In una mano il forcone, nell’altra il mondo
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In una mano il forcone, nell’altra il mondo
Michele Serra
Martedì 23 luglio 2024

In una mano il forcone, nell’altra il mondo

«Borbottare è lecito, criticare è utile, solo a patto che ci rendiamo conto della sensazionale epoca nella quale noi, non altri, abbiamo messo piede per primi. Abbiamo acceso un fuoco di impensabile fascino, maneggevolezza, comodità, sapienza (volendo). Godiamocelo. Almeno ogni tanto, felicitiamoci con noi stessi»

(Pierre Crom/Getty Images)
(Pierre Crom/Getty Images)

Giorni fa ho fatto un piccolo fuoco, bruciando vecchie ramaglie secche. Mezz’ora appena (sempre in presenza: sono un fuochista esperto e prudente) e pochi centimetri di cenere hanno preso il posto del mucchietto disordinato che ingombrava l’aia.
Sorvegliare un fuoco è attività ipnotica come poche altre. Si fissano le fiamme, il fumo, le braci, e la mente vaga. A un certo punto, mentre con il forcone sistemavo la piccola pira, si è accesa, tra le scintille, anche una domanda. In quale momento della sua lenta evoluzione – lenta in partenza, poi fin troppo veloce – l’uomo ha imparato a controllare il fuoco? Ad accenderlo e a spegnerlo secondo i suoi bisogni, piuttosto che precipitarsi sui resti di un incendio naturale in cerca di braci in mezzo alle ceneri?

Ho appoggiato il forcone e ho tirato fuori di tasca il cellulare. In pochi secondi ho avuto una risposta attendibile, e sorprendente. Le prime evidenze di domesticazione del fuoco da parte dello scimmione molto smart dal quale discendiamo sono databili, molto all’ingrosso, a un periodo compreso tra i due milioni e il milione e mezzo di anni fa. Domesticazione del fuoco vuol dire: raccogliere qualche ramo ardente o qualche brace e portarselo davanti alla caverna (alla tana?) sperando di riuscire ad accendere un focherello per scaldarsi. O per arrostire le prede: una delle tante mirabolanti scoperte dello zio George (se non avete letto Il più grande uomo scimmia del Pleistocene di Roy Lewis, per carità fatelo subito) fu che il cibo cotto poteva essere masticato in un tempo molto più breve. Rimaneva più tempo per fare altre cose.

Ma attenzione, domesticazione del fuoco non significa padronanza completa del fuoco. Le prove di un effettivo e definitivo controllo del fuoco da parte di Homo sapiens sono recentissime: 125mila anni fa. C’è voluto un bel po’ di tempo, ai nostri antenati, per diventare padroni del fuoco, smettendo di inseguirlo disperatamente nelle foreste bruciate o sui pendii dei vulcani. Tenendolo in pugno. Imparando come crearlo, come estinguerlo.

Perché vi racconto questa storiella? Perché appena ho rimesso il cellulare in tasca ho pensato che appena una ventina di anni fa, dunque non nel Pleistocene, per avere una risposta alla mia domanda avrei dovuto tornare a casa e accendere il computer, avendone uno; e fino a una quarantina di anni fa nemmeno quello. Avrei dovuto individuare, a casa o nella biblioteca più vicina, un grosso librone, tirarlo giù da uno scaffale, sperare che fosse il librone giusto, sfogliarlo con una certa cautela, essendo io stesso il mio motore di ricerca e dunque spettando a me l’onore e l’onere di conoscere e applicare l’ordine alfabetico. E senza alcuna certezza che il dato, una volta individuato, fosse aggiornato, essendo i grossi libroni, quasi sempre, scritti e pubblicati anche molti anni prima della consultazione. Oppure avrei dovuto telefonare all’amico paleontologo, nel caso ne avessi uno. Per domandargli: a proposito della domesticazione del fuoco, sai se ci sono novità, rispetto a quanto dice la mia enciclopedia di casa?

