Esistono ancora i campi
Una newsletter di
Esistono ancora i campi
Michele Serra
Martedì 25 giugno 2024

Esistono ancora i campi

«Montagne di cibo mediocre riempiono i carrelli dei frettolosi (ovvero di noi tutti). Non esiste etichetta che riporti il salario orario di chi ha curato o raccolto quel cibo. Abbiamo imparato a fare un poco più di attenzione ai possibili veleni, additivi a rischio, coloranti non richiesti, possiamo orientarci tra bio e non bio, ma dei costi sociali di quello che mangiamo siamo completamente all’oscuro»

(ANSA/ UFFICIO STAMPA GUARDIA DI FINANZA)
(ANSA/ UFFICIO STAMPA GUARDIA DI FINANZA)

“Finché la passata di pomodoro sarà messa in vendita a 70 centesimi al barattolo, il caporalato esisterà sempre e il lavoro agricolo sarà sempre sottopagato. Bisogna mangiare la metà, pagando il doppio”.
Se nella tastiera del mio computer, oltre alla sottolineatura, ci fossero un sottofondo musicale e un richiamo luminoso per segnalare l’importanza di una frase, li avrei adoperati. Bisogna mangiare la metà pagando il doppio. La sintesi di Oscar Farinetti – qualunque cosa voi pensiate di Oscar Farinetti – è un poco stentorea, ma impeccabile. Spiega strutturalmente (non emotivamente) perché le condizioni di lavoro nelle campagne ci appaiono spesso primitive e indecenti. Spiega perché il bracciante indiano Satnam Singh, sottopagato come tanti, sia stato abbandonato come una carriola rotta dai suoi ignobili datori di lavoro, nemmeno una corsa in ospedale per cercare di ricucirlo e salvarlo, la stessa sottrazione di dignità umana che lo accompagnava nei campi lo ha accompagnato nell’agonia e nella morte.

Nel linguaggio dei media quelli come lui si chiamano “gli invisibili”, ma l’invisibilità è la condizione della filiera del cibo quasi per intero. Solo il suo ultimo tratto – la vendita al dettaglio, la vetrina finale – è per definizione esposto, brillante di colori e di profumi, da qualche anno corredato (ed è già qualcosa) da etichette che indicano la provenienza, la scadenza, gli eventuali allergeni, a volte alcuni dei componenti. Il resto è rimosso, occulto, sconosciuto. I nostri avi, tra tanti evidenti svantaggi e afflizioni, conoscevano però quello che mangiavano: o perché lo producevano direttamente, o perché lo acquistavano a poca distanza da casa, quasi sempre da produttori noti. Conoscevano il cibo come se fosse parte della famiglia e del territorio.

Ovvio (tanto ovvio che non so nemmeno se valga la pena scriverlo) che il mercato diffuso, la grande distribuzione, la globalizzazione di tutte le merci compresi i cibi, hanno avuto i loro grandi vantaggi. La rivoluzione agricola ha moltiplicato le quantità; la grande distribuzione ha favorito l’accesso di tutti, o quasi tutti, a una enorme varietà di prodotti, contaminando e arricchendo le culture alimentari locali. Ma la quantità non è la qualità – almeno questo, della società di massa, avremmo dovuto capirlo, e farne un elemento basilare di ogni possibile analisi del nostro modo di vivere.
Montagne di cibo mediocre riempiono i carrelli dei frettolosi (ovvero di noi tutti). Non esiste etichetta che riporti il salario orario di chi ha curato o raccolto quel cibo. Abbiamo imparato a fare un poco più di attenzione ai possibili veleni, additivi a rischio, coloranti non richiesti, possiamo orientarci tra bio e non bio, ma dei costi sociali di quello che mangiamo siamo completamente all’oscuro. Se poi qualcosa costa poco, tendiamo a comperarne molta, di quella cosa. A farne provvista come se alla guida del nostro carrello ci fosse ancora e sempre la fame ancestrale. È il contrario esatto dell’esortazione di Farinetti: mangiamo il doppio pagandolo la metà. In tutto l’Occidente l’obesità è piaga dei poveri.

