Il passato fino a un certo punto
Non è vero che non si può prendere la Storia per le corna, costringerla con il muso a terra come un toro domato, e dire: adesso si fa come dico io. Questa settimana voglio celebrare insieme a voi una rivoluzione vittoriosa – raro evento – sebbene a condurla sia stata una sola persona e in un solo luogo: una vecchia casa. È una storia piccola ma è una storia vera, e dal profondo significato. Un sussulto di energia – pura energia, fisica e psichica – che ribalta un percorso di decadenza. Che inverte la rotta.
La casa è in una valle alpina, molto isolata, a 1600 metri d’altitudine. È stata costruita nel 1902 da una facoltosa signora francese, portando tutti i materiali in quota a dorso di mulo. Ha resistito a due guerre mondiali – con eserciti che hanno bivaccato nel giardino – e a centoventi inverni che l’hanno semisepolta di neve per sei mesi all’anno. Nel secondo dopoguerra è stata rimessa in sesto, con pochi mezzi e molta buona volontà, da una delle nipoti della fondatrice. Ma da lì in poi stava lentamente, inesorabilmente soccombendo alla proprietà divisa: per cinque generazioni è stata frazionata tra gli eredi che l’hanno usata, a turno, come casa estiva. Era di tutti e di nessuno. Le spese importanti erano quasi sempre rimandate – troppo complicato mettere d’accordo tutti. La manutenzione trascurata secondo l’invincibile legge: ci penserà qualcun altro. Muffe alle pareti. Tubi corrosi. Tutto che decade e si corrompe, tutto che ristagna, perde smalto e funzionalità.
Con un’aggravante: incombe sulla casa e i suoi abitanti estivi il sacro culto del passato, che è il sacro culto della Famiglia e della Tradizione, a partire della trisnonna fondatrice il cui ritratto, con i capelli candidi, veglia sopra il camino. Una signora nata a metà dell’Ottocento. Toccare qualcosa, cambiare qualcosa, è come tradire la memoria degli avi. La padella arrugginita non si butta, perché è la padella nella quale “tante Justine” friggeva le trote pescate da “ton ton Marcel”. Il passato, tra quei muri fradici di umidità, è Dio. La tradizione è legge, anche quando odora di stantio. Comprare una padella nuova e soprattutto buttare quella vecchia è un atto che sfiora il sacrilegio.
Nell’ottobre del 2020 una paurosa alluvione si porta via la strada, isolando quasi del tutto la valle e il suo minuscolo villaggio. Rimane solo una impervia mulattiera in mezzo ai monti, percorribile con una jeep e un certo coraggio. Lungo quella mulattiera, il primo di giugno del 2020, in mezzo agli ultimi nevai sale Leone (nome d’arte), uno dei troppi eredi, uno dei sette cugini proprietari. Ha comperato per l’occasione una 4×4 usata. Leone è solo, da tutti i punti di vista. Ha divorziato e appena perso il lavoro. Un cinquantenne che si trova, quasi di colpo, con la vita bruscamente interrotta. Decide di salire lassù, senza altro particolare scopo che restarsene in pace per un po’ di tempo a riflettere sui casi suoi.
Abiterà in quella casa per quattro mesi, fino alla fine di settembre. Da soli: lui e la casa. Nella sua testa scatta una scintilla – ogni rivoluzione parte da una scintilla. Il primo atto è accumulare nel giardino la montagna smisurata delle cose vecchie e inutili, lasciando in casa solo le cose vecchie e utili. Escono dal grande portale, giorno dopo giorno, in solenne processione, mobili, vestiti, scarpe e scarponi, strofinacci bucati, scope rotte, oggetti di ogni sorta. Posate, piatti, bicchieri, ceramiche. Materassi e letti. Tutto ciò che è sbrecciato, corrotto, sfondato, contaminato, inutilizzabile o impresentabile abbandona per sempre la casa. Leone butta via tutto, come per riattivare il metabolismo di quelle vecchie stanze soffocate dalle loro deiezioni. Ovvero butta via, in una sola estate, più di un secolo di cianfrusaglie che nessuno aveva avuto la voglia o il coraggio di eliminare. Lo fa secondo il suo arbitrio, non chiede il permesso, lo guida solo il suo rapporto di amore (è la parola giusta) con quei muri. Possiamo immaginarlo come un illuminato: sa esattamente quello che sta facendo, lo fa con metodo, instancabile, giorno dopo giorno. Sa di non sbagliare. Noleggia un grande furgone, gli servono quattro viaggi, sfidando i tornanti della mulattiera, per portare tutto quanto in discarica.
