L’ascensore è bloccato
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L’ascensore è bloccato
Michele Serra
Martedì 15 ottobre 2024

L’ascensore è bloccato

«È come partecipare a un gioco che non prevede vincitori: quello che la sociologia chiama “ascensore sociale” è fermo, almeno qui in Italia, da qualche anno»

L'installazione "Untitled" di Maurizio Cattelan in esposizione a un'asta a New York nel 2011 (Mario Tama/Getty Images)
L'installazione "Untitled" di Maurizio Cattelan in esposizione a un'asta a New York nel 2011 (Mario Tama/Getty Images)

Ragazze, ragazzi, non sono un istituto di ricerca, non dispongo di AI a parte il navigatore della mia macchina (che sbaglia spesso strada, tra l’altro) e mi oriento con una certa fatica anche nelle mie playlist. E dunque prendete con le molle quello che sto per dirvi: non è scienza, è solo una chiacchierata tra di noi. Dal centinaio di mail che mi sono arrivate questa settimana – sollecitate dalla domanda: a che punto è la paura del futuro, e peggio quella del presente? – ho tratto una conclusione. Personale, arbitraria quanto volete, ma abbastanza precisa da meritare di essere condivisa.

La conclusione è questa. Le guerre, lo sfaldamento politico, il cambiamento climatico, la sensazione di caos e di fine epoca: tutto contribuisce a formare quel “nodo allo stomaco” di cui si parlava nello scorso Ok Boomer!. Ma niente pesa sui più giovani (diciamo, dai quaranta in giù) quanto l’incertezza economica. Quanto il rattrappimento progressivo delle prospettive di migliorare il proprio status, e sperare in un futuro più solido. È come partecipare a un gioco che non prevede vincitori: quello che la sociologia chiama “ascensore sociale” è fermo, almeno qui in Italia, da qualche anno. Bloccato tra un piano e l’altro. E dentro l’ascensore fermo, comincia a mancare l’aria.
Volendo buttarla in politica: il catechismo marxista diceva che alla base di tutto c’è la struttura (i rapporti economici tra gli individui). E tutto il resto è sovrastruttura. Diciamo dunque che le vostre mail, questa settimana, confermano questo antico schema otto-novecentesco.

Ho faticato più del solito a selezionare le vostre parole. Un fiume di parole, credetemi: da poterci fare un libro. Poiché la mia domanda (a che punto è il vostro nodo allo stomaco?) era rivolta alle generazioni post-boomers, e soprattutto ai più giovani, ho scelto di non pubblicare le lettere di quelli della mia leva, e dintorni. Siamo stati una generazione iperloquace, dunque saltiamo un turno. Faccio una sola eccezione: Matteo, co-boomer, mi segnala qualche verso di Jannacci (“Io e te”) che merita di figurare come epigrafe di questa “edizione speciale” della mia newsletter:

“La bellezza dei vent’anni
è poter non dare retta
a chi pretende di spiegarti
l’avvenire
e poi il lavoro
e poi l’amore”.

La parola, adesso, va a quelli dai quaranta ai venti. Come sempre, anzi più di sempre, ho dovuto/potuto scegliere solo alcune delle vostre mail; e fare tagli molto drastici. Ho messo in apertura la lettera di Andrea perché apre un varco, indica una strada. Perché mi è piaciuta molto, e in alcuni punti – non vi dico quali – mi ha veramente emozionato. E in chiusura ho messo la lettera di Francesca: anche quella apre un varco, anche quella mi ha dato sollievo e speranza. In mezzo, troverete un vero e proprio mare di perplessità. Non mi resta che avvertirvi che questa settimana andremo un po’ lunghi: ma è colpa vostra. Delle vostre voci che si fanno sentire. Vai, Andrea.

