Il mare d’inverno
«Dei protagonisti dell’immaginario popolare solo i serial killer non hanno (ancora) avuto accesso all’Ariston, in quel fantastico guazzabuglio di generi confluiti in quel solo immenso genere che è la popolarità, non importa di che tipo e per quale merito»
Chissà dov’è finita la Madonna delle Vongole. Non la trovo più. Si sarà persa in qualche trasloco (negli ultimi vent’anni ne avrò fatti una dozzina). Sarà in qualche scatolone dimenticato che un erede distratto, o un rigattiere indifferente, aprirà tra una cinquantina d’anni, trasalendo: cos’è questo orrore? Chi può mai averlo acquistato e posseduto? Chi può averlo concepito, costruito, messo in vendita?
Forse è rimasta in un cassetto della redazione di Cuore, a Bologna in via Castiglione, l’ultimo luogo nel quale mi sembra di ricordare di averla vista, nei primi anni Novanta. O forse qualche mano pietosa, sapendola a me cara, l’avrà presa in affido per riportarmela, a sorpresa, quando, sul letto di morte, spero vecchissimo, aspetterò solo che una porta si apra e mi venga infine riconsegnata: ti ho riportato la Madonna delle Vongole! Ora puoi riposare in pace.
Sicuramente ne rimane traccia nelle teche Rai. A dimostrazione che no, non l’ho sognata: non solo è davvero esistita, ma è stata tra gli ospiti del Festival di Sanremo del 1989. La esibì davanti alle telecamere Beppe Grillo durante uno dei suoi concitati, burrascosi interventi. Gli pareva che quell’oggetto fosse una specie di riassunto perfetto del kitsch di Sanremo, la città (aveva scritto il mio amico David Grieco, inviato dell’Unità) “dove anche i fiori veri sembrano finti”.
In quegli anni era ancora ben viva l’usanza di attaccare il Festival, o farsene beffe, trattandolo da mediocre baraccone della canzone più dozzinale, e della televisione più consolatoria: nessuno dei grandi cantautori degli anni Settanta si sarebbe mai sognato di metterci piede, e nei lunghi anni di declino solo qualche inconsapevole ospite internazionale, capitato lì come per una data qualunque del suo tour europeo (“è vicino a Montecarlo? Allora ci vado”) riusciva a risollevarne il tono artistico. In sala stampa si rideva molto, devo dire anche troppo, di onorati e valorosi professionisti della canzone, da Mino Reitano a Toto Cutugno, che con Al Bano e i Ricchi e Poveri erano diventati una specie di quintessenza del “cantante da Sanremo”.
Il Festival non si era ancora espanso, chissà se per inerzia o per strategia, alla sua attuale dimensione “tuttista”, passatemi il neologismo. Diventando quello che è ancora adesso, un contenitore onnivoro, ecumenico, aperto a quasi qualunque forma o tendenza del pop. Non solo tendenza canora: sportivi, indossatrici, attrici e attori, astronauti, prìncipi, scienziati, premi Nobel, metalmeccanici in lotta, ventriloqui, registi, scrittori, suore missionarie, testimonial di cause nobili, figli e mamme di celebrità, influencer, casi umani. Dei protagonisti dell’immaginario popolare solo i serial killer non hanno (ancora) avuto accesso all’Ariston, in quel fantastico guazzabuglio di generi confluiti in quel solo immenso genere che è la popolarità, non importa di che tipo e per quale merito.
Erano gli anni, i fine Ottanta, che lavoravo con Grillo, serenamente, con innocente contentezza, essendo del tutto imprevedibile il pazzesco esito (pazzesco: non trovo aggettivo più calzante) della sua storia. Il suo autore storico, quello delle origini, era stato Antonio Ricci. Poi subentrò Stefano Benni, che ebbe tanta parte nella mutazione “politica” di Grillo, le ilari invettive contro i socialisti, contro i giornalisti, contro mezzo mondo. Fu Benni a farci incontrare, mi disse più o meno: ti divertirai. Vai avanti tu che sei un ragazzo. Per me è diventato troppo faticoso.
In quel Sanremo, se non ricordo male, erano con noi anche Gino e Michele, il fiorista del cimitero di Staglieno Marco Grasso, amico di infanzia di Beppe e suo inseparabile scudiero, e un serissimo giornalista del Manifesto, Stefano Torrealta, che cercava di dare una qualche copertura alle notizie dalle quali Beppe trovava ispirazione. Beppe era inquieto, ombroso, insofferente, si camminava per ore in giro per la città, lunghe passeggiate al porto e sui moli meno frequentati, gli occhiali scuri e il cappuccio per essere meno riconoscibile. Vento e sole, la luce del mare, chiacchiere, le mani in tasca e chilometri di passeggiate.
Entrammo in un negozietto di souvenir proprio davanti al Casinò, ficcato in uno di quegli androni umidi anche d’estate, tipicamente liguri, che hanno un odore inconfondibile, come se sotto il pavimento il mare stesse marcendo soavemente, giorno dopo giorno. Tra tante meraviglie, la vedemmo: una madonnina di plastica incastonata in una specie di cripta di conchiglie. Conchiglie molto dozzinali, va detto, vongole e forse anche qualche cozza, davano l’idea di essere state raccolte dal bidone sul retro di un ristorante di pesce.