Torniamo a me davanti al mio fuoco. Allargando appena il campo, dai miei pensieri alla mia figura intera, in quel momento e in quel luogo ero abbastanza simile al mio progenitore troglodita – sebbene più vecchio: nella notte dei tempi si moriva quasi sempre prima dei cinquanta. In condizioni igieniche quasi altrettanto precarie (in estate, trafficando in campagna, capita) e probabilmente meno elegante di lui, gli shorts da bancarella e le magliette Ovs non possono competere con le pelli di pecora o di bisonte. Ma in una mano avevo il forcone, nell’altra mano avevo IL MONDO.

Ecco: mi ha preso una piccola e insolita euforia. Una specie di contentezza grata, o di contenta gratitudine. Ho pensato, per dirla scientificamente, che abbiamo avuto un gran sedere, noi contemporanei. Quasi senza rendercene conto abbiamo vissuto la più grande rivoluzione della storia umana (grande almeno quanto la domesticazione del fuoco), e invece di borbottare, come io faccio sempre, contro le degenerazioni del digitale, dovremmo prima di tutto ringraziarlo, il digitale, e comporre un reverente cerchio attorno a lui, come zio George e il suo branco fecero attorno al fuoco.

Noi siamo gli zio George del presente, impugniamo un attrezzo nuovo e stupefacente, che permette agli ignoranti di sapere, ai lontani di esserci, ai migranti di parlare con chi è rimasto a casa dall’altra parte del mondo, e vederlo sorridere. Ma rispetto a zio George siamo troppo scafati, troppo viziati, troppo poco ingenui per meravigliarci dei passi avanti. Io me la prendo spesso (e ho ottime ragioni per farlo, sia chiaro) contro la tecnocrazia fredda e grigia, contro la dittatura degli ingegneri digitali, contro i plutocrati spocchiosi di Silicon Valley, contro la mostruosa moltiplicazione di odio e stupidità per via dei social; credo che senza una cornice umanistica, come dice Paolo Giordano, la scienza serva solamente a se stessa, non alla società. In un mio romanzo ho anche chiamato “egòfono” il cellulare, per dire che quel piccolo schermo tascabile può valere quanto la fonte dove affogò Narciso. Ma santo cielo, borbottare è lecito, criticare è utile, solo a patto che ci rendiamo conto della sensazionale epoca nella quale noi, non altri, abbiamo messo piede per primi. Abbiamo acceso un fuoco di impensabile fascino, maneggevolezza, comodità, sapienza (volendo). Godiamocelo. Almeno ogni tanto, felicitiamoci con noi stessi. Poteva andarci molto peggio.

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Arriva un whatsapp del mio amico Salvatore. “Conoscendo la tua sensibilità sui nomi dei leghisti, ti segnalo i nomi dei due veneziani collaboratori di Brugnaro indagati. Morris Ceron e Derek Donadini. Ma per essere leghisti bisogna avere genitori appassionati di serie tivù americane e ignari dei vecchi nomi veneti? Proprio loro tanto attaccati alla loro storia? Che so, un Alvise o un Veniero?”.
Anche due lettori di Repubblica mi hanno scritto per la stessa identica ragione. Perché proprio a me? Perché sui nomi “esotici” dei leghisti, effettivamente, negli ultimi vent’anni ho lavorato tanto, con passione e profitto. La mia rubrica di satira sull’Espresso (comunque ispirata dalla cronaca) pullulava di leghisti, alcuni veri, molti immaginari, dal nome, diciamo così, non da cristiano. Detto in senso letterale: nomi che non si trovano nel calendario.

Capitò anche nelle famiglie socialiste, anarchiche e anticlericali, circa un secolo fa: andava bene qualunque nome, dal greco classico al futurista, purché non fosse quello di un santo. Ma in quel caso era una presa di posizione politica, per il puro gusto di disgustare i preti. Dubito, invece, che si nasca Morris o Derek o Maverick per ragioni politiche. Sono i palinsesti, i rotocalchi, i siti dedicati alle celebrities le sole fonti verosimili.