La proverbiale vicenda dell’ “orto alla Casa Bianca” voluto da quella santa donna di Michelle Obama, e ovviamente subito espiantato dal nuovo inquilino, il bruto Trump, non ha niente di aneddotico, di pittoresco, di divertente: è politica allo stato puro. Ed è politica popolare, gesto simbolico per richiamare “il popolo”, tanto caro ai demagoghi miliardari come Trump, alla qualità del cibo, a ridiventare padrone del proprio metabolismo, una specie di “io sono mio” che parte dalla conoscenza di quello che ci si mette in bocca e in pancia.

La filiera del cibo, per quanto possibile, andrebbe considerata tutta assieme, dal campo fino al piatto. I pionieri come Carlo Petrini e Slow Food, che quella filiera hanno cercato, negli ultimi quarant’anni, di portarla “in chiaro”, sono attivisti politici che la superficialità mediatica ha trasformato in ghiottoni gaudenti, con la fissazione del cardo gobbo e del lardo di Colonnata. Si sono occupati, eccome, anche della passata di pomodoro, anche di Satnam Singh, e da decenni convocano, a Torino, forse il più grande raduno mondiale di contadini, Terra Madre. Ma Carlo Petrini, mio amico di una vita, mi ha sempre raccontato che i leader della sinistra gli telefonavano solo per chiedergli dove si mangia meglio, in giro per ristoranti e trattorie d’Italia. Carlo, troppo gentile, li rimandava sempre alla guida Slow Food. Avrebbe dovuto dire loro: “Quando hai finito, dopo il caffè, magari richiamami che ci diciamo due o tre cose sul lavoro nei campi”.
“Compagni dai campi e dalle officine!”, si cantava in un tempo remoto. Un canto del Novecento che suona come un canto dell’Ottocento. In tempi recenti ci si sta accorgendo che non solo esistono ancora le officine. Esistono anche i campi.

*****

Il mio elogio di Françoise Hardy peccava, forse, un poco di passatismo, con la bellezza “originaria” contrapposta agli eccessi di contraffazione, ritocco, trucco e parrucco dei tempi moderni. Per altro, qualche concessione al boomerismo mi spetta, come dire, per contratto. Le vostre mail sono però molto indulgenti con il mio slittamento a ritroso nei decenni. Per altro avevo scritto, anche, che mi pare di notare segnali di insofferenza all’overdose di belletto anche nelle nuove star ventenni: vogliamo chiamarlo “ritorno alla faccia”? “Make Face Great Again”? In ogni modo, qui sotto, una breve rassegna di interventi nel dibattito.

“Riporto da Gli aquiloni di Romain Gary: ‘Osservate con quale disperazione i sarti, sia da uomo che da donna, i truccatori e i parrucchieri lottano contro l’assenza di espressione, la volgarità d’animo e la miseria intellettuale di questo fior fiore della società… e mia madre, se non potesse più pagare la signorina Chanel, il parrucchiere Antoine, il massaggiatore Julien, la truccatrice Fernande e il gigolò Nino, comincerebbe ad assomigliare a una cameriera miope che non sa più dove ha lasciato il ferro da stiro’. Era il commento caustico di uno dei protagonisti del libro: Tad, un ventenne degli anni 30/40 che leggeva il vuoto e l’ipocrisia dell’ alta società nel suo rincorrere inutilmente una finta e posticcia bellezza, costruita e manipolata quotidianamente attraverso artifici costosi, nella speranza di attenuare e mascherare i difetti fisici dell’età che avanzava. Da un po’ di tempo a questa parte sembra essere ormai l’unica occupazione anche di alcuni giovanissimi, quand’anche carine/i, privi di rughe e difetti particolari. Forse si sentono già vecchi, o forse l’ansia di vita si è trasformata in ansia e basta. Anziché afferrare la vita, soccombono alla fragilità e insicurezza”.
“La terribile frase di Helena Rubinstein (perfetta per creare un esercito di persone frustrate e di consumatrici schiave del senso di colpa) ‘non esistono donne brutte, ma solo donne pigre’ sembra essere ormai mantra quotidiano: giornate intere impegnate a costruire e plasmare un’immagine fisica instagrammabile, e senza contare i soldi spesi. La bellezza, nelle persone come nelle cose, nell’architettura, nei paesaggi, nelle immagini, si palesa solo dall’ estrema pulizia delle linee, dalla semplicità e leggerezza, dall’essenziale. ‘Less is more’, come sempre. Lavorare a togliere. Ogni aggiunta superflua si vede e deturpa. Ogni trucco eccessivo invecchia e appesantisce. ‘L’ornamento come delitto’, scriveva l’architetto austriaco Adolfo Loos ai primi del Novecento.
Forse la regola aurea nella composizione vale ancora oggi. E forse Françoise Hardy, come tante e tanti ventenni di quel periodo, ma anche di oggi, rientrano in questa regola. Inconsapevolmente e serenamente”.
Laura Beltramino

