Il dono della sintesi
A proposito di baby gang e criminalità giovanile ho condiviso al cento per cento quello che ha scritto Massimo Ammaniti, neuropsichiatra infantile e psicoanalista illustre, su Repubblica. Mia estrema sintesi del suo intervento: reprimere lascia il tempo che trova, non incide per davvero, è un intervento superficiale. Perché per andare alla radice del problema sarebbe necessario un lungo lavoro di risanamento sociale e di cura individuale. Servono insegnanti, assistenti sociali, psicologi, carceri che rieduchino e non abbrutiscano. Servono dignità e decoro nei posti dove si abita e dove crescono i futuri adulti.
Posizioni (e conoscenze) come quelle di Ammaniti sono in evidente contrasto con le misure, piuttosto sbrigative, annunciate dal governo italiano, che soprattutto con alcuni suoi esponenti invoca il classico “giro di vite”, il ricorso a misure punitive e restrittive, estendendo anche ai minorenni le pene in vigore per gli adulti. In galera chi delinque, anche se ha 14 anni, senza fare storie e senza troppi piagnistei. Nel solco di quello slogan trucido che riecheggia, da anni, nei peggiori comizi e nelle chiacchiere social più sbrigative: sbattili dentro e butta via la chiave.
Ho pensato che il professor Ammaniti ha ragione. Ma ho anche pensato (capita di pensare due cose contemporaneamente) che le sue giuste considerazioni su quanto occorrerebbe fare contengono, tutto intero, il drammatico problema che penalizza politicamente la sinistra; e premia la destra. Un eventuale “pacchetto Ammaniti”, contenente le proposte più efficaci (comprovatamente efficaci) dal punto di vista medico, educativo, sociale, richiede tempo e fatica. Molto tempo, molta fatica, in cambio di risultati certo non immediati. Che non producono titoli di giornale e di telegiornale. Che non parlano all’emotività delle persone, ma alla loro ragione. Che non portano voti. E questo tempo, questa fatica, a una parte consistente della pubblica opinione, sembrano pretestuosi. Fiato sprecato. Un menare il can per l’aia i cui effetti non sono visibili: vuoi mettere una bella retata, che in una mezza giornata ripulisce un quartiere? (poi la mattina dopo tutto torna come prima: ma è la mattina dopo).
La sinistra – termine che uso con tutte le necessarie avvertenze: si tratta di un’approssimazione – è molto vocata alla definizione dei problemi, cerca di analizzarli nella loro complessità (parola ormai quasi inascoltabile, per colpa di tutte le volte che siamo stati costretti a usarla). Ma molto spesso non è in grado di offrire soluzioni. Non, almeno, quelle soluzioni di immediata “sonorità”, tipo “butta via la chiave”, che fanno il rumore secco e forte del tappo che salta, della frase che chiude il discorso, dello slogan che fa strage, in una sola riga, di tutte le coordinate e le subordinate. Basta complicazioni. Basta chiacchiere. Basta con il latinorum degli intellettuali. Meglio una sola operazione di polizia che cento convegni di criminologia. Facciamola finita, no?
La mentalità di destra – ripeto, scrivendo “destra”, le stesse avvertenze usate prima per “sinistra” – è dunque l’antidoto quasi automatico alle lungaggini dialettiche, e alla fine anche politiche, della sinistra. Lo stupro è il frutto di secoli di cultura patriarcale? Ma va’ là! Castrazione chimica e non se ne parla più. Il ragazzino scippatore è figlio del degrado sociale del suo quartiere e di famiglie incapaci di produrre mezza regola etica, anche di terza scelta? Sì, va beh, sarà anche, ma intanto mettiamolo dentro (“a marcire in galera”, come si usa dire dalle parti del Salvini, che per altro è vicepresidente del Consiglio).
Non sto qui a ripetervi – lo sapete già – che nel medio e nel lungo periodo sarà sempre la complessità (che è poi la realtà, è la natura delle cose) a vincere: e le soluzioni strillate, i modi bruschi, le scorciatoie vecchie come il cucco alla fine si riveleranno, loro sì, tempo perso, fiato sprecato, faccia feroce che non spaventa nessuno. Voglio aggiungere, però, che a rendere doveroso omaggio alla complessità certe volte ci si stanca. E ci si deprime, e si vorrebbe portare a sintesi quello che si è pensato e che si è imparato. E facciamo una enorme fatica a farlo, noi “di sinistra”, e in certi momenti quasi invidiamo la facilità, stavo per dire la faciloneria, con la quale molta destra spara le sue certezze.
