Le cose insieme
Il mio primo articolo su Berlusconi risale ai primissimi anni Ottanta. Probabilmente il 1981. Telemilano era appena diventata Canale 5, da Milano 2 partiva alla conquista dell’Italia. Conquista che si rivelò meno difficile del previsto. Berlusconi, del quale si sapeva solo che era un imprenditore edile molto facoltoso – a Roma si chiamavano e si chiamano palazzinari, a Milano si è più ingenui e rispettosi del talento produttivo –, importava dall’America Dallas e altre cose congeneri, che diventarono il pleasure (per niente guilty) di milioni di italiani entusiasti. Si trattava, sul serio, di videocassette. È difficile farlo credere a chi ha meno di quarant’anni, ma Berlusconi comperò in America delle videocassette. In omaggio alla modernità – quel poco di modernità pre-digitale che potevamo concederci noi primitivi del secolo scorso – arrivarono in aereo, non sul bastimento.
Credo non sia un azzardo sociologico dire che il pubblico di Dallas non fosse composto da accaniti frequentatori dei cinema d’essai, allora ancora in auge, né delle librerie. Si stava organizzando la clamorosa ribellione del popolo contro l’idea – pazzesca, ripensandoci – che il popolo dovesse fare la rivoluzione, così come solo dieci anni prima era sembrato potesse accadere. Anzi: dovesse accadere.
Già il geniale e cinico Paolo Villaggio, nel Secondo tragico Fantozzi (1976) aveva del resto decretato – vox populi – che «la corazzata Potemkin è una cagata pazzesca», certificando con qualche anno di anticipo che “l’impegno” aveva decisamente rotto le scatole. Chissà se la chiamata di Federico Fellini (La voce della luna, 1990) gli abbia poi fatto cambiare idea sul cinema d’autore, al grande Villaggio. È tra le tante cose che non sapremo mai.
Berlusconi convocava i giornalisti in via Rovani, a Milano, in una villetta dove c’era più moquette che mattoni (sospettavo che l’edificio fosse di moquette autoportante). Io avevo la sfrontatezza dei vent’anni, lo consideravo una macchietta lombarda e pubblicavo sulla cronaca milanese dell’Unità allegri articoletti sulle nascenti televisioni private, firmandomi Pollicino. Si potrebbe dire, con il senno di poi, che non avevo capito niente. Cioè: non avevo capito che quel signore, che a me pareva solo il tipico arricchito spregiudicato e vanitoso (un bauscia, si dice a Milano) sarebbe diventato, di fatto, padrone del Paese.
Si potrebbe anche dire, però, che avevo capito tutto: nel senso, direi proprio non trascurabile, che Dallas faceva effettivamente schifo, allora come adesso. E la corazzata Potemkin di Sergej Ejzenstejn (1925) è un capolavoro, specie in rapporto all’anno della sua fattura, e ai mezzi tecnici allora disponibili. Un capolavoro: allora come adesso.
Se ho qualcosa da rimproverarmi, per dirla tutta, non è di avere preso per i fondelli, per trent’anni e rotti, Dallas, Berlusconi e chi lo ha votato. È non avere detto abbastanza, o saputo dire, o voluto dire, che il popolo merita molto di più: sicuramente più di Dallas. Ho l’impressione che in prevalenza si sia detto, noi di sinistra, che il popolo non capisce. Se avessimo invece saputo dire: il popolo merita di più, molto di più, e chi pensa che meriti Dallas è un nemico del popolo, forse le cose sarebbero andate diversamente.
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Stress scolastico, ansia giovanile. Qui sotto due lettere tra le tante (e tante vuol dire tante: prof, presidi, madri, padri, studenti fuori corso, semplici passanti). Più una mia non breve risposta. Confermo, per i nuovi arrivati, le regole di ingaggio: a parecchi – non a tutti – riesco a rispondere privatamente. A qualcuno purtroppo no. Scelgo ogni settimana qualche lettera da pubblicare, il criterio è inevitabilmente arbitrario. Faccio anche, sulle lettere che pubblico, un piccolo lavoro di editing. Sostanzialmente le accorcio. Non offendetevi, grazie.