Ora la casa è molto più vuota. Respira meglio. Il suo sollievo è lo stesso di Leone, la simbiosi tra l’uomo e la casa è totale. Leone ha smesso di essere figlio di quella casa e ha deciso di diventarne il padre e il demiurgo. Può cominciare a restituire luce a tutto ciò che è rimasto. Carica sul furgone, ogni volta che lo svuota in discarica, quintali di vernice, pennelli, calce, cera da legno, utensili. Scrosta le macchie di muffa e imbianca con la calce le pareti offese. Smeriglia porte e finestre (una trentina) e le ridipinge. Leva le carte da parati dove sono stracciate (anche i fiori delle carte da parati appassiscono), ripassa il bianco, stanza per stanza. Pulisce ogni angolo, apre ogni cassetto, lava ogni mensola e ogni vetro, soccorre ogni metro quadrato, monda e rimette in sesto ogni recesso del grande edificio.
C’è qualcosa di zen nell’estate di Leone in quella casa, nella quieta, metodica furia con la quale sloggia da quei muri stanchi il ricatto della tradizione e restituisce la casa al presente. Non so che cosa pensasse, mentre passava lo smeriglio sul vecchio legno (larice) delle porte, o mentre ridipingeva di un bel grigio provenzale le angoliere della sala da pranzo. Probabilmente pensava ai casi suoi e alla sua vita, e un pezzo importante della sua vita coincideva con la vita che stava restituendo alla casa. Risanandola, salvandola, risanava e salvava anche se stesso.
Io l’ho visto pochi giorni fa, Leone, che mi salutava dal terrazzo della casa: era la stessa casa che ho sempre conosciuto, però smagliante, ringiovanita, vigorosa. Rinata. Come una grande ammalata che inaspettatamente si alza dal letto, sorride e si rimette in cammino. I fantasmi di bisavoli e prozie, finalmente liberi, volteggiavano nel bosco di larici dietro la casa, con le loro padelle e i loro materassi sfondati tornati integri e nuovi. Erano felici anche loro, stanchi di muffa, stanchi di passato.
Leone, con un largo sorriso, sembrava un cretese in trionfo sul dorso del suo toro. Io avevo le lacrime agli occhi per la meraviglia. Sono uno dei sette cugini che non è mai stato capace di fare quello che ha fatto Leone, più giovane di me di dodici anni. Ma sono abbastanza giovane, ancora, da riuscire a esultare della sua esultanza.
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Moltissime le lettere sul tema “ma quanto dobbiamo avere paura della Meloni e del melonismo?”, sollevato la settimana scorsa da qualche dolente pensiero di Gianni Cuperlo dai banchi di Montecitorio. Il tema si intreccia alla più vasta – e misteriosa, lo sappiamo – discussione sul significato odierno di “destra” e “sinistra”. Leggendo le vostre lettere provo un leggero senso di colpa: abbiamo messo troppa carne al fuoco? Non avrei fatto meglio a suggerire, a voi e a me, prudenza, adottando qualche omissione sui massimi sistemi, e puntando sui sistemi minimi, o almeno di medio calibro?
Beh, ormai è andata così. E a proposito di carne al fuoco, mia moglie, vegetariana, per il mio compleanno mi ha regalato un barbecue semplicemente maestoso. Mi ha anche fatto presente che sul barbecue trovano uguale posto e dignità anche le verdure e il pesce (non siamo mica gli americani, per citare il Vasco degli anni ruggenti). Una gestione dialettica e onnivora dell’attrezzo in questione lo renderà migliore, anche se, con questo caldo, l’inaugurazione è rimandata. E ora ci tocca una lenzuolata (molto tagliata, se no sembra un congresso politico degli anni Settanta) di opinioni su quanto sopra: Meloni, destra, sinistra.
“Caro Serra, condivido la preoccupata inquietudine di Gianni Cuperlo e non sono così ottimista sulla tenuta degli ‘argini’ sui quali lei confida: la nostra Costituzione ha già subito numerosi attacchi ed è manifesta l’intenzione di riscriverne parti importanti anche a colpi di maggioranza, dopo l’arroganza con cui si è indebolita a livello materiale. Quanto all’Europa è palese il suo arretramento (mascherato dalla guerra in corso) di fronte all’affermarsi delle destre nazionaliste in larga parte di essa. Né possiamo confidare nella ‘tenuta democratica’ della nostra borghesia avara di princìpi e adusa a guardare al proprio interesse immediato: ne abbiamo conferma dalla condiscendenza della stampa verso il nuovo potere, a partire dal Corriere. Possiamo solo sperare che, per l’inettitudine a governare dinamiche complesse, finiscano per suicidarsi, ma è speranza assai flebile”.