“Quasi quarantenne, laureato, un bel lavoro a tempo indeterminato, sposato con una messa come me, due figlie più una in arrivo a breve. Affacciati al lavoro nel post-2008 da cui non ci siamo mai davvero ripresi, più ancora che nei redditi, nelle prospettive. Se quarant’anni fa sarei stato un Signore, oggi sono poco più di un ragazzo. Nell’epoca della globalizzazione e della disintermediazione che vanno a braccetto (cito The Game di Baricco) la vita va comunque avanti”.
“Le istituzioni sono morte? Pace. Quelle politiche ed economiche non mostrano altro fine che il proprio perpetrarsi. Pare non gli servano più le persone, solo un bacino di consumatori-elettori. I giornali non li leggo più, solo il necessario per lavoro, non mi dicono più niente che mi serva a capire e migliorare. Il Post, ovviamente, come finestra sul mondo per un minimo di lucidità, di misura, per convertire il caos in informazione. Ma cosa fare? L’entropia è ovunque: nelle istituzioni, nelle guerre, nella burocrazia, online, nel quotidiano di ognuno di noi. È diventato tutto più difficile. Viviamo l’epoca del ridimensionamento delle aspettative e degli orizzonti”.
“L’unico modo in cui mi sento di vivere non è rassegnandomi e chiudendomi in me stesso, ma combattendo la giusta battaglia: ogni giorno, nel piccolo e nel grande. Granitico nei principi, dinamico nelle opinioni. Un po’ di volontariato, un po’ di impegno politico, un po’ di lavoro fatto bene (ultimo baluardo della dignità). I corpi intermedi non ci sono più, ma restano le persone. Non solo la famiglia, il clan, che oramai in media è poco più di una persona. Troppo poco. Ma la comunità. Kurt Vonnegut sul concetto di comunità insiste tanto nel suo ‘Quando siete felici, fateci caso’, e trovo che sia un concetto essenziale per non abbandonarsi alla sconfitta e alla solitudine. Se si è rotta la cinghia di trasmissione che dall’individuo, attraverso i corpi intermedi, arriva alle istituzioni, noi invece ci siamo ancora. Abbiamo ancora alberi da piantare, da curare, da far crescere. Insieme. Abbiamo ancora noi e i nostri figli. Abbiamo ancora una comunità in cui imparare a riconoscerci. Quindi, perché paura? Perché nodo allo stomaco? Sembra troppo poco, un giardino da affiancare ad altri giardini per costruire qualcosa di più grande della somma, mentre tutto intorno sembra andare a fuoco? Preoccupiamoci meno, occupiamoci più dei giardini. Non ci serve tutta questa angoscia per andare avanti. Non ci serve tutto questo rumore, questo caos che non è informazione. Ci servono delle facce e delle mani, le nostre e quelle degli altri. Ci parlano solo di diritti individuali? Risponderemo con impegno collettivo. Pace e comunità. Che non sono rassegnazione all’orticello, ma l’orizzonte in cui possiamo davvero cambiare il mondo. Un pezzo alla volta, come un’entropia positiva. ‘Non aspettarti nessuna risposta, oltre la tua’. (l’hanno detto meglio Brecht e Servillo qui). Ho tanti amori, più quello sempre difficile per me stesso, cui devo un futuro. Ho paura, certo, ma non ho scuse. Grazie per ciò che fa, che è uno dei tanti modi di fare comunità”.
Andrea

“Mi sento triste e abbattuto ogni volta che leggo di guerre, attentati e disastri in giro per il mondo, ma non sono queste le preoccupazioni che mi tengono sveglio la notte. Piuttosto, mi preoccupa il fatto di non essere sicuro di potermi permettere una casa, di non riuscire a permettermi di avere figli, di non poter passare del tempo con la mia famiglia in Italia (ho 32 anni e vivo all’estero da 10, al momento a Londra). Mi preoccupa l’incertezza lavorativa, sapendo che forse non avrò mai la stabilità che hanno avuto i miei genitori (lavoro per una grande multinazionale che ha di recente annunciato pesanti tagli al personale) e mi preoccupa il pensiero che la mia pensione sarà (forse) a malapena sufficiente per mantenermi quando non potrò più lavorare. Possibile che i boomer non si preoccupino quanto me? Sarà che sono figli di un benessere che noi non abbiamo mai conosciuto? O forse sono semplicemente più anziani di noi e vivono ormai distaccati dalle difficoltà della realtà quotidiana, protetti nelle loro case di proprietà, felici di aver concluso una carriera stabile, e comodi con le loro pensioni sicure?”.
Giacomo