No, vi prego, non accusatemi di name shaming. So bene che nessuno è responsabile del proprio nome; e per giunta si ha pieno diritto di chiamarsi Derek, pur essendo veneti, essendone perfettamente felici, e senza che nessuno venga a romperti le scatole. Si tratta solo di un gioco satirico. Stupido, se volete: ma irresistibile. Leggendo le cronache, e scoprendo che nella Lega gli Alan, i Robert, i Morris e i Derek sono un esercito, come potevo esimermi dal costruirci sopra una lunga saga? Dopotutto, sono anche l’autore della battuta di Alex Drastico: “Modestamente ho tre figli, Tomas, Nicolas e Giuseppes. Per coerenza”.

Da una sommaria ricognizione nei miei non impeccabili archivi, riporto questa piccola serie di “nomi leghisti” di mia invenzione. Specificando che un paio sono veri e gli altri fiction, ma vi sfido a distinguerli…
Gabriel Nefasti, Giordan Pantaloni, Alan Fabbri, Mark Buozzi, Anton Fogacci, Gaspar Pitoni, Laren Manfredi, Manuel Scapezzato, don Gabriel (consigliere spirituale di Salvini), Oleg Papozzi, Robert Zabattoni, Gilbert Giubertoni, Faster Sbarazzati. Oggi posso aggiungere: Morris Ceron e Derek Donadini. Qui di seguito, per celebrare degnamente un argomento così rilevante, riscaldo una mia ‘satira preventiva’ del 2018.

“Nella Lega ferve il dibattito sulla strategia da seguire per conquistare, finalmente, il potere assoluto. L’ipotesi di una Marcia su Roma in piena regola, con tanto di camionette piene di squadristi, non piace ai più stretti collaboratori di Salvini (Manuel Brambilla, Samuel Galbusera e Gaston Scarabozzi). La considerano troppo tradizionale, non in linea con l’impeto innovativo del sovranismo. Una Marcia sul Papeete, anche se in bassa stagione, avrebbe un valore simbolico molto maggiore. Le cubiste della Riviera stanno già preparando un originalissimo striscione con la scritta “me ne frego”, nera su sfondo verde, realizzato intrecciando le cannucce del mojito.
Il Parlamento – A parte il potere legislativo, che passerà direttamente a Salvini, il Parlamento conserverà intatte tutte le sue prerogative. Potrà decidere, ad esempio, l’orario di apertura e quello di chiusura; potrà ospitare scolaresche; potrà scegliere il taglio delle uniformi dei commessi e degli uscieri; potrà emettere, ogni anno, un Calendario illustrato con le immagini più suggestive dell’aula.
Il Quirinale – Salvini, in segno di rispetto per Mattarella, non ha alcuna intenzione di sovvertire la prassi istituzionale e di escludere il Colle dalla formazione del nuovo governo. Salirà dunque al Colle, proprio come i suoi predecessori, per informare Mattarella dell’avvenuta formazione di un monocolore leghista, nonché comunicargli il suo nuovo incarico: pretore a Ponza.
Spedizioni punitive – I radical-chic, i professoroni, i costituzionalisti, gli oppositori, i finocchi, i comunisti, i comunisti finocchi, le donne innamorate di un comunista, insomma tutta la feccia che si oppone al Capitano, riceverà a domicilio la visita di squadre speciali formate da valorosi giovani che avranno il compito di somministrare ai prescelti non già l’olio di ricino, costoso e ormai introvabile, ma la genuina miscela popolare prediletta dal Capitano: un frullato di Nutella, ketchup e strutto che può minare stomaco e intestino nel giro di pochi minuti. Verranno stanati e distrutti tutti i depositi di cibo costoso, raffinato e degenerato, soprattutto bio, simbolo dell’arroganza e dello snobismo dei nemici del popolo. Adottata anche nelle scuole materne la dieta Trump: un cheeseburger a quattro piani (con montacarichi interno per favorire il transito delle salse), patatine fritte, una birretta e vaffanculo a chi ci vuole male.
Nuove cerimonie – Ogni domenica, ovunque si trovi, Salvini bacerà il rosario in eurovisione. Un troupe della Rai dedicata lo seguirà nelle principali spiagge, movide, curve di stadio per riprendere il momento sacro, segno dell’unione indissolubile tra Dio, Nazione e Saliva. Patrono d’Italia, al posto di San Francesco, protocomunista, amico del Sultano nonché figlio di papà, sarà nominato San Rudy, protettore dei tatuati. È un santo minore, di recentissima istituzione, però già molto popolare nelle palestre e nelle saune di tutta Italia.
Il Papa – La destituzione del Papa appare un atto dovuto. Il vaticanista della Lega, Albert Cartolazzi, considera incompatibile con l’Era Leghista un papa ecumenico, pro-migranti e addirittura credente. Verrà dunque insediato al posto di Bergoglio un nuovo pontefice, affidabile e all’antica. I nomi che circolano con insistenza sono quelli di padre Popov, confidente di Putin, e don Pizarro, cappellano militare appena rientrato dalla Legione Straniera. Ma il primo è un pope ortodosso, il secondo ha tre figli, una cicatrice da baionetta sulla guancia destra e un processo in corso per traffico internazionale di armi, e dunque è probabile che alla fine ci si orienti su un italiano, più affidabile e più rappresentativo in senso sovranista. Si punta su Giordan Manovali, un elettrauto di Gallarate, leghista della prima ora. Non è prete e dovrà tagliarsi il codino, ma ha tutti gli altri requisiti richiesti dalla Lega: è alla mano, ogni tanto va in Chiesa, bestemmia raramente, crede nella famiglia al punto di averne due, e si commuove quando Salvini bacia il rosario. Prenderà il nome di Francesc II oppure Giovann XXIV”.