Riccardo Tonioli
“Condivido il fatto che la sinistra si sia persa, e dispersa, nella rincorsa di una destra temuta e arrivata. Concordo anche sul fatto che la destra abbia smesso di stare attenta a quello che dice e a come lo dice. Sono una boomer, davvero profondamente dispiaciuta di quanto vedo accadere, tanto da dire che almeno la destra ha una idea evidentemente chiara, almeno sappiamo cosa dice e come lo dice. Sono più disillusa che delusa, tanto da non sentirmi più di sinistra da almeno un quinquennio perché la sinistra non sa che cos’è, quindi non ce lo racconta e tantomeno lo agisce”.
Marina Mele
“È avvenuta quella mutazione antropologica temuta e detestata da Pasolini. Il ‘popolo di una volta’ non esiste più, si è trasformato in una platea di possessori o di aspiranti possessori di automobili, di prime e magari seconde case e di beni di consumo (noi italiani abbiamo un record europeo per auto e immobili), spaventato solo dall’idea di vedersi aumentare le tasse. Siamo un paese più benestante e certamente diverso da quello che si dedurrebbe dalle dichiarazioni dei redditi rese insincere da evasione fiscale, lavori in nero e doppi e tripli lavori. Stare dalla parte dei poveri, combattere l’evasione fiscale, ipotizzare patrimoniali sono cose buone, giuste e di sinistra ma difficilmente daranno un successo elettorale in un paese in cui l’arricchimento privato è avvenuto in questo modo, a spese dell’interesse pubblico e soprattutto, non dimentichiamolo, del debito pubblico”.
Leo Rotundo
“È pur vero che l’Europa e l’Italia di oggi non sono quelle di cento anni fa e l’opinione pubblica è più variegata, ondivaga e difficile da manovrare, ma non ci si può certo tranquillizzare per questo. A furia di fare finta di niente e rilassarci, convinti che basti l’Unione Europea a guardarci le spalle, tutta quella voracità dettata da voglia di rivincita finirà per avere la meglio senza troppa fatica. Non è solo un problema italiano, ma europeo e globale. Se all’appuntamento delle europee 2024 destra ed estrema destra riusciranno a guadagnare e a modificare l’orientamento del Parlamento, cosa possibile dato che sono in salita un po’ ovunque, chi riuscirà a fermare le locuste?”
Laura Beltramino
“Saranno cinque anni duri ma ce la faremo, scrisse lei dopo le elezioni; non avevo paura, allora. Comincio ad averne un po’. Nonostante un livello qualitativo infimo, questi pestano duro dove possono, e dove glielo lasciano fare. Dobbiamo starci attenti, a partire da noi boomer (sono praticamente suo coetaneo): dirgli tutti i no che possiamo, cercare tutte le occasioni per opporci, o crearle”.
Mario Musiani
“Concordo sul fatto che ‘stare in Europa’ può essere un fattore di protezione e omogeneità democratica. Tuttavia ci sono molti fattori critici che potrebbero indebolire questa immunità. Il vento conservatore soffia da molte direzioni: Spagna, Grecia, Germania, Francia, USA, oltre a Polonia, Ungheria… Molte politiche europee lo subiscono già, e ne sono influenzate a partire da quelle sull’emigrazione. Se non si ristabilisce una politica europea progressista che sia sostenuta dai risultati delle prossime elezioni, siamo a rischio. Quindi è essenziale tornare a guardare fuori dalle nostre beghe nazionali. A Milano ho visto un bello spettacolo su Gaber e quando hanno cantato la sua canzone su destra e sinistra mi è sembrato di veder aleggiare il suo fantasma con le mani nei capelli…”.
Francesco, quasi 73
“Il riformismo di matrice socialista (lo diceva già Claudio Martelli nel 1983 a Rimini, ma lo sostenevano già allora tutte le sinistre riformiste europee) prevede che una forza riformista moderna si occupi dei meriti oltre che dei bisogni; che per fare giustizia sociale si deve aumentare la ricchezza prodotta perché bisogna combattere la povertà, sia tramite un welfare che va rafforzato e semplificato, sia tramite un mercato del lavoro capace di offrire opportunità. E che quindi si sappiano dare risposte a chi il lavoro lo crea, affinché la politica sia garante di un patto sociale che tuteli i più deboli e promuova uno sviluppo forte e sostenibile. Figuriamoci: siamo anni luce lontani da tutto questo e con Schlein ci siamo ulteriormente allontanati, perché si preferisce fare una nobile sinistra già vista, minoritaria e perdente, ma nobile. E allora, dare del fascista ha l’effetto di dire che NOI siamo gli eredi di quelli che hanno portato la democrazia. E pazienza se nel frattempo ho detto sì al taglio dei parlamentari e no al finanziamento pubblico dei partiti, pazienza se ho sostenuto chiunque non la pensa come me negli anni, pazienza se quando c’era Renzi ‘gli portavo l’acqua con le orecchie perché prendeva voti’ e oggi dico che non sono mai stato renziano… pazienza se mi alleo con Conte anche se ha fatto i decreti sicurezza con Salvini. Pazienza su tutto, noi siamo quelli del gran partito, veniamo da lontano e andiamo lontano”.