“Ho 29 anni. Nonni operai, genitori/zii laureati, i nipoti (cioè io) privilegiati. Alle spalle una famiglia che mi ha permesso di poter vivere un’esistenza abbastanza agiata. Ho la macchina del nonno, una Fiat Punto del 2006, che mi porta al lavoro tutti i giorni; vivo in un appartamento regalatomi da mio padre. I miei genitori, conducendo una vita umile, mi hanno fatto studiare e mi hanno fatto vivere all’estero. Ma su questo li ho delusi, sono tornata a casa, in Val di Susa. Le mie montagne, la mia aria… Per tanto tempo mi sono sentita in colpa di non aver accettato di vivere in Danimarca, di far parte di una ‘società meglio organizzata’, di ambire a un lavoro meglio retribuito e a una qualità della vita migliore. Mi è dispiaciuto tanto, ma casa mia è qui, con tutte le sue difficoltà e i suoi difetti”.
“Ma in certi giorni mi pesa. Perché parlo al mio compagno di metter su famiglia e vorrei che avesse la paternità obbligatoria almeno di qualche mese; perché a casa dei miei genitori sono ospiti due ragazzi afgani che stanno provando a mettere la loro vita in ordine, e qualche anno fa è passato Mamadou, della Costa d’Avorio, che ancora mi chiama ‘sorella’, e vorrei tanto potesse prendere la cittadinanza presto; perché cade tutto a pezzi in questa nazione che rappresenta così bene la fuffa di cui siamo fatti noi italiani. Il caso dei miei cugini nati degli anni ’80 è ancora più tragico: nei primi anni della loro vita hanno sentito dirsi solo bugie: ‘studia e vedrai che avrai quello che vuoi nella vita’. Frottole, sogni infranti, una generazione persa. 40 anni e non avere una casa. 40 anni e avere uno stipendio da fame (come il mio, ma con 10 anni di più di anzianità). 40 anni e non sapere chi si è. Io, a quasi 30, e con un po’ di soldi (miei, questi) spesi in psicoterapia, posso dire che almeno qualcosa su di me l’ho capito. Sopravviveremo anche alle guerre, anche alla distruzione del sistema capitalistico. Forse torneremo a una vita più semplice e più circostanziale, ma ho talmente tanta stanchezza addosso che mi tengo stretta questa visione del mondo un po’ più egoista”.
Arianna

“Sono un millennial del 1989, adeguatamente informato e consapevole della situazione in cui si trova l’umanità oggi. Tanto consapevole che qualche anno fa, sul letto di un ospedale, stilai la lista delle cose che sarebbero potute andare molto male nei prossimi decenni (dal cambiamento climatico allo sviluppo incontrollato dell’AI fino alla riduzione delle democrazie nel mondo) e ipotizzai che una crisi o una guerra mondiale sarebbero state inevitabili (era il 2018). Con quel bruciante nodo alla bocca dello stomaco ho convissuto per anni, provando a ridurlo con l’attivismo o a gestirlo con la terapia. Alla fine sono riuscito a mandarlo via solamente con una buona dose di indifferenza, quella che credo tu abbia chiamato lucida rassegnazione. Dirò una frase che trovo tremenda, ma sincera: ho capito che per essere felice dovevo anche essere un po’ più superficiale”.
Giovanni

“Credo che i giovani d’oggi siano (siamo) talmente bombardati da notizie poco rassicuranti da decidere o di fare come gli struzzi e mettere la testa sotto la sabbia, oppure di leggere, approfondire, informarsi, dibattere. La paura del futuro o ci provoca indifferenza o ci paralizza. Credo però che anche chi fa parte della prima categoria mostri un’indifferenza solo apparente. Cosa farebbe la sua lettrice boomer se fosse nata con la spada di Damocle della crisi economica, avesse realizzato sin da subito che ottenere ciò che avevano i propri genitori sarebbe stato molto ma molto più difficile, se tutti gli esperti urlassero che stiamo portando il nostro pianeta sul punto del non ritorno, che gli stipendi in Italia non crescono da 30 anni, che mancano i medici negli ospedali, che il diritto allo studio non è più garantito a tutti, che il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 40%, che ci sono decine di migliaia di giovani che ogni anno sono costretti a lasciare il proprio Paese per cercare fortuna altrove? Cosa farebbe la sua lettrice? Non nasconderebbe forse anche lei la testa sotto la sabbia?”
Giulia

