Il classico radical chic
Una newsletter di
Il classico radical chic
Michele Serra
Martedì 7 gennaio 2025

Il classico radical chic

«Matteotti venne attaccato e deriso (dai fascisti, ovviamente, ma anche dalla sinistra massimalista e dai cattolici popolari) perché era figlio di benestanti, e nonostante questo socialista»

Giacomo Matteotti nel 1924
Giacomo Matteotti nel 1924

Giacomo Matteotti era il classico radical chic (gli anniversari servono a qualcosa, è grazie al centenario del suo assassinio che ho potuto imparare, di lui, molte più cose di quante l’icona di martire basti a dirci).
L’epiteto radical chic è dei nostri tempi, stucchevolmente di moda negli ultimi vent’anni seppure coniato da Tom Wolfe nel lontano 1970 per faccende molto di Manhattan. Ma la sostanza è esattamente la stessa: Matteotti venne attaccato e deriso (dai fascisti, ovviamente, ma anche dalla sinistra massimalista e dai cattolici popolari) perché era figlio di benestanti, e nonostante questo socialista. Un “nonostante” che non ha alcun valore logico e nemmeno psicologico, men che meno etico: perché, come ognuno può capire, niente – non l’intelligenza delle cose, non alcun genere di moralità – può impedire a chi sta in alto nella scala sociale di preoccuparsi di chi sta più in basso. Non osta, stare bene, il rapportarsi con chi sta peggio.

Allo stesso modo un numero notevole di non ricchi, e addirittura di poveri, parteggia per la destra e vota di preferenza per autocrati pieni di miliardi: eppure non si è ancora trovato un Tom Wolfe che li prenda per i fondelli con la stessa serena crudeltà. (Bisognerebbe indire un concorso, anzi lo voglio proprio indire, per trovare l’equivalente speculare del termine radical chic, così da immortalare il sottoccupato americano, o la derelitta che vive in un camper arrugginito, che vota Trump, evasore fiscale, e inneggia a Elon Musk, licenziatore seriale, mentre i due spendono in un’ora quello che molti loro elettori guadagnano in una vita, e festeggiano la loro smisurata fortuna nell’orribile villone di Mar-a-Lago. La cui tragica bruttezza è una punizione solo parziale dei loro misfatti).

La verità è che la somma di elementi che formano l’identità politica delle persone è imponente, e molto intricata. Non conta solo la propria collocazione nella struttura economica della società (elemento che il marxismo ha individuato e nominato con forza, ma alla fin fine ha sopravvalutato). Contano anche l’educazione familiare, l’esperienza personale, l’indole, il livello culturale, gli incontri, le convinzioni religiose, le emozioni e i sentimenti, gli avvenimenti storici, infine la seduzione delle idee. Un bel guazzabuglio che scardina in partenza il pregiudizio malevolo, e un bel po’ volgare, sull’impossibilità del benestante di parteggiare in buona fede, e con decenti ragioni, per una ripartizione più equa della ricchezza. Sia per altruismo (esiste!), sia per valutazioni quasi opportunistiche (una società meglio bilanciata e meno ingiusta è più rassicurante anche per i ricchi), si tratta comunque di una scelta libera e rispettabile. A volte perfino coerente, sostanziale e non formale, vedi il movimento americano “Tax the rich”, formato da miliardari arcistufi di fare beneficenza, amici del Welfare e vogliosi di un prelievo fiscale molto più alto dell’attuale; vedi anche l’esemplare articolo che scrisse per il Guardian Nick Hornby (quello di Febbre a 90′) quando non so quale governo laburista abbassò le tasse sui redditi più alti, e lui protestò: ma che diavolo fate, io vi avevo votato per il motivo opposto! E non disse: “nonostante io abbia un reddito alto”. Disse: “proprio perché ho un reddito alto, mi sembra giusto e necessario pagare più tasse”.

