Il diritto al boh
Si seguono i grandi flussi di consumo, il grosso dei cibi e dei vestiti che si comprano ha il marchio impareggiabile della normalità, si clicca “Ferragni” perché si è letto da qualche parte che tutti cliccano Ferragni.
Ho passato la vita a esprimere opinioni (spero non a sputare sentenze), e mi sorprende imbattermi, ormai con una certa frequenza, in notizie, situazioni, personaggi che non mi dicono niente; e a proposito dei quali, dunque, non riesco a dire niente se non che, di loro, non ho niente da dire. Non che sia obbligatorio avere un’opinione su tutto e su tutti; e anzi, esiste un diritto alla distrazione, alla vacanza etico-politica. Lo chiamerei diritto al “boh!”. Non tutto può o deve coinvolgerci. Però, ecco: se tutti parlano di una cosa, e tu provi a toccarla, o a masticarla, e la tua mano trova solo il vuoto, e sotto i denti non senti nessuna consistenza, nessun sapore, siccome vivi in mezzo agli altri ti senti escluso. E l’uomo è un animale sociale – anche quando fa finta di non esserlo. La solitudine vale e arricchisce solo se sai che, quando ne hai voglia, puoi scendere in strada, confonderti tra la folla e sentirtene parte. Io vivo felice su un cocuzzolo in mezzo ai boschi solo perché so bene che, ogni volta che mi gira, posso andare a Milano o a Roma o a Parigi o dovunque e perdermi nella mischia.
Un caso di scuola, per me, è quello di Chiara Ferragni. La lunga intervista da Fazio ha confermato questa mia totale disconnessione con un fenomeno di massa comunque rilevante (quell’intervista ha fatto registrare il picco assoluto di ascolti di quel programma: più del Papa, più di Grillo, più di qualunque star americana). Alla voce “Ferragni” faccio seguire questa nota. Non sono né pro né contro. Non sono innocentista né colpevolista. Non mi risulta simpatica, nemmeno antipatica. Non dice una sola parola che mi coinvolga, non una sola che mi irriti. Le sue vicende giudiziarie mi sembrano decisamente ordinarie in un mondo, quello della comunicazione, nel quale la commistione tra pubblicità e non, la trasparenza delle intenzioni di chi comunica, anche nei media classici e pre-web, è molto spesso un principio disatteso, o addirittura cancellato. Con qualche pregevole eccezione che qui (proprio qui) non dico perché non sarebbe elegante.
È un’ovvietà aggiungere che dietro il personaggio Ferragni c’è sicuramente un essere umano e c’è una vita vera: ma io non sono in grado di coglierne neppure il lontano riverbero, non sento l’odore, il sapore, il suono di quella persona, come se appartenesse a una dimensione che mi sfugge totalmente. Anche se pronuncia solo parole comprensibili (margine di ambiguità o di sottinteso o di allusione o di sottotesto, zero: tutto solo assertivo e semplice, “sto bene”, “sto male”, “la mia vita privata”, “il mio lavoro”), quello che dice non lo capisco. Non ricordo quale canzone (forse di Riondino) diceva: sento la voce e non capisco le parole. Qui sento la voce, capisco anche le parole, ma non capisco che cosa vogliono significare.
Potrei chiudere la faccenda dicendo, molto banalmente, che sto invecchiando, i miei parametri e le mie esperienze sono quasi tutti novecenteschi. Mi mancano alcuni strumenti di lettura del nuovo mondo. Ciò che Ferragni dice, nel bene e nel male, a milioni di persone, non lo sta dicendo a me. Mi rimane però, in fondo al cervello, un pensiero strisciante, che fatico a respingere anche se attivo i miei sensori anti-età (ovvero: quelli che mi mettono in guardia dai miei quasi settant’anni). Il pensiero è che l’immaginario di massa sia ormai addestrato a gradire, anzi a preferire, proprio questo tipo di prodotti “neutri”, poco significativi e poco impegnativi, confortanti nella loro mancanza di spine, nella loro gradevole familiarità. Esattamente come certi cibi da supermercato che non fanno male, sono ben confezionati, hanno un prezzo molto accessibile, riempiono i carrelli, ma il giorno dopo che li hai mangiati non è che ne parli con qualcuno, non è che ne discuti con gli amici. Puoi dire: “ho assaggiato un formaggio di malga strabiliante, puzzolente il giusto”, mentre non ti sfiora l’idea che il petto di pollo in busta, o il mais in scatola, siano esperienze da raccontare. Sai solo che tutti lo mangiano, quel cibo, e questo è molto rassicurante, perché il grande numero è l’alibi più formidabile mai escogitato: se lo fanno tutti, una ragione ci sarà. Anzi: la ragione è proprio questa. Lo fanno tutti, evitando a ciascuno di noi la fatica di scegliere, volta per volta, che cosa ci piace e che cosa no, che cosa ci serve e che cosa no.
Si seguono i grandi flussi di consumo, il grosso dei cibi e dei vestiti che si comprano ha il marchio impareggiabile della normalità, si clicca “Ferragni” perché si è letto da qualche parte che tutti cliccano Ferragni. Chi ha indovinato quel flusso pigro e sereno della popolarità diventa ricco e famoso, e non mi sento di definirlo un demerito. Neanche un merito, però.