“Qui Lucia, classe 1996. Paura del futuro? Nella media direi. Qualche mese fa ho provato a spiegare a mio padre – classe 1955 – perché non riesco a fare grandi progetti per il futuro. Gli ho detto che se provo a guardare ai prossimi 10 anni, non posso fare a meno di guardare anche indietro agli scorsi 10, e che vedo? Poli-crisi, per rispondere sinteticamente. Ignoro il nodo allo stomaco e la paura quando riesco: perché l’alternativa che vedo più disponibile è una totale disillusione rispetto alle mie prospettive di vita (relativamente al contesto in cui vivo, senza pensare neanche per un secondo a quanto peggio potrebbe andare se fossi nata da un’altra parte del mondo) e disaffezione verso le cose belle che so che ci sono e mi possono capitare. L’incazzatura, chiedevate? Eccome se c’è, e monta ogni giorno. Ma purtroppo faccio parte di quelli che non sanno esprimerla a voce abbastanza alta da provare a smuovere qualcosa. Anche voi boomers, però, mettetevi d’accordo: o siamo troppo scioccamente contenti o troppo capricciosamente petulanti? Senza vie di mezzo?”
Lucia

“Mi chiamo Morgan e ho 22 anni. Più che starsi a crogiolare sul terrore dell’avvenire, ha senso affrontarlo con un po’ di cinismo e cercare di capire come rimboccarsi le maniche. Non tutti i cambiamenti devono per forza essere interpretati come negativi. Tra voi adulti c’è un sentimento riassumibile in ‘quando eravamo giovani noi, le cose andavano bene, adesso stanno cambiando e non mi piacciono, quindi bisogna tornare indietro’. Mi sembra un punto di vista un po’ cieco sui cambiamenti del mondo. Uno dei motivi per cui stiamo consumando di più del nostro pianeta è che il benessere occidentale, quello di cui avete potuto godere voi boomer, si sta espandendo e sta arrivando anche in Asia, Africa, Sud America. Le condizioni di vita nel mondo stanno migliorando, pian piano. Con le nostre diete mediatiche può non sembrare, ma Our World In Data è un sito che a volte riesce a farmi sorridere un po’”.
“Poi, le guerre. Sembra che siano ‘tornate’, ma anche ai vostri tempi c’erano. Nello stesso periodo del miracolo economico italiano c’erano la guerra in Vietnam, la guerra dei sei giorni e dello Yom Kippur, la guerra di Corea, la primavera di Praga… Quello che è cambiato è l’informazione. Non servono giornalisti e fotografi sul campo che portino in giro la loro attrezzatura costosa per dire quello che succede a Gaza. Ci sono i video diretti dei testimoni palestinesi su TikTok, Instagram e Twitter/X. Si fa molta più fatica a nascondere le terribili vicende che succedono ad un qualsiasi popolo che abbia un cellulare. Sono preoccupato per quello che sta succedendo nel mondo, ma non credo che sia realistico tornare indietro come tanti di voi boomer vorrebbero fare. Il mondo è tornato ad essere un luogo incerto e per certi versi pericoloso. I cambiamenti però non sono tutti negativi. La tecnologia può portare cose buone, e più persone al mondo potranno vivere per più a lungo. Come mi diceva mia nonna, non tutto il male viene per nuocere”.
Morgan