Nella politica l’analisi è tutto, ma senza sintesi si rischia di diventare dei cacadubbi. La vecchia epoca degli slogan sui manifesti, e gridati dai megafoni, noi boomers ce la ricordiamo bene. Quasi nessuno di quegli slogan è ripetibile e utile, il tempo li ha resi carta straccia, come i manifesti laceri che volano per la strada a elezioni avvenute (e generalmente perse…). Ma almeno un paio di slogan nuovi, di quelli che colpiscono e danno l’idea che almeno un problema su dieci lo si possa affrontare al galoppo, infilzandolo nello spadone: beh, non mi dispiacerebbe. Ci vorrebbe un concorso nazionale: regala uno slogan decente alla sinistra. Semplificale la vita. Sollevala, povera sinistra, dal suo paralizzante complesso della complessità.
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“Buongiorno Serra, ho letto (fra le righe) la sua disillusione, e di una generazione insieme a lei, nei riguardi della sessualità vissuta in modo libero. Mi è sembrato anche che fosse trattata come un sentimento passato, già fuori dal presente e dentro la storia. Non credo però che quegli ideali non siano tutt’ora perseguiti e accreditati, come dimostrano tutte le nuove forme di rapporti non monogami che si stanno tentando e caratterizzando. Che ne pensa lei a riguardo? Non la percepisce, questa tendenza, soprattutto nella parte più giovane e ‘progressista’ della popolazione? Le sembra che possa avere un qualche seguito o è destinata a trasformarsi nella stessa illusione di quella degli anni ’60-’70? La ringrazio per gli spunti di riflessione sempre interessanti, aggiungo che probabilmente si capisce dal testo, ho 25 anni e sto tentando anche io, con tutte le difficoltà del caso, una forma di coppia aperta”.
Jacopo
“Caro Michele Serra, sono una boomer anche io e leggo sempre con interesse e divertimento la newsletter a tua firma. Ho letto il tuo pezzo sull’amore libero e (magari lo saprai già, magari no) volevo segnalarti l’intenso dibattito attuale intorno a ciò che oggi viene definito ‘poliamore’, un concetto interessante e che mi sembra molto più maturo e consapevole del contesto patriarcale in cui l’idea di ‘libero amore’ (veniva spesso da chiedersi: ‘libero per chi?’) degli anni Settanta era venuta costruendosi. Il dibattito attuale è particolarmente vivido nella comunità LGBTQ. Un libro notevole in questo senso, per esempio, è: Per una rivoluzione degli affetti. Pensiero monogamo e terrore poliamoroso di Brigitte Vasallo, effequ, 2022”.
Margherita Marcheselli (www.enciclopediadelledonne.it)
“Ciao Michele,
sono Giuseppe, ho 36 anni e insegno lettere in una scuola media di Lissone.
‘Nessuno è proprietà di nessuno’: anche a scuola abbiamo iniziato a parlarne, e spesso mi sono ritrovato a dire alle mie alunne proprio le stesse parole, specialmente quando alcune di loro si sono sentite trascinate in relazioni tossiche già a tredici anni. Durante la pausa estiva, la terza in entrata ha dovuto leggere tre libri, tre piccoli romanzi scritti e pensati per la loro età. Titoli che hanno scelto liberamente da un catalogo promosso dalla biblioteca cittadina. Uno di questi è stato Alive, di Alessandro Pasquinucci (edito da Pelledoca). Un thriller con al centro proprio una relazione tossica. Non vedo l’ora di ascoltare resoconti ed impressioni”.
Giuseppe
“Carissimo Michele Serra,
è un ottimo slogan ‘nessuno è proprietario di nessuno’, e andrebbe ampliato anche ai genitori in rapporto ai figli che credono propri. Dobbiamo tutti tenere presente che la spinta ad appropriarsi degli altri, non solo dei compagni/e di vita, abbia motivazioni molto profonde e ‘sostanziali’ che derivano in gran parte da identità fragili e trascurate fin dall’infanzia che si devono aggrappare a qualcuno per stare in piedi. Il problema è nell’equilibrio che sempre cerchiamo fra sicurezza e autonomia, fra attaccamento ed evoluzione, fra appartenenza e affermazione del sé. Fra due estremi ahimè molto frequenti: simbiosi appiccicosa e distacco anaffettivo”.