“Caro Michele Serra,
ho 35 anni, laurea e dottorato in chimica, Erasmus e varie esperienze all’estero che mi hanno portato a fare il ricercatore precario per più di sette anni in giro per l’Europa. Ora lavoro in una grossa multinazionale americana e sebbene non sia a contatto con troppi ‘giovani’, accomunati secondo lei da ‘un notevole calo della capacità di incassare i colpi’, sono circondato da boomers e credo possa essere utile descrivere anche loro per comprendere meglio la fonte di quell’ansia che trova incomprensibile nei giovani. Effettivamente, i boomers che conosco io non la sentono: sembrano tutti estremamente sereni, la maggior parte di loro in posizioni di rilievo, con stipendi che le riflettono e con una rete professionale di colleghi e clienti con cui condividono esperienze analoghe e una visione del mondo molto simile. Sono anche estremamente incompetenti: imbarazzanti nell’inglese da pacche sulle spalle, impacciati alle prese con un powerpoint, resi inadatti alle sfide della società attuale da una cultura professionale chiusa, maschilista e provincialissima, quella dell’ ‘abbiamo sempre fatto così’ di cui sono i principali promotori (e di cui sono raramente indicati come responsabili). Ma, effettivamente, sereni”.
“Nella sua esortazione, tipica di persona serena: ‘ragazzi, dal punto di vista dello stress il peggio, ve lo assicuro, deve ancora venire’, ha perfettamente dato un esempio del tratto che forse più accomuna i boomers, ossia la convinzione che le esperienze che ha vissuto (o per essere più precisi, il modo in cui ricorda di averle vissute) siano universalmente trasferibili a qualsiasi società, cultura e momento storico. Da qui l’incredulità nel vedere che tra i giovani, che invece vivono società, cultura e momento storico attuali, esistono ansie, paure e rassegnazioni profondissime, a volte tali da spingere alcuni a togliersi la vita. Vale la pena notare come sia per lo meno umoristico sentire boomers dirsi increduli di come i giovani siano psicologicamente impreparati ad affrontare le difficoltà contemporanee, e allo stesso tempo essere la generazione che ha costruito il sistema educativo che li ha formati. Non sembrano vedere la relazione tra queste due cose. In modo analogo si stupiscono dell’evidente ansia di una Greta Thunberg e pensano ‘Io alla sua età pensavo a correre dietro alle lucciole’. Ma oggi le lucciole non ci sono quasi più”.
Lorenzo
“Caro Michele, sono da poco entrato nei 30 ma mi considero tra i giovani universitari da lei citati. Mi chiamo Andrea e sono uno studente di medicina fuoricorso, ho avuto delle difficoltà, ho vissuto e vivo ancora lo stress e l’ansia per le aspettative di cui si è parlato. Non credo sia niente di patologico o di sbagliato, credo sia qualcosa che tutti, chi più chi meno, hanno provato, e sono assolutamente d’accordo con lei riguardo l’importanza del ‘saper incassare’ gli insuccessi, le delusioni e anche lo stress che la vita comunque ci metterà davanti. Le sue riflessioni sul tema però, mi hanno riportato alla mente varie discussioni avute con persone più anziane, in famiglia e fuori, che credo siano abbastanza esplicative della difficoltà nel confronto tra generazioni. Tutte le volte si segue lo stesso copione: si parte dal commentare un discorso come quello di Emma Ruzzon, oppure una denuncia di qualcosa che non funziona o un’ingiustizia e subito parte il: ‘Ai miei tempi…’. E il sottotesto è sempre: ‘Adesso è tutto più facile’. Non è possibile avere un dialogo con qualcuno che non ascolta ciò che dici, ma ti parla come se fosse in grado di spiegarti la tua realtà. E dopo un po’ ci si stufa anche di discutere, sai già come andrà a finire. Puoi provare a spiegare il tuo punto di vista, ma ovviamente non verrai ascoltato e sarai zittito col sempreverde: ‘Adesso non capisci, ma un giorno capirai (che ho ragione io, punto)’. E così alla fine decidi che è più semplice tagliare corto con un lapidario: OK boomer”.
Andrea
Cari Lorenzo e Andrea, scelgo, tra le tantissime, le vostre lettere perché sono le più “frontali”, anche le più conflittuali, e dunque mi permettono di rispondere in modo altrettanto diretto, bypassando i convenevoli e certi lussi dialettici.
