Il popolo della rete
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Il popolo della rete
Michele Serra
Martedì 13 agosto 2024

Il popolo della rete

«Come la vanga, il rastrello, la lima da unghie, il colapasta (elenco allungabile a piacere), il retino da pesca è uno di quegli oggetti che non sono segno specifico di alcuna epoca, non hanno età, e ci danno l’illusione che almeno qualche traguardo definitivo l’umanità l’abbia raggiunto»

(Joe Raedle/Getty Images)
(Joe Raedle/Getty Images)

Ogni tanto il tempo si arrende. Smette finalmente di passare. Guardo mio nipote sulla spiaggia con il retino da pesca in mano, a caccia di granchi. Per qualche minuto il passato vive e scintilla, lascia piccole orme sulla sabbia e sono le orme di milioni di bambini, come se niente fosse mai più accaduto al mondo (nessuno fosse morto, niente perduto, tutto fosse uguale a sempre).

Il bambino col retino è una figura balneare senza tempo, è identico a me sessant’anni fa, ai miei figli trent’anni fa. Era in auge quando il retino non aveva concorrenza digitale, lo è anche oggi che i bambini, sotto l’ombrellone, hanno a disposizione il catalogo mondiale dei cartoon. Tutto, intorno, è cambiato in modo così profondo e definitivo che non trovo le parole per dirlo. Anche i bambini. Anche i granchi, che come tutte le bestie godono finalmente di una considerazione un tempo impensabile, così che viene naturale dire al bambino col retino una cosa che mai nessuno, sessant’anni fa, avrebbe pensato di dirmi: mi raccomando, se peschi un granchio poi rimettilo in mare, che bisogna rispettare la natura (fa eccezione il granchio blu, dipinto di blu, chagalliano come la canzone di Modugno-Migliacci, che se lo prendi devi subito consegnarlo a uno chef che ci fa la mousse, o chiedere istruzioni all’apposito “commissario al granchio blu” istituito dal governo).

Ma il retino no, non è cambiato. O meglio: probabilmente è made in China, e il verde acido (così di moda) non era in dotazione ai retini bianchi o bigi della mia infanzia. Che se non ricordo male ancora non erano fatti di plastica, ma di filato (canapa? lino? cotone?). Ma l’oggetto è identico, ed esercita sui bambini la stessa attrazione irresistibile – erano giorni che mio nipote voleva un retino da pesca.

Come la vanga, il rastrello, la lima da unghie, il colapasta (elenco allungabile a piacere), il retino da pesca è uno di quegli oggetti che non sono segno specifico di alcuna epoca, non hanno età, e ci danno l’illusione che almeno qualche traguardo definitivo l’umanità l’abbia raggiunto. Nel turbine del tempo e del famoso progresso, con le ere tecnologiche che si spodestano una dopo l’altra nel giro di pochi anni, l’idea che esista almeno qualcosa che non è migliorabile, che va bene così, ce la facciamo bastare, è molto riposante. Il progresso è eccitante, ma abbastanza stancante. Riuscire a fregarlo, almeno ogni tanto, è una soddisfazione.

Il retino da farfalle è decisamente più grande e la rete è più leggera e morbida, perché le farfalle sono delicate e se le acchiappi non bisogna rovinarle. Ne ho avuto uno, un milione di anni fa, ma non credo di avere mai preso una farfalla (e le farfalle, poi, bisognerà ributtarle in cielo?). Chissà dove è finito.

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È balneare, a suo modo, anche l’argomento della mail di Stefano. Tocca un argomento che sembra fatto apposta per Ok boomer! (o tempora! o mores!) ma curiosamente, fin qui, non avevo mai trattato.

“È sotto gli occhi di tutti (al mare ancora di più) la pacifica invasione dei tatuaggi. Ogni tanto provo a cercare un minimo comune denominatore tra i tatuati, un po’ come succede con gli utenti dei mezzi di trasporto: ci sono quelli delle Harley Davidson, gli alfisti, i fan della Vespa ecc… : se stai attento, osservandoli, riesci a individuare l’appartenenza a un gruppo piuttosto che a un altro. Ma con i tatuaggi è diventato più difficile rispetto a molti anni fa: prima erano solo delle persone un po’ anticonformiste, di solito con un titolo di studio modesto, un po’ insofferenti verso le ‘regole’. Ora non vale più questa considerazione: l’anestesista che mi ha addormentato prima di un’operazione aveva molti tatuaggi, anche il cardiologo che mi ha operato aveva un piccolo tatuaggio…In quei momenti speri che le tue vecchie considerazioni siano passate di moda”.
Stefano Franconi

La mia decrepita formazione, in fatto di tatuaggi, risale a una lettura giovanile: Ornamento e delitto dell’architetto/esteta austriaco Adolf Loos. Già il titolo di quel breve, caustico saggio dice tutto: secondo Loos esiste un rapporto diretto tra l’ornamento e la barbarie, o meglio il primitivismo. Ci si civilizza allontanandosi dal monile, dall’orpello, dal cappello piumato, dal tatuaggio. Il razionalismo borghese, semplice e freddo, elegante e mondato di ogni possibile ghirigoro, era l’estetica di riferimento di Loos. Per dirla come Stefano, credo davvero che siano “vecchie considerazioni passate di moda” – anche se hanno un certo fascino.