“Questi maschi (per lo più) possessivi e inizialmente adoranti non sono forse esseri umani incapaci di stare in piedi da soli? E queste femmine (per lo più) che interpretano come gesti amorosi dichiarazioni e idealizzazioni maniacali non sono forse alla ricerca di relazioni affettive incondizionate e totalizzanti? Mettiamo intanto in guardia le ragazze da questi innamorati a parole. In nessuno di questi casi parlerei d’amore, sono stampelle a cui ci si aggrappa per insicurezza e mancanza di una base sicura interna. La vita affettiva è naturalmente plurima, differenziata, più o meno continuativa, più o meno intima e può continuare ad esserlo se fin dall’infanzia è chiaro in famiglia che la vita offre e richiede livelli differenziati d’amore e di rispetto per l’autonomia, se si offre protezione e libertà. Per tutta la vita abbiamo bisogno di sicurezza (io ho 73 anni, pensa un po’), di poter contare su qualcuno capace di sostenerci, accompagnarci, fare il tifo per noi, soccorrerci nel caso, fare l’amore, criticarci e allo stesso tempo favorire il nostro successo nella vita. Ma poi avremmo anche la comunità e il prossimo, da amare. Neanche la coppia basta, no? È l’Altro, con l’A maiuscola, che sarebbero poi gli altri, che dobbiamo riconoscere come parte della nostra vita e con cui mantenere quella curiosità e accoglienza che i bambini esercitano naturalmente fra loro. Fra l’amore esclusivo, l’amore libero e la solitudine forse dobbiamo imparare a realizzare amori graduali, prolifici, differenziati”.
Giorgio
“Ho 68 anni. Quando ne avevo 20 facevo parte di un collettivo femminista, è stata un’esperienza importante, bella, formativa. Naturalmente parlavamo di amore e di sesso, e naturalmente imparavamo molto sui corpi, sul desiderio, sul sesso e sull’amore. Allora le ragazze non pensavano di doversi per forza sposare, fare figli e fare le casalinghe: questo era sempre stato il destino delle donne. C’era la patria potestà, si è cambiato il diritto di famiglia, si è lottato per il divorzio e per la legge sull’interruzione della gravidanza, si è imparato a controllare le nascite in modo consapevole. Se il sesso fosse un modo per conoscersi e comunicare e stare bene e non uno strumento di potere, aggressivo e violento, certamente misterioso, ma da poter vivere senza paura, sarebbe una cosa bella, da cercare, non una utopia. È per questo che pensi ancora alla ‘libertà più elementare e più teoricamente inviolabile, quella del proprio corpo, dei propri passi, del proprio andare e tornare dove si vuole, con chi si vuole, quando si vuole’. Abbiamo avuto il privilegio di crescere facendo esperienze che i giovani in altri periodi non avevano fatto. Non pentirti di essere stato giovane. Ricordati: non c’era il divorzio, la legge per l’IVG, il diritto di famiglia. Sono nati i consultori. Sono cose che dobbiamo difendere”.
M.L.A.
Beh, sono contento. Grazie Jacopo, Margherita, Giuseppe, Giorgio, MLA. Rievocando l’antica utopia dell’ “amore libero”, avevo il velato timore di passare per lezioso nostalgico da un lato, e per vecchio sporcaccione dall’altro. Ma non una delle lettere che mi avete scritto alimenta equivoci, o seconde letture: l’idea, che è limpida come la verginità, è che si possa e si debba cercare di essere liberi e soprattutto rispettosi dell’altrui libertà. È un percorso difficile, siamo bestie (sintesi con valide pezze d’appoggio scientifiche), abbiano istinti e pulsioni da amministrare, retaggi culturali da scontare, debolezze e paure da vincere. Ma ci dobbiamo almeno provare. Sono felice in particolare della lettera di Jacopo, che ha 25 anni e cerca una maniera meno proterva di stare insieme. La cosa più giusta e profonda che scrivi, Jacopo, è: “con tutte le difficoltà del caso”. Ecco. Se ognuno, a qualunque età, avesse sempre ben presenti “le difficoltà del caso”, nei rapporti sentimentali e più in generale nelle relazioni con gli altri, si potrebbe essere un poco più ottimisti sugli sviluppi di ciò che chiamiamo, per convenzione, amore.
