Tante maschere e pochi volti
Questa volta devo dirvi una cosa proprio “da vecchio”. Nel senso che mi tocca esprimere una invincibile estraneità – forse ostilità – a un aspetto della vita contemporanea che non capisco e che mi irrita (fifty/fifty). Conto, come sempre, su di voi per aiutarmi a definire meglio la questione, e quando dico “voi” dico soprattutto i lettori più giovani, che già in precedenti occasioni mi hanno fornito qualche buon attrezzo per aggiustare il mio punto di vista rispetto ai “tempi nuovi”.
La cosa è questa. Le fotografie di volti che accompagnano tutti o quasi i fatti di cronaca, nera o rosa, sempre più spesso mi sembrano immagini di maschere. Le femmine (dai quindici ai cinquanta) quasi ceramizzate dal trucco, dalla rifilatura accuratissima di ciglia e sopracciglia, dai colori decisi che il rimmel e i fondotinta sovrappongono alle sfumature e ai chiaroscuri della pelle – e della vita, mi viene da dire. I maschi (dai quindici ai cinquanta) pettinati con l’inverosimile cura delle fotografie da parrucchiere degli anni Sessanta, prima che le varie scapigliature mettessero in fuga la brillantina e i pettini; e rasature lucide come cromature (così che anche la calvizie appaia come una acconciatura), e basette aguzze, pizzi disegnati, oppure barbe così finto-patriarcali che paiono appena montate in sala trucco. Ovviamente: non tutte e non tutti. Però moltissimi, così tanti da far pensare che l’umanità assomigli a un solo sterminato book fotografico da consegnare a un solo sterminato casting.
Va detto che quasi tutte queste immagini di volti, che sono un’evoluzione molto sofisticata delle fotine da macchinetta che si fanno per la patente e il passaporto, sono tratte dai profili social; e dunque la “messa in posa” è molto studiata, la scelta è tra mille, il photoshop calcolatissimo. Rimane il fatto (qui torno al mio punto di vista, molto soggettivo, lo so) che la realtà dei volti, oserei dire la loro “vera identità”, sembra scomparire. È travestita, mascherata, cancellata da un trucco da teatro.
È di lunga data, e perfino consumato, il dibattito sulla cancellazione dei volti dei “vecchi” indotta dal lifting. Tullio Pericoli, che è sicuramente uno dei grandi ritrattisti italiani, ha sempre detto di non essere capace di disegnare i volti frutto della chirurgia estetica, perché “sono come storie diventate illeggibili”. La buttammo anche in burla, ai tempi di Cuore, ai danni di un famoso stilista scomparso, il cui nome taccio per rispetto postumo: era un esempio di lifting “estremo”, ogni fotografia, in situazioni e luoghi diversi, lo mostrava identico, così identico che la sua faccia – sempre la stessa – pareva un fotomontaggio successivo allo scatto. Era come imbalsamato da vivo, con i lineamenti bloccati dal bisturi per l’eternità. Pubblicammo una doppia pagina con una trentina di quelle fotografie, l’effetto era esilarante e al tempo stesso raggelante. Erano gli anni Novanta – parecchio tempo è passato.
Ma qui, invece, non si tratta più di vecchi che cercano di cancellare le tracce del tempo. Si tratta di giovani, anche giovanissimi, che cercano di cancellare l’adesso, il tempo stesso del loro diventare una persona, nel tentativo di darsi una fisionomia che a me sembra spietatamente sovrapposta alla loro (una maschera, appunto). Immagino che sia una fisionomia, nelle loro intenzioni, “migliore”, o più banalmente simile a canoni estetici “di successo”, attrici e attori da imitare, mode da seguire. Immagino anche che questa fisionomia, per quanto artificiale, a loro sembri del tutto naturale, nel senso che in quella fatta si sentono “più loro” di quanto si sentirebbero senza tutto il lavoro di sistemazione e trucco. Immagino, infine, che la parola “maschera”, che utilizzo volutamente, possa suonare del tutto estranea, e forse anche offensiva, a quelle giovani persone in posa.
