Generazioni, più o meno
Il titolo Ok Boomer! è un gioco. Non vuole essere celebrativo, tanto meno rivendicativo o nostalgico. È una banale sottolineatura anagrafica, però accesa da una certa ilarità – quella che coglie chiunque si renda conto di essere in vista dei settant’anni, cose da pazzi. Ho chiesto a Luca Sofri: per piacere, chiedi al grafico se può farmi una testatina festosa, tipo cartoon, alla Merrie Melodies (allegri motivetti…), molto colorata. Cliccando sulla scritta bisognerebbe sentire una musichetta di sottofondo (l’idea che ho del Post è di un medium molto, molto avanti dal punto di vista tecnologico).
L’appartenenza a una generazione non va presa troppo sul serio. È un tratto identitario molto più evanescente di quanto si pensi. “Le generazioni”, intese come una specie di corporazione di simili tra loro, non esistono in assoluto – Adolf Hitler e Charlie Chaplin nacquero a quattro giorni di distanza, e tra i miei coetanei, come sempre e ovunque, le brave persone e i farabutti sono, a occhio e croce, ugualmente abbondanti.
I boomers in particolare sono un’invenzione della sociologia americana, ricalcata per giunta soprattutto sulla popolazione americana bianca (lo spiega bene nelle sue lezioni il mio amico Franco Fabbri, sociomusicologo e musicista: suonava negli Stormy Six, lo dico per gli over-65). Questo significa che tecnicamente gli italiani nati prima del 1960 – io sono del ’54 – non sono per niente boomers, perché il boom economico negli Usa, e non in tutti gli Usa, cominciò subito dopo la guerra; in Italia una dozzina di anni dopo. Quando sono nato io, l’umore povero e semplice del dopoguerra e le macerie dei bombardamenti erano ad ogni passo. Gli analfabeti erano ancora una moltitudine: incredibile a dirsi, molti di più di adesso…
Ma se boomer vuol dire uno di quelli che hanno avuto un gran culo, perché nati e vissuti senza mai fare la guerra o vederla sotto casa loro, in case bene riscaldate e illuminate; e siccome era arrivata la lavatrice le loro madri e nonne non avevano più le mani arrossate dalla varechina e piene di geloni; e poi sono cresciuti in un progressivo benessere, quando niente si sapeva degli impatti ambientali e umani del consumismo, e la pattumiera si buttava in orridi cavedi scavati nei muri dei palazzi, e tutto finiva spiaccicato in altrettanto orridi stanzini puzzolenti a pianterreno; e poi hanno trovato lavoro facilmente, perché di lavoro ce n’era a bizzeffe, e comperato casa facendo un mutuo grazie ai primi stipendi: beh allora sì, allora sono proprio un boomer.
So che i lettori del Post, nella media, sono più giovani di una ventina d’anni (tanti) rispetto all’attempato pubblico che legge i vecchi quotidiani di carta. Ovvero il grosso del mio pubblico, del quale posso dire: siamo cresciuti assieme. È esattamente per questo che sono molto contento di essere qui: è molto probabile che io debba scombinare certe abitudini e disinnescare certe pigrizie.
Ci sono cose che si sottintendono troppo facilmente, quando si è “cresciuti assieme”. Si parla come tra vecchi amici, c’è una memoria condivisa, un linguaggio comune. Ci si capisce al volo, e capirsi al volo non sempre è un vantaggio, perché ci si accomoda sopra le cose che già si sanno e sopra le idee nelle quali già si crede. Meglio capirsi, già in partenza, un poco di meno, sentirsi costretti a spiegare e raccontare con altre parole, o con le stesse parole però rimescolate. Bentrovati dunque, ancora sconosciuti lettori del Post. Cercherò di vampirizzare qualcosa della vostra gioventù. Se poi tra voi ci sono altri boomers, beh pazienza, vedremo di sopportarli.