Non credo che all’epoca i cinesi, e altri opifici asiatici, avessero già conquistato il mercato mondiale della paccottiglia. Chissà dove si fabbricavano, allora, quegli oggetti insensati che ancora oggi, sfidando i secoli, pullulano nelle città turistiche e perfino non turistiche (ma esistono ancora le città non turistiche?). Le palle trasparenti con la neve, le gondolette, i magneti da frigorifero. A Venezia, giuro, ho visto in una vetrina di vetraglia (l’assonanza, alla Toti Scialoja, è casuale, ma suona bene) una piccola gondola con sopra Gesù bambino e le renne di Babbo Natale. Ma senza Babbo Natale, solo le renne. E la scritta: Buone Feste. Sarebbero stati sessanta euro ben spesi, perché ci ho rinunciato?
E sempre a Sanremo, anni dopo la Madonna delle Vongole, trovai una palla con neve così composta: il Casinò, una palma, un cammello e la scritta “Saluti da Sanremo”. Immaginare la genesi dell’oggetto è appassionante: il compositore dell’insieme considerava il binomio palma-cammello inscindibile, e dunque, se a Sanremo spettava la palma, doveva prendersi anche il cammello? Oppure lo stock di cammelli e palme era in eccesso e dunque, un po’ a casaccio, qualcuno aveva deciso di usarli per completare le palle sguarnite, così che magari esistono palle con cammello e palma anche con la scritta “Saluti da Stoccolma”?
Ma non volevo intrattenervi sul mercato mondiale del souvenir (anche se è un magnifico argomento, ne parlerei per ore). Era un modo per raccontarvi che se c’è un posto al mondo nel quale mi sono domandato, incredulo: ma come è possibile che mi paghino per stare qui a divertirmi?, questo posto è Sanremo durante il Festival. Ne ho fatti una quindicina, da giovane, come giornalista. Poi due come autore di Grillo; poi altri due come autore del Festival (le due edizioni condotte da Fazio nel ’13 e nel ’14) e come membro della giuria selezionatrice. Quest’ultima mansione (scegliere i brani per il Festival) mi ha trasmesso la sensazione di potere più inebriante della mia lunga vita, e questo può lasciarvi intendere quanta poca familiarità io abbia avuto con il potere.
Andare al Festival per lavorarci è una fatica fisica indimenticabile – si dovrà pure pagare un prezzo, a quel divertimento. Dormire quasi mai, la baraonda ovunque, una calca perfino superiore alla normale calca ligure, i pasti nelle ore più insensate, è come se tutti i fusi orari, insieme, si fossero dati appuntamento proprio lì. L’unico spazio libero, o quasi libero, sono le spiagge vuote dell’inverno, dove si impara a fuggire, quando se ne ha il tempo, per sedersi un attimo su uno scoglio, o sulla sabbia, e guardare il mare. Se sullo scoglio accanto è seduta, mettiamo, Anna Oxa, basta ignorarsi reciprocamente e continuare a guardare il mare.
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Mi ha scritto Giulia, la settimana scorsa: sono femminista e lo sono in modo anche abbastanza radicale. Ma il mondo è talmente “indietro”, rispetto a quello che vorremmo che fosse, che ci vuole pazienza. Inutile alzare la voce, è controproducente (sintesi mia).
Ora mi scrive Federica. Nuova tappa di un dibattito che ospito volentieri. Da maschio ormai incallito (incallito è un sinonimo arcaico di cisgender) posso solo fare quello che porge il microfono. Contento, comunque, che questo sia un posto dove si ha voglia di discutere. Anche perché questa discussione, mi sembra evidente, riguarda proprio tutti.
“Caro Michele, sono una circa-femminista di seconda generazione pure io. Dico circa non perché non sia saldamente convinta della causa, ma perché la causa in me non ha mai preso toni “strutturati” – mi è mancata quasi completamente un’educazione formale e intellettuale sull’argomento. Per cui sono spesso disarmata di fronte a un certo armamentario concettuale e filosofico, che invece vedo ben saldo in molte mie amiche, che a volte ammiro ma a volte mi annoia: ho l’ADHD (disturbo da deficit di attenzione, ndr) e quindi nelle cose estremamente verbose e astratte mi perdo un po’”.
“Odio aggressività e violenza, sarei tendenzialmente pacifista – ma razionale: se ti invadono col rischio di vedere instaurata una dittatura nel tuo paese, io ti sostengo anche con le armi – ma ti scrivo proprio in relazione alla lettera di Giulia. Qualche anno fa avrei espresso la stessa sua opinione. Arrivo da un’adolescenza, negli anni Ottanta, in cui a me come donna (ragazza) tutto sembrava possibile: le cose stavano cambiando e saremmo presto arrivate alla piena parità. Se non prestissimo, almeno in capo a un paio di decenni… stiamo larghi, tre? (anche perché le lotte erano iniziate ben prima della mia nascita). Abbiamo avuto pazienza, o almeno io penso di averne avuta. Ma sono stufa, anche perché ora sono io ad avere una figlia adolescente e penso al mondo in cui si muoverà lei. E mi ribolle il sangue per le continue ingiustizie”.