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In ogni modo, se nelle mie funzioni satiriche vi sembro puerile, posso ben dire di non essere il solo. Per le Zanzare Mostruose, questa settimana, ho ricevuto un mare di segnalazioni per questo titolo dell’Ansa:

KAGAME IN TESTA COL 99,15% DEI VOTI ALLE PRESIDENZIALI IN RUANDA

Il peraltro direttore mi fa notare che basterebbe accentare con perizia i cognomi africani, e si eviterebbe di sganasciarsi per così poco. Ha ragione. Non è degno di noi. Però è importante anche stare allegri.

Serena, da UdineToday, segnala un titolo che sembra indicare nuove frontiere, fin qui imprevedibili, nelle attività investigative:

PARLA NEL SONNO IN FRIULANO,
SGOMINATO TRAFFICO INTERNAZIONALE DI DROGA

Nuove frontiere anche per la medicina preventiva, ormai in grado di prevedere, giorno per giorno, le condizioni cardiache degli utenti. Dall’Unione Sarda, segnalato da Mario:

ANGIOGRAFIA INTERVENTISTICA, AL SAN FRANCESCO DI NUORO NESSUNA EMERGENZA FINO AL 5 AGOSTO

Infine, per la sotto-rubrica “il titolo misterioso”, un titolo semplicemente insolubile che Lucio ha trovato su Elbareport:

IL POLPO ED IN SUPERYACHT CON OSPEDALE A BORDO

Citando la Simona Marchini di parecchi anni fa: che avranno voluto dire?

Siamo ai saluti. Il caldo, qui nel Nord Ovest, finalmente ha mollato. Si suda ma non si boccheggia più. Si va al fiume a fare il bagno, quest’anno l’acqua è tanta, fresca e vivacissima. La Nina (golden retriever) sembra una foca, sta a mollo per ore e insegue, inutilmente, i cavedani. Le zucchine continuano imperterrite a produrre zucchine: a tonnellate. Ancora indietro i pomodori. Benino peperoni e melanzane. Tutto sotto controllo, insomma. Come sempre, in alto i cuori.