“Sono una millennial, nata sul finire degli anni ’80; cresciuta in campagna dai miei nonni, che hanno vissuto la guerra e parlavano poco. Ho fatto l’università senza alcuna aspettativa, sapendo che sarebbe stato solo per cultura personale. Ho lavorato tanto, spesso in nero, sempre arrancando; sentendo parlare male dei giovani apatici. Ho covato rabbia per la situazione economica, politica e soprattutto culturale. Credo di aver vissuto una doppia vita: quella degli ideali, dell’etica feroce, della consapevolezza di ciò che il mondo avrebbe dovuto essere; e quella della realtà, dell’accettazione di qualunque situazione. ‘Perché è così e non si può cambiare’. La mia rivolta è sempre stata interiore. Ora ho circa 36 anni; non ho voluto figli da gettare in questo mondo. Come molti dei miei coetanei. Sono di sinistra, cerco di fare una vita sostenibile. Leggo nel poco tempo libero e mi informo”.
“In passato, ho provato a parlare di quello che secondo me non andava, a protestare. Ma intorno, solo stagnazione e stanchezza culturale. Sono preoccupata per le guerre e, soprattutto, per l’ambiente. Sono preoccupata per il rancore che passa di generazione in generazione, per l’abbattimento della creatività; per l’ignoranza. Per la rabbia che leggo nei commenti su Facebook, per tutte le violenze quotidiane; per la mancanza di amore verso il prossimo e la terra. Per le batterie di animali ridotti ad oggetti. Per il fatto che continuiamo a non imparare dai nostri errori, per la storia che è un cumulo di morti inutili; per la convinzione che questo sia l’unico mondo possibile. Ora ho smesso di guardare il telegiornale. Troppo, troppo dolore che non posso combattere. Con il tempo si impara a godere delle piccole cose, a trovare una felicità semplice, intima, familiare. A coltivare la gentilezza. Ci si arrende. O si trova pace. Confido nella generazione futura e, nel frattempo, chiedo scusa di non essere riuscita a cambiare il mondo. Lo avrei voluto davvero tanto”.
Mic

“Sono Chiara, ho 24 anni, studentessa (a breve mi laureerò). Giovane a pieno titolo e con una paura del futuro direi elevata. Parlando con coetanei, compagni di università, amici da una vita direi che la preoccupazione per quello che verrà è più che presente, sia per quella che è la vita di tutti i giorni (rincaro affitti, difficoltà nel trovare un lavoro adeguatamente retribuito, salute mentale non ottimale), sia per quello che è un po’ più lontano (uragano Helene, elezioni americane, situazione in Medio Oriente). La preoccupazione c’è e spesso diventa anche un’ansia patologica. Da che ne ho ricordo, l’economia italiana è sempre solo andata peggio, soprattutto se guardata dall’ottica di noi giovani, che chissà se mai vedremo una pensione. Non so se sia io pessimista, ma forse il motto che mi viene da dire è: ‘si spera nel meglio, ma ci si prepara al peggio’”.
Chiara

“Mi chiamo Paolo e ho 23 anni. Mi sento in un mondo in cui c’è una netta divisione (e la forbice si allarga sempre di più) tra la mia generazione e quella dei miei genitori. Sento che la generazione di voi boomer sia immensamente più preoccupata rispetto alla mia e questo la maggior parte delle volte mi fa arrabbiare perché io (che ho 23 anni!) dovrei avere molta più paura rispetto a voi che, diciamocelo chiaramente, avete vissuto il periodo migliore nella storia dell’umanità. Questa visione catastrofica si scontra invece con la visione che abbiamo noi ragazzi, che non mi sento di definire più ottimista, ma sicuramente più realistica e consapevole. Consapevole che in un modo o nell’altro noi saremo responsabili del futuro e che il mondo non si cambia a suon di slogan e ideologie, ma solamente con l’impegno e le capacità che si apprendono con lo studio e con l’esperienza”.
P.S.

