L’esportazione del nudismo
Alla fine degli anni Settanta, sulla scia della liberazione dei costumi, presso la gioventù occidentale emancipata si diffuse una certa inclinazione al nudismo. Specie in vacanza e specie nelle isole mediterranee, secondo l’immortale canto del poeta (Stefano Benni): “A Filicudi/tutti nudi/a mangiare pesci crudi”.
Capitò non di rado che gli indigeni, di costumi molto più severi, prendessero a bastonate i nudisti, con prognosi non sempre leggere. Se la memoria non mi tradisce, in Italia gli ultimi pestaggi di quel genere, nei primissimi anni Ottanta, accaddero a Sperlonga e sulla spiaggia del Conero (scenari immeritatamente magnifici per quelle misere risse). Ma andò peggio in certe isole mediterranee dove le donne ancora portavano il velo, e il corpo nudo appariva un’invasione satanica, un affronto insopportabile.
Sovente gli incursori maneschi erano i medesimi che si appostavano nella macchia per vedere le ragazze nude (e i ragazzi nudi), ma questi sono dettagli rispetto a quel pezzetto di “conflitto tra civiltà” che vivemmo noi ragazzi, e che animò accese discussioni – a volte con l’intervento dei genitori qualora fossero ammessi a parlare. In estrema sintesi, si scontravano queste due tesi:
1 – La liberazione sessuale e la felice esibizione del corpo sono un gradino di civiltà faticosamente conquistato. Se a quei barbari non va bene, peggio per loro. Noi na-turisti gli portiamo soldi. Se vogliono i nostri soldi, sopportino le nostre usanze.
2 – I barbari sono a casa loro. Non possiamo pretendere di imporgli la nostra maniera di vivere solo perché spendiamo quattrini nelle loro botteghe e nei loro alberghi. Dobbiamo rispettare i loro costumi anche se ci sembrano (e sono) arretrati rispetto ai nostri. Altrimenti, è colonialismo.
Entrambe le posizioni erano, diciamo così, animate da intenzioni “progressiste”. Nel primo caso si era mossi dal lodevole intento di esportare la tolleranza e la libertà. Nel secondo, da una coscienza “terzomondista” che suggeriva un maggiore rispetto delle differenze culturali, notevoli, tra un liceale milanese e un pescatore greco. La Bubi e la Pupi, se proprio volevano mostrare le tette, e il Ludo e il Vichi, se proprio volevano mostrare il pisello, potevano farlo con più agio nelle retrovie di quella piccola guerra, magari nei campi naturisti che proprio in quegli anni cominciavano a diffondersi in tutta Europa.
(La mia unica vacanza naturista fu a Rab, verdissima isola dell’allora Jugoslavia, dove familiarizzai con un anziano professore croato che mi spiegò, in ottimo italiano, che appena Tito fosse morto il nazionalismo avrebbe distrutto la Jugoslavia. Odiava il comunismo ma rispettava la funzione “interetnica” di Tito, croato come lui. Era triste e rassegnato. E tremendamente premonitore. Il fatto di essere entrambi nudi su uno scoglio non credo abbia influenzato in modo determinante il livello della conversazione, decisamente alto rispetto alle normali “conversazioni da spiaggia”. Ma va anche detto che i naturisti, non so oggi ma a quei tempi sicuramente sì, erano mediamente di cultura elevata, e vederne uno senza un libro in mano non era facile. Chiusa la parentesi).
Avrete già capito che rievoco questa antica discussione giovanile perché infinite volte, nei tanti anni successivi, mi è capitato di farmi, con le dovute proporzioni, la stessa identica domanda di allora: in che misura, e per quali vie, e con quali scopi, e con quali limiti, abbiamo il diritto, noi “liberi”, di imporre agli altri il nostro modello di libertà? Sia ben chiaro: sono abbastanza sicuro di essere molto più libero, nei pensieri e negli atti, di un mullah afgano. È ipocrita relativizzare il concetto di libertà, una bambina pakistana o iraniana o afgana è scandalosamente meno libera di una ragazza di Parigi o di Vienna. Inutile, voglio dire, fare finta che non esista una “scala evolutiva” dei diritti e delle libertà. Esiste, e noi occidentali (la Bubi e la Pupi, il Ludo e il Vichi) abbiamo la fortuna, su quella scala, di essere qualche gradino più in alto. Un poco meno assoggettati e un poco meno prigionieri.