“L’ultima, forse solo simbolica, ma neanche tanto, è la messa in onda del video di una donna che ha lasciato il figlio neonato in ospedale, in piena violazione della sua privacy. Una donna che non ha fatto nulla di illegale e si è premurata che il bambino finisse in mani sicure. Eliminiamo ogni ipocrisia: questo atto vandalico (del TG1) è frutto sì della smania di avere audience, ma sotto c’è un abile utilizzo di mezzucci che arrivano dritti da un apparato patriarcale che davvero non riusciamo a estinguere: ecco una mamma che non VUOLE (non ne sappiamo nulla, ma è chiaro che questa sarà la lettura della stragrande maggioranza degli spettatori) fare la mamma… è una degenerata, un po’ meno umana di noi, e in quanto tale abbiamo il pieno diritto di esporla sulla pubblica piazza”.
“Dicevo che io di femminismo, in senso di fondamenti filosofici e storici, so relativamente poco, e a volte ho bisogno di menti limpide e informate per capire i miei stessi sentimenti e pensieri. Per me è illuminante questa intervista rilasciata da Giulia Siviero del Post al podcast di Internazionale, all’indomani del femminicidio di Giulia Cecchettin.
Grazie Giulia Siviero, davvero. Essere pazienti è quello che l’apparato patriarcale ci ha insegnato da sempre, per evitare di essere assassinati nel sonno dalle consorti, suppongo. Una donna poco paziente è poco donna, persino brutta (perché essere belle è un’altra delle qualità imprescindibili della donna®). Finché stiamo a queste regole il patriarcato sarà sempre là. Non voglio la guerra, ma nemmeno l’invasione con dittatura. Sono passati 40 anni dalla mia adolescenza, e tanto per fare un esempio tra i miliardi disponibili, guardatevi questo grafico (ANVUR) e ditemi voi quanta pazienza ancora possiamo avere. Il mio rispetto a Giulia (tutte le Giulie citate).”
Federica
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Zanzare Mostruose sta crescendo, sotto ogni punto di vista. Semantico, culturale, come vedremo anche storico. Sono orgoglioso di voi.
Per cominciare in una dimensione internazionale, ecco uno splendido lapsus in questa titolazione di Repubblica del 27 gennaio, segnalata da Alessandra:
TRAVEL PHOTOGRAPHY OF THE YEAR. LA VAL D’ORCIA NEGLI SCATTI VINCITORI
IN LIZZA FOTOGRAFI DI OLTRE 150 PIANETI
Come sarà la Val d’Orcia vista da Plutone, o dalla Galassia di Gnork? Venendo a vicende più minute, la meritoria rubrica La Zampa, quando era ancora sulla Stampa, nel 2021, raccontò questa vicenda:
UN GATTO CADE IN TESTA A UN UOMO, CHE VIENE SOCCORSO DA UN CANE CON LE SCARPE
Andrea, che ha fin qui gelosamente conservato questo titolo, manda anche le immagini che documentano la vicenda. Si vede effettivamente un cane con le scarpe (scarpe da cane, ma sempre scarpe) che si avvicina a un uomo appena colpito da un gatto in testa. Però niente lascia supporre che l’intenzione del cane fosse soccorrere l’uomo, piuttosto che avventarsi sul gatto. Gli animali, del resto, possono fare quasi qualsiasi cosa. Eleonora ha scovato, sul canale Telegram di Repubblica, questo titolo che, se non decodificato, può indurre a conclusioni sbagliate sulla vita notturna dei primati:
VAIOLO DELLE SCIMMIE, DIECI CASI A FIRENZE: SETTE AVEVANO FREQUENTATO LA STESSA DISCOTECA
Notevole anche, sempre da Repubblica, segnalazione di Francesco, questa spy story che conferma le straordinarie attitudini degli animali:
INDIA, RILASCIATO IL PICCIONE SOSPETTATO DI ESSERE UNA SPIA CINESE: HA TRASCORSO OTTO MESI IN DETENZIONE
Venendo al paranormale e dintorni, Laura ha letto, negli autorevoli lanci dell’Ansa, questa notizia:
BIMBO DI TRE ANNI INCASTRATO IN UNA MACCHINA ACCHIAPPAPUPAZZI: “NON HO FRETTA DI USCIRE”. LA POLIZIA LO LIBERA.
Lo avranno liberato prelevandolo con la pinza, come si fa con i peluche? (No, più drasticamente, vedo).
Magnifico, nella sua asciutta drammaticità, questo titolo trentino del 2016 segnalato da un altro Andrea.
GLI DICONO «BUONGIORNO»: ACCOLTELLATI
Infine, capolavoro del noir difficilmente eguagliabile, da QuiBrescia, segnalato da Mariella:
MORTO IL MARITO DELLA DONNA DISPERSA NEL CARRO FUNEBRE IN VALTELLINA