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Tempo di vendemmia. Ho dedicato quasi ogni anno all’annata enologica un pezzo di satira sul vecchio Espresso. Un giorno o l’altro li raccoglierò tutti in un bel volumetto illustrato, corredato di pampini e grappoli, botti di rovere, omaggi a Bacco e ai santi bevitori. Questo è del 2012, e siamo quasi all’archeosatira…
Eccoci alle previsioni sull’annata enologica 2012.
Barolo – Il nuovo protocollo, molto severo, prevede per il prestigioso Barolo non solo un lungo periodo di stagionatura in botte, ma anche un anno sabbatico da trascorrere in apposite navi cisterna, completando il giro del mondo e aggiungendo grazie al rollio e al beccheggio nuovi profumi a un bouquet già ricchissimo (liquirizia, asfalto bagnato, cuoio macerato, piccione schiacciato).
Brunello – I produttori di Brunello e dei rossi del Bolgherese ormai non sanno più cosa inventarsi per alzare un livello di raffinatezza già irraggiungibile. “La sola mossa possibile – spiega l’arciduca Berardo della Berardesca – sarebbe non mettere più in vendita i nostri vini, per far capire alla gente che, per quanto abbiente, è troppo volgare per poterli bere”. Ma i produttori toscani hanno molte spese: in ottobre devono rinnovare il parquet tra i filari, massaggiare i tralci, potare le piante con forbici al laser perché sono allergiche al metallo, cambiare i cingoli di panno lenci al trattore, allontanare i cinghiali con l’ipnosi perché il rumore degli spari traumatizza le viti. E dunque manterranno, sia pure controvoglia, i prezzi dell’anno scorso. Con l’aiuto del Monte dei Paschi che ha lanciato un apposito “mutuo del bevitore”.
Pirolino – Continua la ricerca e la valorizzazione dei vitigni dimenticati. Dopo il pecorino e la passerina ecco il pirolino, un altro bianco abruzzese di carattere forte. Proviene da uve inselvatichite scoperte per caso nella boscaglia incolta di Montecapraccio. Si deve vendemmiare con guanti molto spessi perché ormai le uve di pirolino sono ibridate con il rovo e dunque molto spinose. Ma la famiglia dei bianchi abruzzesi dei quali nessuno aveva mai sentito parlare, tornati alla luce dopo secoli di oblio, potrebbe allargarsi ulteriormente: si cercano attivamente sulle pendici della Maiella, anche con l’aiuto dei cani, gli ultimi grappoli di pelosino, un’uva coperta di lanugine, e della poverina, un vitigno così povero che per ottenere del vino bisogna spremere anche le foglie, i tralci, il tronco tritato e alcune zolle del terreno circostante.
Vin del carbon – Dopo il successo del vino del ghiaccio della valle di Susa, che si ottiene da acini congelati raccolti in dicembre da immigrati lapponi, ecco il “vin del carbon” delle valli trentine, proveniente da vigneti carbonizzati dopo incendi boschivi di particolare virulenza. Il vin del carbon ha profumi di antracite, lapilli e attizzatoio, ma soprattutto un forte retrogusto di garza e pomata antiustioni perché i grappoli devono essere raccolti ancora ardenti, e nei tini rimane inevitabilmente traccia delle medicazioni. Si deve bere rovente e si accompagna benissimo al celebre piatto trentino “urlo del Nani”, formaggio di malga fuso da bere direttamente dalla pietra incandescente.
Negramaro – Niente è più di moda del Salento, niente è più di moda della taranta, niente è più di moda del negramaro. Bere negramaro mentre si balla fino all’alba la taranta in una masseria del Salento, ecco il nuovo trend per i prossimi anni. Per non versare il vino mentre si balla, sono disponibili i caratteristici “mastelli grici”, enormi otri di provenienza tessalica che nelle danze rituali di tremila anni fa il bevitore trascinava con sè, senza mai fermarsi e senza mai sedersi. Nelle feste salentine questo rito antichissimo è destinato a rinnovarsi con grande successo, almeno fino a quando qualcuno si domanderà perché.