Il pregiudizio anti-tatuaggio mi ha condizionato per anni, ogni volta che vedevo una persona tatuata sospettavo che fosse un ergastolano appena evaso. Ovviamente non lo era (magari era l’anestesista di Stefano…), e sempre ovviamente non è detto che imbattersi in un ergastolano sia un’esperienza così negativa. Poi i tatuaggi (gentili, quasi minimalisti) dei miei figli mi hanno fatto definitivamente capire che l’estetica collettiva stava cambiando, e molto, e non era davvero il caso di conservare il mio stigma (borghese) anti-tattoo. Mi riservo però, nei confronti del tatuaggio, facoltà critica, come di fronte all’opera d’arte. Alcuni mi sembrano belli, molti orribili. Quelli iper-figurativi, che affrescano il corpo come se fosse la Cappella Sistina (figure carnose incise sopra figure carnose: non è un poco ridondante?) tendono a respingermi. Invece certi segni, certi alfabeti misteriosi, certi guizzi stilizzati, mi sembrano molto belli. Infine: un breve capitolo degli Sdraiati è dedicato all’incontro con un tatuatore. Che ne esce benissimo, direi.

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Dire o non dire a tipi come Trump (per citare solo il più celebre: ma ce ne sono a bizzeffe, in tutto il mondo, piuttosto concentrati a destra) che sono “weird”, ovvero strambi, come il New York Times raccomanda a Kamala Harris di non fare? La scorsa settimana ho sciolto la riserva, almeno personalmente: sì, bisogna dirglielo, che sono ridicolmente strambi, e se la prendono male pazienza. Mi avete scritto in parecchi. Apro con la mail di M (è solo un omonimo, ne sono certo, del protagonista dei libri di Antonio Scurati) che butta sul tavolo della discussione un argomento che, anche per ragioni autobiografiche, mi tocca parecchio: sostiene M che l’alternativa alla presa per i fondelli è il moralismo. E come dargli torto?

“Ho quarant’anni e la tua ultima newsletter mi ha fatto ripensare a una conversazione con dei colleghi. Lavoro in università, in un ambiente che potremmo definire progressista, acculturato, relativamente benestante, di sinistra, anzi di sinistra radicale. I miei colleghi, più giovani di me, commentavano con scandalo le parole non so se di Vannacci o di qualcuno come lui. E ho pensato che qualcosa non andava. Ho pensato che vent’anni fa eravamo noi quelli che pigliavano per il culo, che dileggiavano i bacchettoni bigotti e moralisti ‘di destra’. Più loro si offendevano, più si scandalizzavano, più ci sentivamo forti. Ci sentivamo quelli che urlavano, ridendo, che il re è nudo. Penso a San Precario, alle notizie inventate diffuse su internet per perculare i media mainstream servi del potere. Definizione che oggi mi fa un po’ tenerezza, ma che ai tempi usavamo senza grande ironia”.
“Forse è solo che avevo vent’anni. Però guardando oggi alla parte politica a cui penso di appartenere mi pare che i moralisti bacchettoni siamo noi. Forse pure un po’ bigotti. Che le nostre principali armi sono di difesa, cordoni intorno a idee, concetti e parole da difendere. E la difesa passa mostrandosi offesi, oltraggiati. E sono quelli dall’altra parte che sanno usare l’attacco a volte sberciato, a volte bruciante. Lo so, forse è più facile fare una battuta ‘politicamente scorretta’ sugli omosessuali, sui migranti, sui ‘woke’. Ma mi chiedo se non possiamo riappropriarci di ‘sta cosa. A me il ruolo del pretino col dito alzato sta stretto. Siamo in difesa, non in attacco. Penso che abbiamo bisogno di ridere, tremendamente bisogno. Ridere di noi e soprattutto degli altri. Di una risata che sia contagiosa e liberatoria. E ridere degli altri facendo ridere pure loro è difficile, ma bisogna provarci”.
M

“Se anche noi cominciassimo a dare del “barlafus” (ndr: dileggiativo milanese, sta per persona tanto ingombrante quanto inutile) a chi fa letture indecenti della realtà o promesse impossibili da mantenere, anziché cercare di entrare nel merito delle questioni, forse riusciremmo meglio ad inquadrarli per quello che sono”.
Luca Colleoni