Ma questo non sposta di un solo centimetro la domanda-macigno che dobbiamo farci: imporre a sberle (con i bombardieri) il nostro status ideologico? Pretendere che un pastore sudanese, una contadina centrafricana, un operaio indiano si conformino ai nostri codici?
Almeno due guerre sciagurate (Afghanistan 2001, Iraq 2003) testimoniano il rovinoso fallimento dell’idea che “la democrazia si esporti”, e si esporti con le cattive maniere. E non credo sia, il mio, un giudizio “morale”. È piuttosto una constatazione tecnica. Alla luce dei fatti. Le cattive maniere provocano una reazione uguale e contraria, proprio come le tette della Pupi e il pisello del Vichi. Già allora, tra le due tesi, propendevo, pur con qualche esitazione, per la seconda: capivo le ragioni dell’isolano incazzato. Mi piaceva assai l’idea che la libertà fosse esportabile, per giunta da me, ma intuivo che non possiamo pretendere che l’indigeno timorato accolga la nostra nudità come una rivelazione. Non siamo poi così seducenti, al netto di quello che crediamo di essere.
Con il passare degli anni ho rafforzato la convinzione che il mondo è così vario, così complicato, che trattarlo come un alunno da riportare a disciplina (la nostra) è semplicemente assurdo. Non ho scritto ingiusto, ho scritto: assurdo. Il mondo è immenso, variegato, indecifrabile (sapreste dirmi, esattamente, che cosa sapete e che cosa pensate dei cinesi?). Non è riconducibile a un modello unico, per quanto virtuoso e “migliore” quel modello possa essere.
Promemoria finale: i cosiddetti “occidentali”, compresi i giapponesi e i coreani del sud inclusi nel club con qualche fantasia, sono poco più di un miliardo. Se ci tenete, rifate il calcolo. Io l’ho già fatto. Degli altri sette miliardi, anche volendo trascurare il fatto che ne sappiamo poco, voglio dirvi una cosa soltanto: sono molti di più.
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La mia “fuga dalle notizie con passeggiata” della settimana scorsa ha suscitato un profluvio di mail. Delle quali è possibile, questa volta, un riassunto attendibile e abbastanza univoco: meno male! Non sono la sola, il solo, ad avere voglia di spegnere tutto e non sapere più niente… Qui di seguito una breve e sintetica rassegna di alcune delle vostre lettere.
“Sono del ’56, ho passato molti anni a ‘informarmi’ con assiduità e dedizione alla causa, sia per interesse politico che sociale e anche, devo ammettere, lavorativo. Poi, con l’andare del tempo, e il peggiorare della cosiddetta ‘informazione’, ho prima ridotto e poi rarefatto la mia attenzione alle notizie. Anche perché, sembra a me ma anche al più autorevole Byung-chul Han, siamo nell’impero delle fake news e ‘la verità non fa più rumore’. Così da tempo la mia passeggiata dura più giorni, e quando esagero seguo le notizie un giorno sì ed un giorno no. Scoprendo che spesso mi perdo notizie per qualche giorno imperdibili ma perdibilissime appena dopo; fatti analizzati, sviscerati, trasformati in polpette e polpettoni pulp evaporano in un amen. Non so se sia un’abitudine accettabile, forse sono un pessimo cittadino; ma devo ammettere che sto meglio, senza perdere di vista il mio vivere in questo periodo, almeno così mi sembra”.
Stefano Sinelli
“La domanda che ci pone il principe Miskin ne L’idiota è: meglio essere felici e incoscienti e un po’ pirla – Dostoevskij non diceva proprio così ma mi perdonerà – o infelici e coscienti? La risposta che mi dò – a malincuore, perché ogni tanto mi verrebbe di gridare un bel ‘voglio la mamma’ – è che sì, nonostante tutto è meglio essere coscienti, perché quei rari momenti di felicità che possono capitare durante una vita li riconosci e ne godi. Questo principio – meglio essere coscienti – può tranquillamente essere applicato a tutte le sfaccettature della quotidianità compresa l’informazione. Al Post mi sono abbonato! …poi la sera guardo Blob”.