Il tema della maschera è praticamente infinito – nonché antichissimo. Esiste una vasta letteratura storica, antropologica, psicoanalitica e ovviamente teatrale: le prime maschere delle quali si ha traccia risalgono a novemila anni fa. Secondo Treccani “l’atto di portare una maschera implica normalmente il desiderio di cancellare o nascondere temporaneamente l’individualità umana del soggetto, sostituendole un personaggio diverso”. Importante l’avverbio “temporaneamente”: si parla dell’uso tradizionale della maschera, quello teatrale o quello dei Carnevali e dei tanti rituali in maschera, nei quali si assumono sembianze non proprie solo per lo stretto tempo necessario alla rappresentazione. Poi si ritorna se stessi. È un “salto” al di fuori del sé, la maschera, e questo salto ha qualcosa di audace e anche di tenebroso: ogni bambino ricorda, per Carnevale, l’emozione e anche lo straniamento di mascherarsi. La parola, del resto, ha un’etimologia abbastanza misteriosa, pare derivi dall’occitano “masca”, quasi sicuramente derivante a sua volta da un termine preromano e forse addirittura preindoeuropeo, “una radice (sempre la Treccani) che ci parla di nero, di scuro, di fuliggine, di nuvole temporalesche, di spettri, di streghe”. Probabile che le prime maschere, nelle loro molto arcaiche origini, servissero per spaventare il nemico. Si mettevano in guerra e si levavano in tempo di pace. La maschera è sempre stata l’eccezione. Il volto, la regola.
Esistono poi anche “maschere” più o meno definitive, le maschere sociali o psicologiche che tutti noi portiamo in società. “Nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”, dice una frase erroneamente attribuita a Luigi Pirandello. Ma l’idea che non sia il “carattere” delle persone, sia infine il loro volto a sottoporsi a una specie di mascheratura permanente, e che lo faccia per la necessità di conformarsi allo sguardo degli altri, un poco mi atterrisce. E sicuramente mi disorienta. Come Tullio Pericoli, anche se non disegno ma guardo, faccio parecchia fatica a “leggere”, dentro i volti, le persone.
L’argomento è sterminato – esistono anche una ricca cinematografia e letteratura sull’attitudine, crescente, alla trasformazione del corpo come pratica diffusa. Mi limito dunque a una sola domanda, sicuramente tendenziosa, però molto sentita. Si era detto che siamo nell’evo di Narciso: ma Narciso, per definizione, è colui che si piace. Si piace e si ama fino a morirne. Che Narcisi sarebbero, dunque, questi milioni di giovani persone che evidentemente NON si piacciono, e non si piacciono al punto di volersi mascherare vita natural durante? È come se nessuno fosse in grado di amarsi, e financo di sopportarsi, così com’è. Dunque il contrario di Narciso.
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Avevo scritto, la settimana scorsa, che sui migranti non so più che cosa scrivere, tanto mi sembrano consumate le parole. (Scrivere che non so più cosa scrivere è una delle libertà che devo alla mia età, e ai tanti anni di lavoro. Da giovane non lo avrei mai detto, ero troppo condizionato dall’ansia da prestazione…). Ricevo, tra le tante, questa lettera.