“La posizione di Friedman sull’uso dell’aggettivo ‘weird’ rispecchia perfettamente il problema del doppio standard a cui sono tenuti, per una ragione che mi risulta inspiegabile, i politici di sinistra. Al di là dell’uso o meno dell’ironia, infatti, mi sembra che gli esponenti dei partiti di centro-destra e destra estrema possano scagliarsi in anatemi e insulti della peggior specie senza rischiare di vedersi puniti nei sondaggi, e anzi galvanizzando i propri elettori; a sinistra, al contrario, qualsiasi violazione dell’etichetta e delle regole formali (e anche un po’ datate) del confronto politico porta inevitabilmente a un diluvio di critiche e distinguo e scuse repentine. Le uniche motivazioni che posso ipotizzare riportano alle differenze nei bacini elettorali di riferimento, che rende la sinistra più attenta alla probità e all’impeccabilità della condotta e al rispetto dei diritti altrui, condizione forse giustificata da un diverso livello culturale, più elevato a sinistra (ma mi sorge il dubbio di essere classista io, a pensarla così); o da un maggiore attaccamento alle formalità; o ancora da un senso di ingiustificata superiorità morale. Mi paiono, tuttavia, spiegazioni parziali, non completamente soddisfacenti, che non consentono di risolvere il (mio) problema: ovvero l’irritazione al pensiero che i politici di sinistra si trovino in una condizione di costante vulnerabilità, mentre una grossa parte dell’elettorato vive beatamente ignorando questo doppio standard e giudicando in maniera opposta gli stessi atteggiamenti a seconda dell’appartenenza politica di chi li attua”.
Andrea, 35 anni

“Come si fa a ironizzare sulle idiozie che scrivono sui social, su qualunque argomento, gli energumeni della destra? La loro ignoranza è enciclopedica: non sanno una beneamata m****ia di ogni branca dello scibile umano, probabilmente se ne vantano anche, figuriamoci se capiscono una battuta ironica. Non voglio avere nessuna occasione di confronto per prevenire la tentazione di ricoprirli di insulti (quelli sì che sono in grado di comprenderli) e abbassarmi al loro infimo livello”
Fabrizio

“Da anni mi chiedo perché devo sopportare l’arroganza dei no-vax, no-allunaggio, no-scienza, si-limonealmattino che fa bene alla salute (invece fa solo vomitare). E, di solito, insieme a questi no-adognievidenzascientifica, ci sono gli insulti, le trollate verso tutti coloro che cercano di fare un ragionamento pacato.
Quando ho visto la risposta dei dems a Trump e cricca, mi sono detta: finalmente! Perché non è vero che soprassedere sia sempre la scelta giusta, è sacrosanto rispondere non con gli stessi toni ma con una parola sola che disarma: weird, strano. La campagna di Harris sta cambiando, at last, le regole, sta dicendo che si può trovare il modo di rispondere con efficacia senza farsi trascinare al livello becero degli avversari, che non è sempre necessario prenderle. E che alle volte il silenzio, il politically correct, sono più spocchiosi di un “weird”.
Monica

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La guerra in Ucraina è l’involontaria cornice delle due prime “zanzare” della settimana. La prima è un refuso, sublime come spesso capita di essere ai refusi. Lo segnala Giorgio da Repubblica.it:

GOVERNATORE RUSSO: “DONI SULLA
REGIONE DI LIPECK, NOVE FERITI”

Il drone, anche quando perde la erre, non perdona. Nel secondo titolo, segnalato da Albino (dalla Stampa online), una virgola fuori posto basta a creare un mostro laddove non te lo aspetti:

BIMBO DI DODICI MESI FERITO A KHARKIV
IN UN ATTACCO UNICEF, GLI ATTACCHI DEVONO FINIRE

La locandina è uno degli oggetti giornalistici più amati e più segnalati dai lettori. L’incolpevole redattore spesso non si rende conto che la promiscuità tra titoli (in genere, al massimo due) può generare equivoci. Questa, del Secolo XIX, è segnalata da Paolo:

ORGE E SACRIFICI, SATANA E SESSO NEI CIMITERI
FERRAGOSTO, ECCO DOVE DIVERTIRSI

Bene. Mi resta da dirvi, di importante, che se riuscite a svalicare il Ferragosto senza danni da ingorgo, o da folla soverchiante (occhio alle orge nei cimiteri, con tutte quelle lapidi sono scomodissime), tutto il resto è in discesa. Il caldo, a questo punto, ha veramente scocciato, ma vi basterà, per sopportarne la coda fiammeggiante, pensare a quando le primissime brume arriveranno ad annunciare la fine dell’estate. Non manca molto, coraggio. Siate tatuati oppure di pelle intonsa, saggi oppure weird, vi saluto tutti allo stesso modo, il solito: in alto i cuori.