Non aver paura
«La grande fortuna del complottismo, dunque, dipende dalla creazione di forme di paura fai-da-te che ci sentiamo in grado di maneggiare, con le quali entriamo in confidenza»
«È molto semplice: martedì sapremo se l’America diventa un paese comunista o rimane un paese capitalista». È il post, testuale, di un ex compagno di scuola di mia moglie – hanno fatto insieme un anno di liceo in Inghilterra. Una persona di istruzione medioalta, laureato, famiglia di lontane origini giamaicane, posizione sociale tutt’altro che disagiata, vive in America e andrà a votare Trump perché se no arrivano i comunisti.
Non parto da questo post (più “buffo” che grave, al vaglio della razionale concezione del mondo della quale cerco di disporre) per confutare l’uso paranoico del termine “comunista” a proposito di Kamala Harris e dei dem americani di ogni epoca. Non ce n’è alcun bisogno, ça va sans dire, si dice bene in francese. (Anche se, volendo, è breve e utile, su Doppiozero del 2021, leggere Luigi Zoja a proposito del celebre saggio di Richard Hofstadter Lo stile paranoide nella politica americana: sul maccartismo e dintorni, ovvero il trionfo del metodo complottista ben prima dei social).
Torniamo al nostro amico. Quello che mi colpisce, in questo come in infiniti altri casi, è la naturalezza assoluta, direi la serenità con la quale la semplificazione più grossolana e insostenibile trionfa, sbaragliando il campo da ogni altro metodo di generazione del pensiero. Come se non esistessero freni inibitori – di qualunque tipo: dal banale timore di fare brutta figura alla coscienza che ci sono, per ogni affermazione, possibili controindicazioni – che aiutino a esitare, o a esprimere un concetto in forma un poco meno assertiva. Se non per convinzione, o per cultura, almeno per convenienza, per prudenza, perfino per affabilità: la stessa affabilità per la quale, in genere, sulla propria pagina social campeggia una fotografia sorridente, socievole, e assai raramente una faccia truce o stravolta dall’ira. Perché dunque sotto il più amabile dei sorrisi spesso si postano frasi di spropositata aggressività, o di avvilente fanatismo? Perché il “rumore” delle parole è così stonato, rispetto al sorriso rassicurante di chi le pronuncia? Perché insomma, per dirla facile facile (alla maniera dell’ex compagno di liceo di mia moglie) si sparano le più colpevoli cazzate con il sorriso più innocente sulle labbra?
Proprio mentre rimugino su questa auto-indulgenza dilagante leggo sul Fatto Quotidiano una lunga intervista di Francesca Fulghesu alla docente di Filosofia teoretica Anna Ichino, a proposito del complottismo. E tra le tante affermazioni interessanti di Ichino mi colpisce soprattutto questa: il complottismo è rassicurante perché “pensarsi vittime di un nemico che trama contro di noi è comunque meglio che sentirsi in balia del cieco caso”.
Non ci avevo pensato, non così lucidamente, comunque. Se l’amico americano ha paura del “comunismo”, ovvero di un nemico immaginario, è perché c’è qualcosa che gli fa ancora più paura: sentirsi “in balia del cieco caso”. Indirizzare la propria paura, darle un nome e una fisionomia, qualunque sia lo spauracchio prescelto, vuol dire sentirsi in arcione, in pieno controllo. Autori del proprio copione. “Io lo so chi sono i miei nemici, chi trama contro di me”. Ammettere che si è invece, se non in balia, perlomeno molto condizionati dal corso degli eventi e della loro complicata trama, non del tutto protagonisti del nostro destino, comunque soggetti a fattori che non dipendono, se non in piccola parte, dalla nostra volontà (il primo dei quali, lo sappiamo bene, è la morte) è uno stato mentale molto difficile da sopportare. Il capro espiatorio (gli ebrei, i comunisti, i misteriosi “poteri forti”, gli stranieri, la lista è lunga e incompleta) serve a catalizzare una paura che altrimenti rimarrebbe inespressa, sconosciuta e dunque peggiore. Una paura più paurosa.