Eppure, è proprio attorno a quell’arbitrario, scorretto “nonostante” (ricco, e nonostante questo di sinistra) che è costruito l’intero edificio del dileggio, in certi casi del linciaggio, contro quelli che definirei “ricchi riflessivi”. Ma come? Hai la pancia piena e fai il filantropo? Hai il culo al caldo e fai finta di essere in ansia per chi deve temere il freddo? Come è possibile? Levati quella maschera fasulla, goditi il tuo benessere e non farla tanto lunga, un ricco dalla parte dei poveri non può che essere un ipocrita o un furbastro che si lava la coscienza con qualche paroletta edificante.
E certo, magari peserà anche un quid di senso di colpa, nel benestante di sinistra. E il senso di colpa non è mai un agente “sano”, qualcosa di patologico lo contiene sempre. Peggiore del senso di colpa, però, e ben più patologica, è l’insensibilità, è l’esibizionismo scemo, è la certezza che tutto ti sia dovuto e nulla tu debba agli altri. Se il contrario della dama misericordiosa che regala i vestiti usati ai poverelli è il corteo di ricchi burini che sui social gongolano sulla Lambo (povera Lambo, che avrà mai fatto per essere in ostaggio perenne dei burini?) e sventolano barche, orologi e starlette al seguito, preferisco cento volte le dame misericordiose.

Bisognerebbe che gli odiatori dei radical chic, che riducono la lettura del mondo, e dell’umano, a una gretta conta di interessi personali, e tutto il resto è solo una furba simulazione (i furbi non sanno vedere, ovunque, che furbizia), bisognerebbe, dicevo, che si arrendessero all’evidenza. Quasi tutti i grandi leader rivoluzionari, quasi tutti gli ideatori e gli artefici dei movimenti filantropici, e di emancipazione dal bisogno e dall’ignoranza, erano, in buona sostanza, dei radical chic. Era gente che aveva studiato e aveva potuto concedersi il lusso di pensare. La borghesia colta europea ha fornito quasi tutti i quadri politici della rivoluzione proletaria, del socialismo e del comunismo, a partire da Karl Marx, figlio di un facoltoso avvocato, e Friedrich Engels, figlio di un industriale molto ricco (il comunismo, qualcuno ha detto, è l’ultima eresia borghese). Erano ricche le signore inglesi che diedero vita al fabianesimo, ricche le prime dame in visita ai carcerati, stavano bene i professori di ogni epoca che hanno stilato i vari codici di questa o quella rivoluzione sociale, senza che nulla gliene potesse venire in beneficio se non il prestigio intellettuale e il carisma politico.

Dal popolo, da che mondo è mondo, vengono soprattutto i capipopolo, i masanielli dei vari tumulti di corto respiro e delle jacqueries sempre finite in braccio al potere (il fascismo è un caso di scuola). Non le leadership, non la guida intellettuale e politica dei movimenti e delle organizzazioni di massa, con l’eccezione ovvia e parziale del sindacalismo, che è di popolo per sua natura: il bracciante analfabeta Di Vittorio, poi segretario della Cgil e leader comunista di primo piano, è tra i non tanti proletari che ebbero in mano il destino del proletariato. Il grosso, sempre, nei secoli, erano persone alle quali la vita aveva concesso il privilegio di non avere fame, di non essere sopraffatti dal bisogno e dalla soggezione sociale.
Ai poveri nemmeno questo è concesso, di poter provvedere alla loro redenzione senza l’aiuto di una folta schiera di “signori” che hanno letto e pensato anche per conto di chi non poteva permetterselo. Giacomo Matteotti fu tra questi, radical chic ad honorem, e con onore.