“Sono Alex, ho ventidue anni e il mio nodo allo stomaco è oramai soffocante. Leggo il Manifesto tutti i giorni, seguo sui social molti quotidiani nazionali e attendo ogni domenica il tuo monologo a Che Tempo Che Fa. Mi ritengo quindi abbastanza informato sui temi d’attualità. Molti miei coetanei si informano quotidianamente, c’è chi legge il giornale e chi invece si informa con i social. Il punto è che informarsi fa bene se poi si matura un pensiero, e dal pensiero nasca un’azione. Voi avete vissuto un boom economico e il 68, e avete avuto nel bene e nel male dei partiti che davano una visione della società. Noi di tutto questo non abbiamo niente. Abbiamo i rigurgiti dei nazionalismi, il ritorno delle guerre e soprattutto una paura fottuta del cambiamento climatico. Ma se uno prova a cambiare qualcosa ti mettono in gabbia, stanno approvando il DDL 1660 (peggio del codice Rocco, proprio non ce la fanno a recidere le radici con il fascismo) che limita il dissenso e l’attivismo. Forse una soluzione sarebbe che la sinistra tornasse ad alzare la voce e fare la sinistra. Un certo Pertini diceva: i giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo”.
Alex Molinari

“Sì, io ho paura del futuro, e tanta. Sono un padre di due figli piccoli, ho paura non di morire ma di perdere il lavoro e non poterli più sfamare perché la guerra alle porte potrebbe sconvolgere tutto. L’economia di guerra si basa sulla produzione e io non ho doti pratiche, lavoro con il computer. Ma tutte le persone che conosco e che frequento non ne parlano: probabilmente non hanno paura. Evidentemente non guardano il telegiornale e non leggono un quotidiano, un settimanale. Non si informano. Anzi no si informano sui social e pensano che quella sia la realtà. Lei non sa quante persone conosco convinti che ‘i vaccini ci hanno peggiorato’ e che l’11 settembre è una montatura”.
Giovanni, 43 anni

“Quando mia mamma ottantenne dice ‘come è ridotto male questo mondo!’ le ricordo che i loro padri hanno fatto due guerre mondiali, l’ultima dalla parte sbagliata, che nel mondo le condizioni di vita sono migliorate per un numero impressionante di persone, che negli anni Settanta mettevano le bombe sui treni, che a Milano c’erano 250 morti ammazzati all’anno, ecc. ecc. Insomma: meno male che i giovani fanno i giovani e non si abbandonano a un pessimismo che non li compete”.
Marco

“Sono una neomamma, classe 1989, e ho un bel nodo allo stomaco. Questa nuova esperienza della genitorialità ha risvegliato paure che non sapevo nemmeno di avere. Non conto più le volte che ho trattenuto le lacrime vedendo scene di migranti in mare o ammassati ai confini, o di ospedali e campi profughi bombardati. Mi fa male il cuore, specie con questa nuova e più profonda sensibilità data dall’essere diventata madre. Mi metto nei panni di quelle persone e sto malissimo. Ma non riesco a parlarne. Non riesco a manifestare questa mia intima sofferenza. Neanche a chi ho più vicino. Perché penso di avere un ruolo che non me lo permette. Se mollo il colpo, se mi mostro sopraffatta da quello che è il mondo oggi, allora è finita. Devo guardare in faccia la realtà di tutti i giorni e provare ad andare avanti e cambiare le cose. Voglio sorridere e dare speranza anche a mio figlio”.
Ma. T.

“Sono del 1990. Ognuno ha la sua storia e le sue vicende, non posso parlare a nome di una intera generazione, ma sono diventato maggiorenne esattamente quando è arrivata la grande crisi. Dovevo iscrivermi all’università ed era il periodo dei licenziamenti, dei tagli. Tutto il mondo, e pure un ministro, diceva: siate meno choosy. I miei stessi genitori, che pure erano stati politicizzati, erano diventati disillusi e mi dicevano di studiare e non perder tempo in altri affari. Oggi la mia generazione mi sembra piuttosto cinica, imperniata sul black humor e su una rassegnazione che si tiene dentro. I giovani son sempre meno e le loro idee hanno sempre minore peso, perciò di cosa dovremmo preoccuparci?”
Marco