La grande fortuna del complottismo, dunque, dipende dalla creazione di forme di paura fai-da-te che ci sentiamo in grado di maneggiare, con le quali entriamo in confidenza. Non bastano le condizioni sociali disagiate, il basso livello di istruzione, insomma il sentirsi socialmente “sotto”, a spiegare la pervasività del pensiero paranoico che attribuisce a qualcuno o qualcosa la “colpa” di tutto. Non è solamente un malessere “politico”, come (almeno io) siamo abituati a pensare. È anche una profonda debolezza psicologica, una impreparazione esistenziale, quella che spinge milioni di persone a costruirsi un nemico nominabile, piuttosto che arrendersi all’innominabile “cieco caso”, e amare la vita, accettarla, nonostante sia un cammino difficile e fragile.
Non avere paura sarebbe, dunque, la prima e la fondamentale di tutte le rivoluzioni, perché la prima e fondamentale delle liberazioni. La prima cosa da insegnare ai bambini, anche se noi grandi non sappiamo nemmeno da che parte cominciare. Rileggere Seneca, mi viene da dire, ma è un pensierino (il mio, non quello di Seneca) così piccolo, rispetto al tema in questione, che mi spaventa averlo sollevato. E per superare la paura di non essere all’altezza dell’argomento, adesso me ne vado a fare un giro all’aperto, in mezzo ai chiaroscuri di un bel pomeriggio autunnale. Di comunisti, e di altre forme minacciose, nemmeno l’ombra. Chissà dove si nascondono.
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Lo scorso Ok boomer, sul tema “guerra, pace e Giuliano Ferrara”, ha lasciato una discreta scia di mail. Devo dire: pacifiche nei toni anche quando non scritte da pacifisti, ed è già una soddisfazione. Spero di avere scelto le più significative.
“Caro Serra, mi ricollego alla sua risposta a GF e alla sua anima da crocerossina in caso di evento bellico. Le ricordo che essere crocerossina, di questi tempi e di queste guerre, non è più garanzia di potersi muovere tra morti e feriti per soccorrere. Il numero di volontari morti sul campo mentre soccorrevano è tristemente noto. Si usava dire ‘sarebbe come sparare sulla crocerossa’, ecco, non si può più dire perché addosso ci sparano proprio”.
MG, sua lettrice e soccorritrice CRI
“Nel difficile, forse davvero impossibile, confronto tra pacifisti e bellicisti, mi piace pensare che potrebbe aprire uno spiraglio la lettura di Un terribile amore per la guerra di James Hillman. A partire dalle sconvolgenti parole dell’incipit di questo saggio, ognuno di noi è chiamato a riflettere e interrogarsi da una prospettiva diversa e per nulla scontata: di fronte alla devastazione del campo di battaglia al termine delle ostilità, in mezzo a cadaveri e carri armati distrutti, il generale Patton solleva tra le braccia un ufficiale morente e afferma: ‘Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo di più della mia vita’. Subito dopo il grande psicoanalista afferma: ‘Se non entriamo dentro questo amore per la guerra, non riusciremo mai a prevenirla né a parlare in modo sensato di pace e disarmo’. Un male antico ristagna nel profondo del nostro animo, disconoscerlo oppure accettare passivamente il suo inevitabile destino, sono due manifestazioni opposte generate dalla medesima inconsapevolezza”.
Massimo
“Quasi quarant’anni fa il mio dirimpettaio, un ragazzo poco più giovane di me, tossicodipendente, un giorno pensò, in compagnia di un paio di suoi sodali, di fare visita al mio appartamento. Mi rubarono l’impianto stereo, tutta l’attrezzatura fotografica, un orologio, denaro. Il giorno dopo mi trovai di fronte il ragazzo, con un occhio pesto, accompagnato da una donna che si prendeva cura di lui. La donna mi disse che il ragazzo era l’autore del furto e che l’occhio pesto era il benservito dato dai suoi complici. Era preoccupata per l’occhio, voleva portarlo al pronto soccorso ma non aveva l’auto. Allora li portai io con la mia auto, rimasi in attesa tutto il pomeriggio, telefonai al lavoro per comunicare che sarei rientrato il giorno dopo, e, dopo le visite del caso, li riportai a casa”.