Massimiliano Serra
“I miei figli spesso mi dicono che sono antico (meglio che antiquato, spero). Ti scrivo seduto in campagna dopo un giro in moto e una passeggiata, spinto dal bisogno e dal desiderio di un distacco opportuno se non addirittura necessario da una frenesia dell’istante e da una realtà faticosa e dolorosa, sia vicino sia lontano da me. Hai ragione nel rifiutare a volte di informare e di informarti rispetto alle miserie che sottolineano la violenza e l’aggressività dell’essere ‘umano’. Ma cerco di conservare la speranza nel credere, come diceva Menandro (se non sbaglio) ‘che cosa bella è l’uomo quando è uomo veramente’! Riuscire a sentire e ad entrare in contatto con la parte più profonda di sé è senz’altro un cammino difficile e faticoso che può durare una vita intera, anche senza la certezza di raggiungere l’obiettivo. Ma bisogna almeno provarci. Non per fede acritica ma per un sincero sentire. Credo che la riflessione, l’esercizio critico e il dubbio, se vissuti ed esercitati con umiltà ed autoironia (come fai tu) siano un lievito fermentativo molto importante e quasi fondamentale per la nostra vita, l’unica che ci è dato vivere. Allora perché non provarci?”
Carlo Valitutti
“Mi sento spesso sopraffatta dalla mole di informazioni (vere e presunte tali) che leggo. Utilizzo sempre meno i social network perché li trovo pieni di livore a tutti i livelli, tutti che discutono con tutti, rabbia gratuita, la necessità di esprimere per forza un’idea, uno schieramento. Mi ritrovo a leggere per non pensare a tutto quello che succede in Italia e ancor peggio fuori, mi ritrovo a guardare serie tv solo per staccare la mente da tutte quelle immagini devastanti. Nonostante tutto quello che sta succedendo mi ritrovo comunque a pensare ai problemi di tutti i giorni, a mandare avanti una vita che valga la pena di essere chiamata tale, piena di rinunce ma anche di momenti felici. So di essere una privilegiata, vivo Italia dove dopotutto posso uscire, ho le mie libertà, ho un lavoro che permette il mio sostentamento e una vita dignitosa, posso votare (ci ho pensato ieri dopo aver visto il film di Paola Cortellesi), posso esprimermi liberamente. Eppure in queste settimane tutto questo mi fa sentire in colpa. Cosa posso fare per non sentirmi sopraffatta dal senso di colpa, per quello che mi manca e per quello che manca alle persone che sono meno fortunate di me? Fare una passeggiata per staccare da tutto questo strazio, il commentare e postare incessantemente, ha ragione, aiuta a rischiarare la mente e ritrovare il centro di sé stessi”.
Daniela Atzori
“C’è un modo di non farsi travolgere dalle inutili chiacchiere, ed è quello di scegliere cosa ascoltare e cosa evitare ed ignorare. Forse rischio di perdermi
qualche dettaglio ma non sarebbe materialmente possibile prestare attenzione a tutta la valanga di informazioni (?) che potrebbero arrivarti, quindi secondo me è necessario attivare dei potenti filtri che tengano lontano tutto ciò che è solamente un inutile e fastidioso rumore come i giornali urlati, i canali televisivi idem e tutta la ridda di social che riportano le urla di cui sopra”.
Santo Ungaro
Alfonso Carbone suggerisce, come colonna sonora di questa nostra conversazione, Ci sono dei momenti di Giorgio Gaber. Mi associo.
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La rubrica “Zanzare mostuose”, dedicata ai titoli di giornale che fanno ridere anche se non lo fanno apposta, si arricchisce, questa settimana, di pochi aggiornamenti, però notevoli.
Valeria segnala, da fonte imprecisata e non recente, questo piccolo capolavoro horror:
Va per funghi, trova un piede
Non male anche questo titolo hitchcockiano segnalato da Francesco Debenedetti:
Ragazza colpita alla testa da un gabbiano per poi essere derubata della focaccia
Marco Sampognaro dà spazio a un classico di tutti i tempi, quello del refuso, che da Gutenberg ai giorni nostri non concede tregua. Dal Corriere di Rimini:
Muore tranciato da un lama
Da escludere l’atto violento di un monaco tibetano, o di un erbivoro andino. Non resta che la pista del refuso: si trattava di una lama. A proposito, “refuso” è un termine che deriva dalla composizione tipografica “a caldo”. Quando la riga di piombo conteneva un errore, si doveva procedere alla sua ri-fusione. La tecnologia non ha reso obsoleto il termine. Non si rifonde più, ma ci si confonde ancora.
Molto interessante il titolo proposto da Stefano, tratto dal Corriere dello Sport:
Scialba prova del Divino Amore
Dove si parla non di una delusione teologica, ma della scadente prestazione sportiva di una squadra di calcio minore che ha sede lungo la via Ardeatina.
Infine Silvana manda la foto di una locandina resa irresistibile dalla contiguità grafica tra titoli (si direbbe) diversi.
Vento forte, alberi su case e auto
Maratoneta vola in Tanzania