“Alla tenera età di 35 anni, travolto da un accumulo di vicende personali, mi ritrovo solo e clinicamente depresso, lavorativamente ed emotivamente precario. Fatta la dovuta introspezione, e tutte le tare del caso, metto in fila alcune di quelle che, in un’altra epoca, sarebbero state le ‘paure prime’, e rispetto alle quali nessun anziano – io credo – avrebbe granché da dire: a) studiamo e quasi nessun lavoro corrisponde effettivamente a quello per cui abbiamo studiato; b) lavoriamo, se lavoriamo, e i lavori sono pagati così poco, sono così precari, che riconoscerli come tali, e su quelli progettare qualcosa, è così raro da essere di fatto impossibile; c) se abbiamo un compagno o una compagna, e la condizione lavorativa è adeguata, avere dei figli (o talvolta persino la medesima relazione) implica una maturità emotiva assente nella gran parte dei genitori, sicché non abbiamo grandi esempi da seguire. Di qui, a cascata: le sindromi dell’impostore, i workaholics, le mamme-elicottero e rimbecillimenti vari di chi ha l’ansia – o si sente offeso – persino del rumore del frigorifero o di un pronome pronunciato male”
“I vostri genitori vi hanno insegnato che studiando si sarebbe lavorato di meno, e guadagnato di più. Di lì, sarebbe più o meno automaticamente disceso tutto il resto, dalla famiglia, alla serenità personale, alla lucidità per occuparsi del resto: voi avete seguito l’esempio, i patti sociali sono stati rispettati, e a quel punto avete avuto modo di occuparvi del resto. Ci avete insegnato lo stesso, ma i patti sociali sono cambiati. Quindi dovremmo avere, in assenza delle medesime condizioni materiali, anche una coscienza più alta (di classe, politica, eccetera), altrimenti la signora pensionata si scandalizza che non abbiamo ‘le ansie giuste’. Signora, con tutto il rispetto, primum edere, deinde philosophari.”
Valerio

“Sono uno studente di 22 anni e contrariamente a quanto da lei ipotizzato non mi sento per nulla scafato davanti a questo mondo. Lungi da me parlare per un’intera generazione, quello che posso portare è solamente il mio punto di vista: il mio nodo alla bocca dello stomaco si stringe spesso, con contrazioni improvvise e dolorose, scatenate dall’inevitabilità che sembra trasparire da ogni storia che abbiamo la fortuna (e il dovere) di leggere sui giornali. Come possono non scoraggiarci i racconti di ciò che accade in Ucraina, in Palestina, in Libano, in Sudan, in Libia, in Tunisia, nel “nostro” Mar Mediterraneo, e in tanti altri luoghi vicini e lontani, forse più nascosti ma non meno crudeli? E se a tutto ciò aggiungiamo la crisi climatica, che cosa ci resta in cui sperare?”
“Per i giovani questa disperazione è inasprita dalla solitudine, dalla mancanza di una comunità di cui sentirsi parte, con cui parlare e confrontarsi e rimboccarsi le maniche insieme per provare a fare qualcosa. Invece, sentendosi soli davanti all‘enormità della sofferenza di cui siamo testimoni, in tanti scelgono di spegnere l’empatia e di rivolgere lo sguardo al proprio piccolo orticello, per coltivare sogni e soddisfazioni strettamente personali. L’unica cura che credo possibile per sconfiggere la paura è attivarsi: tenersi informati, parlare con gli amici di quello che succede anche se è scomodo (anche se è triste), scendere pacificamente in piazza a difendere chi ha la voce troppo stanca per farlo. Solo così, credo, possiamo continuare a vivere a testa alta, e chissà che qualche piccola vittoria non si riesca ad ottenere… la storia di Patrick Zaki fa ben sperare”.
Tommaso