“L’arretramento culturale c’è eccome, e c’è anche a destra con comportamenti estremi e fascistoidi. È quello che passa il convento, somiglia sempre più ad un reality e deve andar bene a tutti, almeno finché non ci sarà un altro moderato col quale conviene allearsi: a quel punto ritireremo fuori temi e argomenti del riformismo. Nel frattempo questo è un paese socialmente in frantumi. La violenza, gli omicidi, i femminicidi dei quali ci parlano i giornali ci dicono che non esistono più i corpi intermedi. È un quotidiano bollettino di guerra. Ci sono i social network ma non c’è famiglia, scuola, parrocchia, sezione di partito o associazione culturale che riesca davvero a fungere da filtro tra il disagio sociale ed economico e l’esplosione di rabbia che queste condizioni di vita si portano dietro. Temo che se la risposta a tutto questo continua ad essere ‘sei un fascista!’ non vedremo soluzioni”.
Andrea Tarquini
“Credo che la sinistra attuale, della quale faccio ancora parte sempre più a fatica, si occupi del lavoro come usava fare negli anni Settanta, non accorgendosi neppure del cambio delle categorie 50 anni dopo, e segua il sindacato occupandosi del merito solo in base alla tessera di cui il lavoratore è titolare. Soprattutto nel pubblico impiego, scuola in primis, in cui convivono con stesso stipendio gente veramente competente e dedicata accanto a incapaci e nullafacenti che nessun dirigente ha il minimo potere di scuotere… Mi tornano in mente le parole di Veltroni al Lingotto nel 2007, alla costruzione del PD, ed io ero ad ascoltare: un partito volto ad innovare, anche radicalmente, contro i conservatorismi di destra e di sinistra che imprigionano questo Nostro paese”.
Antonio
“Vorrei solo aggiungere alla sguaiata uscita parlamentare del nostro presidente del Consiglio anche il modo con cui Giorgia Meloni aveva replicato a Riccardo Magi, colpevole di aver esposto a un incontro pubblico un cartello critico nei confronti della politica sulle droghe dell’attuale governo: è stato un crescendo che più che rossiniano definirei sgarbiano, con consueto corollario di occhi sgranati, viso paonazzo, voce da comizio in piazza Venezia. Non so se sono solo cadute di stile o segnali allarmanti, come dice Cuperlo. Forse sono allarmanti cadute di stile”.
Dario Canzian
“Sulla sinistra una considerazione da ex noglobal (non ci siamo mai percepiti così, né tanto meno chiamati, ma è per capirsi), ex attivista e iscritto a un partito di sinistra: la sinistra voleva il cambiamento, ma dopo il boom economico ha iniziato a difendere quanto conquistato. E invecchiando insieme ai propri iscritti ed elettori è finita per temere ogni cambiamento, tacciando tutto di troppo radicale sia che si chiedano uguaglianza o libertà, semplificando quanto scriveva Bobbio. D’altronde quando la società era composta da tanti poveri e pochi ricchi cambiare era un sogno di tanti. Oggi per difendere gli ultimi (migranti, giovani o qualsiasi minoranza) implica toccare gli interessi di tanti. È un po’ come la barzelletta che vede un comunista arringare la folla elencando le cose da collettivizzare e arrivare fino alle biciclette e ricevere la risposta di un compagno ‘le biciclette no, la bicicletta ce l’ho’. Non è per niente facile essere di sinistra in una società ricca che si sta impoverendo, temo”.
Stefano Minguzzi
“Le parole di Cuperlo mi hanno preoccupato perché se ci casca pure lui …
Più dei nostalgici del fascismo mi fanno paura i nostalgici dell’antifascismo. Quelli che invidiano le lotte eroiche dei nostri nonni per la libertà d’Italia con tutta l’epica dei buoni contro i cattivi. Sono loro che hanno bisogno di un nemico quanto più possibile simile alle squadracce del secolo scorso. E più ti disegni l’avversario attuale simile a quello vecchio, più non hai bisogno di studiarlo, capirlo e costruire nuove strategie. Rischi di convincerti di non avere bisogno di cambiare tantissimo, di crescere. È chiaro che preferisco chi nella cameretta ha la foto, o i libri, di Gramsci rispetto a chi ha il busto del duce, ma se il progetto politico di troppi per l’oggi e per il domani è ‘allarme fascisti’, chi dedicherà del tempo a progettare un futuro di sinistra per questo paese? Già questa destra è brutta così, perché dovremmo volerla ancora peggiore?”
Giuseppe