non lo farò”.
“Mi guardo indietro, alle generazioni prima della mia, e vedo schiere di teste canute chine sul lavoro di un tempo, e frustrate perché il lavoro di un tempo non funziona più nel mondo di oggi. Vedo persone che inseguendo il sogno del lavoro perfetto (e del denaro) non hanno vissuto. Vedo mio nonno, che dentro un’officina ha visto crescere i suoi figli di sfuggita e con gli occhiali scuri della stanchezza. Ora basta, mi dico. Il Po in secca è stato forse il punto di svolta per me: forse sto guardando la fine del mondo, e dovrei pensare a lavorare sodo? Lo stesso lavoro che ha dato ricchezza all’Italia, il lavoro che mi ha dato una sanità pubblica e un’istruzione solida ed economica, cresceva sulle fondamenta di sabbia di un modello di sviluppo perverso e traditore (il “progresso scorsoio”, lo chiamerebbe Zanzotto). Ho iniziato a studiare meno, a uscire più spesso con gli amici e con la mia ragazza, ho abbandonato il progetto di un dottorato di ricerca. Io voglio lavorare per essere qualcos’altro che non sia il mio lavoro, perché il tempo mi scivola via incurante dei progetti, della produttività, del conto in banca. Sarei felice di una vita tranquilla, vissuta tra gli affetti e senza troppi scossoni. Sono stato finora abbastanza fortunato da poterla immaginare”.
CATERINA, 31 ANNI
“Ho 31 anni, sono in maternità e adesso che sta per finire mi rendo conto che non ho più voglia di riprendere a lavorare. Il mio meraviglioso bambino c’entra solo in parte. Ho sofferto per mesi l’alienazione di una neo mamma chiusa in casa sola con il bambino, mentre là fuori il papà e le amiche (e i nonni, gli zii, i vicini) affrontano sfide, escono in pausa pranzo, vedono persone. Tutto ciò mi manca, ma non a sufficienza per tornare al lavoro. Ho un buon lavoro, di quelli per cui c’è letteralmente la fila fuori. Ho un tempo indeterminato, un salario decente, alle 17:30 e in agosto si stacca, ma per davvero. Il mio capo non fa commenti sessisti, le mie colleghe non mi sparlano alle spalle. Un piccolo mondo felice. In cui non voglio comunque tornare”.
“Forse per me lavorare non è più un bisogno identitario. Se non avessimo bisogno di un secondo stipendio e se generazioni di femministe non avessero instillato in me il terrore del dipendere da un uomo, sinceramente penso che mollerei o chiederei un part time… Sono arrabbiata perché devo passare 8 ore su 24 a fare qualcosa in cui non credo, e per farlo non vedrò i primi passi di mio figlio. Sono arrabbiata perché il mio lavoro è inutile, eppure mi ci devo impegnare come se ne andasse della vita di una nazione. Lo so, sono fortunata ad averli, un lavoro e un figlio. Mi lamento di annoiarmi, sono degna di un titolo di giornale allarmista sulla mia generazione di sfaticati. Ma se prima si denunciava il lavoro ripetitivo e logorante fisicamente, vorrei fare notare che il mio è un lavoro ripetitivo e logorante, ma mentalmente”.
“Ho lavorato in un cantiere navale. Ho passato settimane a levigare le chiglie delle barche. Era brutto, ma si metteva la musica e si sceglieva un posto vicino a un amico con cui chiacchierare. Poi, dopo settimane a grattare, si passava la vernice, poi c’era il giorno in cui la barca tornava in acqua. Un giorno fatto di cavi e gru gigantesche. Barche che volavano per aria e poi in acqua. Nel mio lavoro di adesso gratto, tanto e in silenzio perché non devo perdere la concentrazione, ma non vedo le barche volare. Ho lavorato anche in cucina. Ho passato ore a tagliare il prezzemolo, ore sopportate con musica e chiacchiere. Certe sere erano pesanti, ma poi si beveva qualcosa insieme e si andava a casa a dormire. E si dormiva sempre benissimo, come dopo aver camminato in montagna. Chiudo questa mia infinita riflessione constatando che fare la mamma è il mio modo di lasciare il segno, la salvezza lavorativa è un lusso che non tutti possono permettersi in termine di scelte di vita. Mancano circa 40 anni alla pensione. La ringrazio per l’opportunità di questa riflessione, vale una seduta dall’analista”.