“Sono dell’89, quindi millennial. Il tema dell’ansia, dell’eco-ansia, dell’ansia per qualsiasi cosa, è IL TEMA cardine della nostra generazione: quella nata in un agio immaginato e poi schiantata contro una realtà non così accogliente. Sono agli sgoccioli dell’età fertile (almeno così mi dicono dalla regia), in ascolto perenne, cintura nera di alternative. Amo le vie traverse e rinnego quelle battute: che ci hanno insegnato essere le migliori, ma io dubito. Questa facoltà all’analisi laterale mi sta salvando dalle mie stesse ansie. Se da una parte ci penso spacciati e ingenui, in ritardo abissale rispetto alle politiche ambientali, con lo spauracchio sempre ben visibile di neri battaglioni repressivi, dall’altra la mia immaginazione mi permette di cogliere vie di salvezza nel mucchio di brutte notizie. So per esperienza che la paura immobilizza, ma può anche salvare. Se facessimo spallucce, non servirebbe a niente. Agonizzare in preda a incubi distopici, nemmeno. Mentre il cielo si oscura, qualcuno lavora operosamente e senza tregua per trovare soluzioni ed energie alternative (sempre lì torniamo). Mentre le guerre si avvicinano e gli equilibri mondiali scricchiolano, la democrazia continua a brillare lì e là, deludendo certo, ma anche resistendo. L’ansia, i mezzi non adeguati, i desideri nuovi, si sono già concretizzati in scelte diverse dalle precedenti generazioni: si fanno meno figli, ci si sposa meno, si va meno in Chiesa. Vero però che le scelte sono più ragionate, i legami più sentiti, le vie alternative celebrate e richieste a gran voce. Siamo frammentati, ma tenaci. Siamo esperti di vie secondarie e di nuovi modi di pensare al futuro. Non credo di possedere la speranza di sopravvivere, ma di resistere, sì. In alto i cuori”.
Francesca

*****

Decisamente notevole il “nome leghista” di questa settimana. Ce lo segnala Stefania: si tratta del consigliere provinciale di Varese, Leslie Mulas. Mi preme ricordare agli interessati (compreso, eventualmente, l’amico Leslie) che questa nostra ricognizione tra i ranghi degli esponenti del Carroccio non ha alcuna intenzione discriminatoria, men che meno diffamatoria. Lungi da noi ogni intenzione di name shaming. Tutto avviene in spirito di allegria. Solo che ci colpisce constatare (ormai da parecchi anni) che il più orgogliosamente “local” dei movimenti ha un vero e proprio record di militanti dai nomi molto globalizzati. Pochissimi i Giuseppe e Maria, pullulano i Manfred, Denis, Jordan. Benvenuto Leslie.

Le Zanzare vantano, questa settimana, una segnalazione molto autorevole (il Peraltro direttore in persona!), che sul sito della Gazzetta dello Sport, a noi sempre cara, ha individuato un “evergreen” della gaffe giornalistica:

ZAPATA SCURO IN VOLTO

Per chi non lo sapesse, Zapata è il notevole centravanti del Torino, di origine africana, gravemente infortunato nell’ultimo turno di campionato. Tra i precedenti, che immagino numerosi, un ricordo personale: una didascalia dell’Unità degli anni Sessanta, in prima pagina. Sovrastata da una fotografia del leader congolese Patrice Lumumba davanti alla sede delle Nazioni Unite.

LUMUMBA SCURO IN VOLTO ESCE DAL PALAZZO DI VETRO

Eliana segnala un titolo abbastanza equivoco del Secolo XIX:

TRIBUNALE DEI MINORI DI GENOVA: SOSPESI DUE AGENTI DI POLIZIA LOCALE
CARTELLINO TIMBRATO ANCHE DA ASSENTI

Giova sapere che i due vigili non erano minorenni. Erano adulti, ma in servizio al Tribunale dei Minori.

*****

Non mi resta che dirvi che qui, nel selvaggio Nord Ovest, è arrivato un autunno molto autunnale. Umido, nuvoloso, nebbioso (“la nebbia agli irti colli/piovigginando sale”). Dopo lunghi anni siccitosi, molti funghi, anche di misteriosa natura. Clitocybe o Tricholoma? E se fosse un Entoloma? Le persone normali, in genere, non si fanno questo tipo di domande. Ma io sì, e confido che voi sappiate sorvolare su questa mia debolezza. “Mentre il mondo cade a pezzi” (come cantava Marco Mengoni a Sanremo 2013) io esamino un fungo anche per un quarto d’ora, pur sapendo che non saprò mai classificarlo in modo attendibile. È un modo, anche questo, di non darsi per vinti. In alto i cuori!