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La precedente puntata sui limiti e sulle insidie del politicamente corretto ha sollevato pochissime mail critiche (blandamente critiche) e molte consenzienti. Trovo una sintesi molto efficace – una specie di utile postilla – in questo breve passaggio della lettera della mia quasi coetanea Barbara Melotti, che vi propongo per necessità di sintesi, questa settimana vado di fretta, ieri non ho potuto lavorare alla mia newsletter, come faccio ogni domenica, perché ero a Peccioli con il PD – il Peraltro Direttore – e dunque ho un alibi di ferro.
“Tutto è terribilmente più triste in Italia, dove si correggerà forse, e a ragione, un politicamente corretto trasformato in religione censoria da alcuni, senza che come popolo lo abbiamo mai nemmeno lontanamente imparato o praticato nella sua forma sociale migliore, il rispetto dell’altro”.
Si suggerisce la più amara delle letture di questa vicenda: il politicamente corretto, qui da noi, rischia di venire rigettato prima ancora di averne praticato “la sua forma migliore”, che è il rispetto per gli altri. Questo mi ricorda molto una vecchia vignetta di Altan, che cito a memoria, con la spalla che dice a Cipputi: “Mi sorprende questo riflusso moderato, Cippa”. E il Cippa risponde: “Devo essermi perso il flusso progressista”.
O anche, in un motto del quale non saprei rintracciare la genesi esatta: siamo passati dalla barbarie alla decadenza senza essere passati dalla civiltà.
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Niente è più banale che solidarizzare con chi subisce un torto, ma nel clima di desolante e tragica e incattivita confusione, in materia “Israele/Palestina”, lo faccio lo stesso. David Parenzo, giornalista ed ebreo (che equivale a dire: panettiere e spagnolo, o ingegnere e ateo), è stato allontanato non amichevolmente da un’aula universitaria, a Firenze, in quanto “sionista, razzista e fascista”. Presentava un libro su Golda Meir. Parenzo conduce con equilibrio e competenza, su La7, uno dei pochi decenti programmi di approfondimento del mattino, “L’aria che tira”. Lo guardo spesso mentre sto in cucina a trafficare, da quel solerte massaio che sono. Ne apprezzo l’equilibrio e la capacità di fornire differenti punti di vista, non così ovvia nella prassi dei talk. So che Parenzo è un italiano ebreo, non saprei dire se sia sionista (ovvero se sia favorevole ai presupposti ideologici, in origine con forti matrici laiche e socialiste, che hanno portato alla fondazione di uno Stato israeliano), chiunque può escludere che sia fascista e razzista – a parte chi glielo gridava. È un’attribuzione illecita e idiota. Riflette il disastro verbale, politico, analitico nel quale stiamo sprofondando, laddove ebreo e israeliano (ovvero: Woody Allen e un cittadino di Israele; e tra gli israeliani l’oppositore di Netanyahu e l’ultrà ortodosso al governo), palestinese e seguace di Hamas, arabo e terrorista, antisemita e antisraeliano, sono concetti confusi nella stessa zuppa dolente, iraconda e alla fine inespressiva.
Cito un minuscolo aneddoto personale, anche divertente. In calce a non ricordo quale Amaca (ne ho scritte sul massacro del 7 ottobre, ne ho scritte sull’ecatombe di Gaza: cerchiobottismo? Direi dovere di cronaca), tra i tanti commenti, equamente divisi tra chi mi dava del nemico di Israele e chi del nemico della Palestina (i cerchiobottisti sono destinati a scontentare tutti) ce n’era uno brevissimo e a suo modo geniale. Diceva solamente: “Questa è l’opinione di Michele Serra Errante”. L’ho letto due o tre volte per capire se avevo capito. E credo di avere capito. Non so come, forse nella quarta di copertina di un mio libro, aveva letto il mio cognome per intero. Mi chiamo, effettivamente Serra Errante. Per uno strano caso, che definirei di proto-femminismo involontario, mio padre Serra, sposando mia madre Errante, decise di prenderne il cognome. Serra è un cognome sardo, Errante è un cognome siciliano, per la precisione delle Madonie. Ho ancora lontani cugini a Palermo.
Beh, leggendo “Serra Errante” quel mio commentatore, già orientato in modo ostile, avrà pensato all’Ebreo errante, figura leggendaria del Basso Medioevo. E dunque: questo qui è un ebreo, dunque tenete tutti ben presente che la sua è l’opinione di un ebreo. Vedete come, anche nelle tragedie, il lato comico non manca mai.
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So di deludere i numerosi fan, ma Zanzare Mostruose si prende un’altra settimana di vacanza. Per risarcimento, prometto faville per il prossimo numero. Buona settimana, qui in Appennino ha smesso di piovere, si sente il rombo dei fiumi e dei torrenti stracarichi d’acqua. È lo stesso rombo in tutto il mondo, l’acqua parla ovunque sempre e solo la stessa lingua. Beata lei.