Se avessi scritto, o pensato, che lo stress (scolastico e professionale) dei più giovani è solo un segno di rammollimento da benessere, o un’inspiegabile tara generazionale, sarei un cretino, indipendentemente dall’anagrafe. Ma non l’ho scritto. Ho cercato di inquadrare il problema a partire da due posizioni (gli studenti del Berchet, il discorso di Emma Ruzzon) che giudico non solo rispettabili, anche condivisibili. Sì, viviamo in una società ossessionata dalle prestazioni, feroce con gli esitanti, con i lenti, con chi non si adegua al ritmo. Ho però aggiunto una considerazione: che non ogni inciampo o caduta meriti un così grave abbattimento, una così desolata auto-colpevolizzazione. E ci sia dunque da lavorare (anche) sulla capacità di incassare meglio i colpi.
Ora: le vostre lettere, i colpi, li restituiscono, imputando ai “vecchi” quella ben nota anchilosi mentale che impedisce loro di ascoltare i “giovani”. Imputando a loro (a noi boomers) la classica ottusità generazionale, l’incapacità di valutare i mutamenti d’epoca e di cultura, la certezza di sapere “come stanno le cose” una volta per tutte. Imputandoci, soprattutto, una diretta responsabilità nell’edificazione del mondo così come l’avete trovato. Tutto vero – con le debite differenze individuali, che sono sempre importantissime a qualunque generazione si appartenga: ogni persona è quella persona, e ha fatto, detto, scritto quelle cose.
L’insofferenza nei confronti delle generazioni precedenti è un fenomeno sociale, psicologico, culturale – aggiungerei: biologico – vecchio come il mondo, e giovane come le nuove generazioni. Ma leggendo la conclusione della lettera di Lorenzo credo di avere colto la sola, vera, profonda differenza tra la mia esperienza di ragazzo e quella di chi è ragazzo ora. No, Lorenzo, quando avevo l’età di Greta non correvo dietro alle lucciole. Quando avevo l’età di Greta, io ero Greta (credevo di esserlo, perlomeno, insieme a milioni di ragazzi). Frequentavo un gruppo anarchico, ero nel movimento studentesco, poi mi iscrissi, a 19 anni, al partito comunista: come moltissimi, facevo politica. Molta politica. A scuola, nelle sezioni di partito, nelle strade dove si volantinava e si litigava. Sparavo cazzate, ma dicevo anche molte cose giuste. Dei Padri e delle Madri pensavo il peggio. Che fossero gretti, insensibili, mediocri, borghesucci, asserviti a un ordine perverso e minaccioso. Non era nemmeno pensabile una discussione, tanto distanti erano le idee, l’abbigliamento, il taglio dei capelli, la vita sessuale, la musica, insomma tutto.
Ebbi poi tempo e modo di rivedere la mia opinione e i miei sentimenti su Padri e Madri (la vita è lunga), ma in quella precisa fase – gli anni decisivi in cui ci si forma –, nel furore anti-generazionale che coinvolse i giovani di mezzo mondo (“non ti fidare di nessuno che abbia più di trent’anni”, Jerry Rubin) ebbi modo di non sentirmi mai solo. Non per mio merito. Per merito dell’epoca: era ancora possibile buttarla in politica, la politica era il più vitale, il più attraente dei luoghi, ogni malumore, ogni disperazione, ogni solitudine, ogni sogno si ritrovò a sfilare negli stessi cortei. Non eravamo né più intelligenti né più coraggiosi, semplicemente ci ritrovammo a vivere collettivamente sentimenti e opinioni molto simili a quelli che traspaiono dalle tue parole, Lorenzo: che i grandi fossero degli stronzi e che la società fosse mediocre e sorda.
Che avessimo ragione o torto (avemmo ragioni e torti) non è il punto. Il punto è che, sulle vostre spalle, c’è un peso aggiuntivo e micidiale: la solitudine. Scusate la franchezza: o ve la levate di dosso, o siete fottuti. Condividere l’incazzatura, o la desolazione, o la contentezza, forse è un’esperienza che a voi millennials, in prevalenza, è mancata. I ragazzi di vent’anni – vedi Greta – mi sembrano molto più disposti a cogliere la dimensione collettiva dell’incazzatura, e quella dimensione non può che essere la politica, in forme nuove o nelle forme classiche, in qualunque suo format.
Che voi non sopportiate i boomers è nell’ordine delle cose: ne avete pieno diritto. Ma provate ad ascoltare i fratelli minori, magari qualcosa di utile possono raccontarvela. Fidatevi solo di quelli che hanno meno di vent’anni.