“Sono senz’ombra di dubbio un elettore di destra. Forse. Perché spesso non mi riconosco nella descrizione che danno di me ‘gli altri’. Mai uno smataflone a un comunista, mai un saluto romano a petto in fuori, mai un’azione ‘violenta’ ancorché metaforica. Leggo molto ma vorrei leggere di più, anche scrittori che nella mia generazione boomer erano di sinistra. Ho alcuni amici saldamente di sinistra (anche se li vedo vacillare, poveracci). Spesso mi piacevano ragazze ‘di sinistra’, ma si sa, di fronte a quello, le differenze scemano. Sono talmente di destra che spesso non ho votato (annullando il voto, però…). Per molti anni non ho capito perché mentre a me i sinistri generassero molta curiosità (non solo le femmine) io a loro stessi proprio sulle palle. Ma sono sopravvissuto… ci si abitua a tutto”
“E ora, finalmente, trovo qualcosa in comune con ‘loro’. Anche io non so cosa scrivere… Perché ho votato la Meloni, sapendo che avrebbe potuto cambiare pochissimo le cose, a sessant’anni ho capito che noi, noi Italia, non contiamo nulla, nemmeno all’interno dei nostri confini. E perché continuo a sentire, per il problema immigrazione, le stesse soluzioni e non soluzioni di trent’anni fa. E le stesse considerazioni di trent’anni fa. Da un lato i migranti africani descritti come giovani San Francesco in fuga da tutte le guerre, anche quelle che si svolgono in Papuasia. Dall’altro come serial killers in cerca di sangue umano. È chiaro che se l’Italia mettesse la Marina al largo della Tunisia, con l’ordine di affondare qualsiasi cosa galleggi, nessuno partirebbe più (in fondo, non fecero così i democratici USA con i balseros quando Castro aprì le galere di Cuba? la prima barca passò…. la seconda…pluf!). È altrettanto chiaro che dovremmo sparare su donne e bambini: siamo sicuri di volerlo fare? La Meloni, non so se mi fa più tenerezza o rabbia. Lo sanno tutti che l’unico modo è prendere il controllo delle coste africane. In modo democratico, liberale, equo e solidale, green e financo antifascista. Ma senza quello, continuerà così e non sapremo più cosa scrivere e dirci per i prossimi lustri. Però, dai, un risultato c’è. Potremo sempre confrontarci con i ‘sinistri’ (i comunisti erano un’altra cosa) su quello che non sappiamo più scrivere”.
Giordano
Giordano, i lettori di destra, per uno come me, sono una medaglia. Lei non è il solo: un piccolo manipolo (piccolo ma molto attivo) mi scrive alla posta del Venerdì di Repubblica, negli anni qualcuno è diventato un vero e proprio “amico di penna”, e dire che quasi sempre è cominciata malissimo (“Serra, sei il tipico fesso comunista”. “Signore, lei può fare di meglio: provi a riscrivermi, e sia più esigente con se stesso”). Ha funzionato, mi hanno riscritto, ci parliamo e litighiamo ormai da molto tempo. In questo caso è bello incontrarsi sul dubbio, sul non sapere che pesci pigliare. Qui di seguito, per contrappasso, tre lettere che qualche pesce, così a occhio, cercano di pigliarlo.
“Caro Michele,
sull’argomento migranti ho una visione tutto sommato ‘dall’interno’. Sono presidente della Federazione Esperantista Italiana: si occupa di diffondere e valorizzare quella straordinaria invenzione ottocentesca che si chiama esperanto, e che secondo noi, passato questo tempo pionieristico, avrà un futuro molto luminoso. Quest’anno siamo stati co-organizzatori del Congresso mondiale, che si è svolto a Torino e ha visto la partecipazione di oltre 1300 persone da 70 Paesi diversi”.
“Tra i miei compiti c’è quello di spedire lettere d’invito alle ambasciate italiane, site nei Paesi dove gli esperantisti che vogliono partecipare al Congresso non possono banalmente chiedere un visto, ma hanno bisogno, appunto, di un invito dal Paese ospitante. La mia esperienza in questo campo è sconsolante: le difficoltà che le ambasciate in alcuni Paesi (soprattutto africani e asiatici) pongono nemmeno alla consegna, ma spesso già alla richiesta di visto (impossibilità di prendere appuntamento, ritardi enormi che rendono inutile il visto, richieste di supplementi di documentazione, richieste a me di garanzie che non posso dare), condivise tra l’altro con i responsabili delle associazioni esperantiste degli altri Paesi europei, danno l’idea di un’Europa che formalmente si dichiara aperta e accogliente ma nella realtà pratica è inaccessibile. Kafka ci aveva visto lungo. Qual è la logica? È cronaca recente: Giorgia si scaglia contro l’ ‘immigrazione illegale’ ma non dice nulla, assolutamente nulla, su quella che sarebbe l’ ‘immigrazione legale’, con la quale questi poveracci, che fuggono da tutto quello che sappiamo, potrebbero spendere i loro soldi per un biglietto aereo e approdare in mezzo all’Europa (sì, anche in Lussemburgo – stramaledetto paradiso fiscale Paese fondatore della Comunità: una vera genialata), trattati da signori, invece che sfidare la sorte e la morte e sentirsi peraltro mal tollerati. Da quello che capisco, nessun politico europeo (nemmeno Ursula) prova a sfiorare l’argomento. Ho sentito parlarne, nelle ultime due settimane, soltanto Majorino in un’intervista al TG3 – poi (secondo me) l’hanno riportato sulla retta via. Le ambasciate europee, chiaramente, hanno un ordine coordinato a livello continentale, o perlomeno concertato tra i vari governi, per rendere impraticabile l’immigrazione legale, e permettere quindi ai governi di scagliarsi contro l’immigrazione illegale spacciandola per ‘invasione’”.