LUCA, 33 ANNI
“Io appartengo alla generazione dei cosiddetti millennial, sono nato nel 1990, un late millennial, e sono quindi in quel periodo della vita in cui, nelle categorie da noi ereditate dalle generazioni precedenti, ci si aspetta che una certa transizione nel mondo del lavoro sia, se non consolidata, quantomeno iniziata. Laureato in giurisprudenza, specializzato in proprietà intellettuale ho praticato la Professione Forense come praticante, portando parallelamente avanti una carriera da musicista. Dopo la distruzione del mercato culturale da parte della pandemia non sono sicuro che di tale carriera qualcosa rimanga. La descrizione di un percorso del genere, ho notato, genera reazioni molto differenti a seconda dell’età delle persone a cui viene descritto. Tendenzialmente, più ci si avvicina al 1900 più diventa difficile non vedere questa fluidità come una specie di “fallimento”. Al contrario, più ci si avvicina alla data contemporanea, più un percorso del genere viene normalizzato. Le generazioni successive alla mia (le cosiddette Z e X per non procedere nelle ulteriori, in parte misteriose categorizzazioni) si prendono gioco tanto dei cosiddetti boomer quanto di noi millennial, e a questi ultimi imputano un pessimismo ed un’ansia nei confronti della vita lavorativa che dal loro punto di vista risulta buffo e un poco patetico. Ho l’impressione che abbiano ragione, noi millennial abbiamo rappresentato forse un ponte tra due mondi molto distanti tra loro, tanto nel lato pratico quanto nella sensibilità. Questo ci ha portati a dover soddisfare gli irraggiungibili standard lavorativi delle generazioni precedenti all’interno di un mercato del lavoro che non lo permetteva, ingenerando un sentimento di precarietà esistenziale. Credo che, chi volesse, avrebbe grandi benefici nell’identificarsi con una professione che ama. Ma oggi tale possibilità si assottiglia grandemente. Concludo, da amaro e cinico millennial, dicendo che non condivido la sua sensazione di progresso da queste dinamiche, credo che una simile analisi assomigli a un processo di “addobbamento della propria cella” derivante solo dalla consapevolezza che da essa non si uscirà”.
TOMASO, PAPA’ DI LUCA
“Ho letto il suo articolo sul Post e ho letto la mail che le ha scritto mio figlio Luca. È nato un dibattito in famiglia. Da boomer (sono nato nel 1961) colgo molto bene il senso della “percezione soggettiva del lavoro” che cambia sostanzialmente tra noi boomer e le generazioni successive. Ma credo ci sia un momento ben preciso in cui il lavoro, e quindi la sua percezione, sono cambiati: l’ultimo decennio del secolo scorso. La generazione dei millennial. Il mondo di mezzo dei millennial è esattamente coincidente (temporalmente) con i due grandi cambiamenti epocali degli ultimi 70 anni: la nascita di internet e l’inizio della globalizzazione (conseguenza della caduta del Muro). Da allora tutto è cambiato con una velocità tale da non consentire il consolidamento di categorie lavorative (e sociali) che, appena nate, nel giro di pochi anni sono state rapidamente superate da qualcosa di più nuovo e comunque diverso. L’ecletticità può essere una virtù, se è per scelta o per inclinazione personale. Se diventa un obbligo per rispondere ai rapidissimi cambiamenti della società e del mercato del lavoro, allora l’ecletticità diventa eclettismo (valore spregiativo, tendenza a combinare in modo disorganico elementi eterogenei) e il lavoro non sarà salvazione ma dannazione”.
CAMILLA, MILLENNIAL
“Ho letto con gusto la sua newsletter e l’ho commentata con il mio papà, docente universitario che ama pensare con le mani. Mio padre, anch’egli boomer, era esaltato dal suo articolo: perché l’articolo parla (anche) di lui e perché chi ha la fortuna di nobilitarsi attraverso un lavoro intellettuale (come lei, come mio padre) ha una visione del lavoro che definirei romantica, aperta, un po’ illusa e
illusoria. Io il lavoro intellettuale provo a farlo, ma è molto (più?) difficile,
in primis perché regolamentato male, malissimo”.