*****

In così tanti anni di giornalismo (quasi cinquanta, mi imbarazza dirlo…) mi sono capitate polemiche e logomachie di ogni genere, qualcuna utile, la maggior parte inutili, e quasi tutte, comunque, non decisive per le sorti del genere umano. Si dimenticano i colpi inferti e i colpi subiti, e per fortuna che l’oblio, panacea di ogni dolore, viene a soccorrerci. Ma c’è sempre qualcosa da aggiungere e qualcosa da imparare. Un lettore di Repubblica mi ha segnalato che la mia Amaca di fine anno, che era dedicata a Elon Musk (un mio chiodo fisso), è uscita, nell’edizione cartacea, mozzata delle prime due righe; e che questo incidente tecnico, increscioso quanto raro (non era mai accaduto) ha dato l’occasione alla conduttrice di una rubrica radiofonica del mattino per bacchettarmi molto severamente. Una cosa tipo: invece di dare lezioncine agli altri, perché non controlli quello che viene pubblicato con la tua firma?

Non mi era mai capitato di vedermi imputato un refuso o un errore tipografico (chissà se nell’evo elettronico si può ancora dire: errore tipografico), ovviamente fuori da ogni mia possibilità di controllo, e credo che nella storia del giornalismo questo sia quasi un primato. Da un certo punto di vista ne sono orgoglioso. Da un altro punto di vista, considero che il livello di nervosismo e di malanimo è davvero preoccupante, se anche un refuso (divertente impiccio, svarione e non colpa, inciampo e non delitto) diventa oggetto di polemica. Se per esempio uno vuole scrivere Marx e digita per errore Mars, o qualche diavoleria elettronica corregge automaticamente Marx in Mars, che cosa è meglio fare? Ridere insieme dell’incidente, o puntare il dito e dire: “imbecille, hai confuso un grande filosofo con una marca di dolciumi?”.

Non è forse meglio quell’inno affettuoso ai refusi, e ai titoli sbagliati o sguaiati o incauti, che è la gloriosa rubrica Zanzare Mostruose? Sì, è decisamente meglio, anche perché mantiene ben viva la differenza, sostanziale, tra l’errore e la colpa. Gli errori sono il nostro pane, la colpa, potendo, è meglio riservarla a occasioni più gravi. Complici le feste, comunque, di Zanzare ne sono arrivate quasi zero, panettone e datteri, riunioni familiari e bagordi hanno intorpidito la vostra attività di delazione. E dunque rimandiamo alla prossima settimana le Zanzare. Datevi da fare, sorelle e fratelli.

*****

Non ho mai festeggiato la Befana (forse da piccolissimo, quando ancora abitavo nella nativa Roma e una vecchia zia di nome Ninnì mi portava una calza piena di cioccolatini e torroni, e anche il carbone bianco e il carbone nero, durissimi sotto i denti, zucchero temperato, tipo l’acciaio). Poi qualche calza per i miei figli piccoli devo averla appesa al camino, ma nel complesso non posso dire che sia una festa che ho mai celebrato per davvero. Il suo pregio, dall’alto dei miei anni, ora mi sembra quello contenuto nel motto: “tutte le feste si porta via”. Dal 7 di gennaio la vita sembra nuovamente normale, e ditemi voi se la normalità non è un clamoroso vantaggio.

Fa piuttosto freddo, qui al Nord, galleggiamo intorno allo zero. Bisogna mettere i guanti, se si esce di casa, volendo anche il cappello. Un lupo solitario ha dormito non lontano da casa, nella notte tra venerdì e sabato, e l’ho visto allontanarsi, alle prime luci dell’alba, verso il bosco. Andava al passo, non sembrava in ansia. Impossibile sapere da dove era venuto e dove stava andando. I lupi, chi li capisce. Basti dire che sono partiti, a metà degli anni Settanta, dal Parco degli Abruzzi. Erano in pochi superstiti, qualche decina. E hanno risalito, zitti zitti, l’intero Appennino, figliando e camminando, camminando e figliando, fino ad arrivare in Francia, nelle Alpi Marittime, giusto in tempo per dare il titolo a un romanzo di Fred Vargas.
Se questo lupo non fosse andato a infrattarsi e non fosse scomparso chissà dove, se fossi stato più svelto a uscire di casa e avessi potuto incontrare il suo sguardo, gli avrei detto: in alto i cuori.