Luigi
“È uscito da pochi giorni un libretto Einaudi, scritto da Ferruccio Pastore, direttore del Forum internazionale ed europeo di ricerca sull’immigrazione FIERI – una delle persone più esperte e più capace di spiegare l’immigrazione. Ha sentito la necessità di coniare un neologismo, ‘migramorfosi’, essendo le parole con cui parliamo di immigrazione spesso logore, sovraccariche di significati tendenziosi. Il tentativo è di trovare, usando parole nuove, nuovi sguardi. Lo consiglio proprio. Qui una sua intervista”.
Giulia Henry (ricercatrice Ires – Istituto di Ricerche Economico Sociali del Piemonte)
“Proviamo a fare un’ipotesi. Che mi serve per provare a uscire dall’orrendo loop di un dibattito appiattito sulla contrapposizione fra respingiamoli tutti e accogliamoli tutti (lo so che la destra gaglioffa davvero vorrebbe buttar tutti a mare, mentre praticamente nessuno a sinistra sostiene davvero di accoglierli tutti, i migranti: ma nel discorso mediatico è questa l’idea che passa, ed è per questo che gli imprenditori della paura aumentano i loro consensi). In questi giorni si è molto parlato della lotta agli scafisti come una cosa «anche» di sinistra, richiamata da Starmer, che li ha equiparati a terroristi. Giusto. Ma se, in ipotesi, potessimo semplicemente fare con l’immigrazione illegale la stessa cosa che dovremmo fare con le droghe illegali, ossia legalizzarla, gli scafisti, esattamente come i trafficanti di droga, che fine farebbero?”
“Immaginiamo un mondo in cui vi sia libera circolazione degli uomini così come è libera la circolazione dei capitali. Immaginiamo – per non esagerare con sogni irrealizzabili – che per chiunque da qualunque paese sia possibile chiedere un visto per recarsi dovunque, e che quel visto possa essere rifiutato solo in pochi casi (condanne penali precedenti o simili). Quali sarebbero gli effetti? Il primo effetto sicuro è che il business dei trafficanti di esseri umani non avrebbe più senso. Ma dubito che il secondo effetto sarebbe che «decine di milioni» di africani o di bengalesi si precipiterebbero in Europa (e, peraltro, non certo nella ben poco attrattiva Italia). Perché, anche potendo, non tutti si muoverebbero, in genere chi si muove ha motivazioni precise e determinazione. E quindi certamente ci sarebbero molti ingressi in Europa, ma se ben gestiti (come grosso modo ha saputo fare la Germania di Merkel) non sarebbe questa tragedia immane, anzi – considerando che abbiamo bisogno di lavoratori e di giovani – sarebbe un vantaggio. Che, tra l’altro, potrebbe anche risolvere, pian piano, gli effetti perniciosi della clandestinità diffusa. Ora, so bene che è un’ipotesi irrealizzabile e che l’idea prevalente in Europa è il rafforzamento delle frontiere esterne – l’Europa fortezza – con, nella migliore delle ipotesi di riforma e apertura, il famoso «superamento” di Dublino. Però se non si riesce a cambiare narrazione, e a convincere che – come è evidente – l’Europa fortezza non funzionerà mai, che ci piaccia o no, continuiamo a dare argomenti agli imprenditori della paura, e sarà solo peggio”.
Corrado Truffi