“Ripensandoci mi rendo conto che mi ero trovato fisicamente di fronte a un bivio: da una parte il legittimo diritto all’autodifesa, dall’altra la scelta pacifica di tendere una mano e metterci una pietra sopra. Scelsi la seconda strada. Perché lo feci? Non lo so, non mi interessa neppure saperlo. Quello che conta è che compresi un altro pezzo di me, di come sono fatto. Da allora mi hanno sempre infastidito le prese di posizione radicali, le parole violente, quella cacofonia con cui le opposte fazioni hanno sempre promosso da un lato il legittimo diritto all’autodifesa, dall’altro l’azione pacifica. Credo che il pacifista, oggi, debba comprendere che molte persone ritengono la guerra un’opzione praticabile per risolvere certe questioni, e per questo chiedono un esercito bene armato e preparato e una industria delle armi all’altezza. Quindi il pacifista deve, in modo pragmatico, governare le questioni legate agli eserciti e all’industria delle armi. Ovviamente da un punto di vista pacifico. Gli esperti ci spiegano che se l’Europa si dotasse di un esercito europeo, transnazionale, si spenderebbero molti meno soldi rispetto alla somma di quelli che ogni singolo Stato spende per la propria difesa. Questi soldi potrebbero così essere spesi con l’obiettivo di una maggiore inclusività sociale, che vuol dire più risorse alle scuole, ai servizi sociali di prossimità, alla sanità, al lavoro. Questo sarebbe, per me, un modo per declinare pragmaticamente il sostantivo pacifismo. E lo si può ottenere a patto che le persone capiscano che non è importante ciò che si pensa. Quello che conta è capire ciò che si è. Altrimenti continueremo a trastullarci con le utopie”.
Mario
“Da sempre ho l’impressione che GF sia infastidito dalla ridondanza morale che in una società permeata da (genuini?) istinti animali è artificio necessario per sorreggere i valori di giustizia e democrazia. Per reazione, con gusto provocatorio, si diverte a portarla in evidenza catalogandola come ipocrita, dimenticando colpevolmente il ruolo primario che essa ha avuto nel progresso civile”.
Michele Paoli
Solo due mie righe finali per dire che l’analisi di Michele Paoli mi convince molto. L’ipocrisia, in molte occasioni, non è un vizio. È una virtù.
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Tocca alle Zanzare. Fulvio segnala un titolo della Stampa che conferma quanto sia insidiosa, nei titoli, la consecutio degli eventi. La confusione è sempre in agguato.
TENTA DI RAPIRE UN BIMBO DI DUE ANNI, IL PADRE LO BLOCCA E VIENE ARRESTATO
Dal Gazzettino Pierlucio segnala un classico caso di refuso esilarante, prodotto dalla banale caduta di una “o”.
INCULATI 436 COVID E 733 SIERI ANTINFLUENZALI
Mi vergogno della citazione, ma questo refuso mi fa tornare in mente la litania goliardica “San Cirillo che col cazzo fatto a spillo inculava i microbi”. Chiedo scusa al direttore e ai lettori, non ho potuto resistere.
Effetto splatter notevolissimo in questo titolo del Fatto Quotidiano, inviato da Sandra:
LA SCUOLA FANTASMA DI VIA MASSAUA:
BAMBINI SMEMBRATI DA ANNI, ORA VOGLIAMO CHIAREZZA
Si tratta, sperabilmente, dello smembramento delle classi in una scuola elementare. Se abitate dalle parti di via Massaua, state comunque all’erta. Infine, grazie ad Andrea che manda la locandina originale del Tirreno “Espulso imam, la moglie è pisana”. Ci sono le prove, dunque: non era il Vernacoliere.
Per questa settimana è tutto, un pensiero obbligato e fraterno va a quelli di Valencia e ai volontari (circola un video potente, emozionante dei volontari in coda sotto le strutture smaglianti di Calatrava alla Ciutat de les Arts). Tra non molto sapremo l’esito delle elezioni americane e mai come stavolta, comunque vada a finire, vale la tradizionale esortazione con la quale concludo questa newsletter. Per l’occasione peggiore mi è di supporto, un supporto molto prestigioso, José Saramago (grazie a Samuele che mi ha mandato la citazione, tratta dal Saggio sulla lucidità, bel titolo): “Oggi, signore e signori, è un giorno triste per le persone per bene, ma le nostre responsabilità esigono che esclamiamo sursum corda, cioè in alto i cuori”.