“Senza tirare fuori i soliti temi noti – il jobs act, le partite iva che non lo sono, gli
stipendi ridicoli, le tutele, i sindacati scomparsi – le dico una cosa da millennial: lavorare è da boomer, è vero, e da boomer è identificarsi con quello che si fa. Cresciuti con il mantra “it’s not who I am underneath, but what I do that defines me” (Batman: non è ciò che sono nel profondo, è quello che faccio a definirmi) e con l’idea distorta del “se studi quello che ti piace riuscirai in quello che fai e sarai felice”, ci siamo poi scontrati con un mondo molto più duro di così. Alla lunga a nessuno frega molto di quello che fai e anche il lavoro migliore stanca e annoia; e soprattutto non tutto quello che ci piace ci darà anche uno stipendio soddisfacente. Fine dell’illusione. Insomma, che questo “quiet quitting” (silente abbandono) non sia in verità una mobilitazione silenziosa di chi si è rotto di lavorare per arricchire gli altri senza ricevere nulla in cambio? Più che aspirazione alla trascendenza, mi pare che sia una questione di disillusione: il lavoro non ci renderà felici e la vita è ora, il covid ce lo ha insegnato. Lavorare serve a sostentarsi, nulla di più. Bisogna farlo, sì, ma col giusto distacco”.
OLIVIA, GIOVANE
“«Io non posso perdere tempo dietro i tuoi pezzi. Lo pubblico, ma è l’ultimo». Una giornalista di vecchia generazione caccia una giornalista di nuova generazione con questa frase per email, senza neanche conoscerla. A nulla è servito spiegarle che l’unica cosa che desidera è imparare questo mestiere (anche da lei, appena arrivata a coordinare cultura e attualità), a nulla servono più di 200 articoli scritti in due anni senza ricevere alcun compenso, a nulla più serve ‘fare bene le cose’. Quella giornalista giovane non desiderava altro che qualcuno le insegnasse il saper scrivere bene. Non è accaduto, ogni promessa è stata infranta e ora fatica a trovare le forze per la sua salvazione. Basterebbe così poco. Basterebbe solo costruire ponti tra i giovani giornalisti di ieri e i giovani giornalisti di oggi. È ancora possibile in questa scellerata epoca o è sciocco anche solo pensarlo?”.
MARTA, 24 ANNI
“Sono una semplice 24enne bergamasca che negli ultimi quattro anni ha avuto l’occasione, ma anche la voglia e l’impegno, di fare la giornalista. Per come sono fatta prendo il mio lavoro molto sul serio e così la mia carriera personale. Lego a quello gran parte della mia realizzazione presente e futura. Scrivo per un giornale di provincia, un settimanale, da poco sto anche in redazione curando l’online. Imparo tanto. Me lo sento addosso questo lavoro, mi piace, mi diverto pure con il furetto Vasco che è stato rubato e solo settimane dopo ritrovato nell’immensa gioia di mezza provincia. Penso che dovrei fare il salto, iniziare a scrivere di argomenti seri, sbilanciarmi e dire la mia. Sono stata fortunata? Sì. Sono stata brava? Anche. Posso andare avanti? Non credo”.
“Fra poco finirò l’università, per ora è sempre stata la scusa giusta per dire che, dopotutto, quei pochi soldi che portavo a casa erano già abbastanza. Ma il vero problema non sono i soldi, non è la passione, non è la difficoltà a fare il passo in più di qualità, non è il tempo. È il lavoro del giornalista. Per quanto ancora esisterà? Quanti giovani come me guardano al mondo del lavoro e vedono professioni che magari piacerebbe loro fare, o alle quali ormai sono chiamati dopo un percorso di studi, ma si chiedono: esisteranno fra 10, 15, 20 anni? Servirà ancora qualcuno che stia alla cassa, qualcuno che ti organizzi i viaggi, qualcuno che ti operi? Servirò ancora? Esisterà il mio lavoro? Concedeteci che, se non mettiamo il cento per cento in una professione, se abbiamo paura a crederci fino in fondo, se siamo titubanti nell’investire sacrifici ed energie in un percorso che sappiamo destinato a finire, abbiamo i nostri buoni motivi. Il futuro è fumoso, la crisi è ovunque e l’avanzamento tecnologico corre più veloce della nostra capacità di vedere, e vederci dentro”.