“Una curiosità: il George Washington di Canova, alla Gipsoteca di Pozzagno, è preciso a Jude Law, visto con i miei occhi. Ahahaha!”
Roberta Messina

“Discutevo proprio di bellezza con un amico che frequenta spesso le vie fighette milanesi (non serve prendere la metropolitana: anche in provincia ci siamo arrivati…). Come si fa a dire che non sono belle queste donne cristallizzate nella loro giovinezza? Di certo lo sono. E per fortuna: ci investono cosí tanto tempo, cosí tanti soldi e cosí tanta audacia, nelle avventure con pozioni, aghi e bisturi. Commentavamo insieme: peccato che non lo sappiano, che a noi piacciono i piccoli difetti. La bellissima ragazza che mi ha servito il caffé la settimana scorsa me la ricordo ancora bene. Bellissima in modo indiscutibile, nonostante un naso imperfetto. Proprio per quel naso imperfetto. Che non se lo corregga mai. Altrimenti sarebbe ‘solo’ bellissima come tutte le altre. Sarebbe imperdonabile”.
Matteo

“Io ero proprio innamorato di Françoise Hardy. Una che avrei portato a passeggio ‘main dans la main’ all’infinito. Ho provato questo innamoramento solo per un’altra donna ‘personaggio pubblico’: Juliette Binoche (più vicina alla mia età). Sarà perché sono innamorato della Francia, delle sue città e dei suoi villaggi, dei suoi scrittori, delle sue canzoni, del suo cinema (‘L’argent de poche’, di Truffaut, molto francese, mi aveva suscitato nostalgia quasi fossero stati la mia vita e i miei luoghi). Una francese l’ho anche sposata. Lei certamente rappresentava una donna a suo modo ‘ideale’ proprio perché libera da tante sovrastrutture culturali. Una donna nella sua essenza: l’amore, la dolcezza, la timidezza, la solarità, la delicatezza, la spontaneità del sorriso, la bellezza naturale, la non volgarità. Mi ricompongo un attimo e, da padre di due figlie, plaudo all’emancipazione della donna dai suoi stereotipi, all’abbattimento delle barriere che la costringevano a un ruolo subalterno, ai ruoli apicali oramai non più preclusi; e sono felice che sempre più donne si affermino dando prova di grande intelligenza, fermezza, autorevolezza. Eppure, se penso a come mi rappresento l’Amore, mi appare il suo volto, la sua voce”.
Marco

“Ma sulla bellezza inconsapevole e magnetica proprio in quanto tale, io un sospetto ce l’ho: occorre essere francesi più di quanto non occorra a un pizzaiolo essere napoletano. Ma hai presente Simone Signoret, fino all’ultimo dei suoi giorni?”
Barbara Melotti

“Da un recente sommario di El País, supplemento ‘Ideas’, intervista alla saggista italiana Maura Gancitano: “Liberarse de la tiranía de la belleza significa dejar de vernos como envoltorios para los demás”. Liberarsi dalla tirannia della bellezza significa smetterla di vedere noi stessi come involucri per la maggioranza”.
Pasquale D’Ascola

*****

Matteo Corradini lavora da molti anni sulla memoria. Specie sulla memoria della Shoah (si definisce: ebraista e scrittore). Io lo conosco perché è tra gli organizzatori dell’ottimo festival letterario “Scrittori in città”, che si fa ogni anno a Cuneo. E perché abita nella mia stessa vallata, io sul cocuzzolo lui giù nel borgo. La sua newsletter, tra tante altre cose, cerca di parlare della tremenda vicenda Israele/Palestina con un rispetto ammirevole, e aggiungo molto raro, delle persone, tutte, travolte da quel macello. Le tragedie e i torti sono cose che abbiamo il dovere di sommare – troppo comodo eliderle l’una con l’altra.

Corradini lavora molto sull’identità e raccoglie storie sull’identità. Racconta, per esempio, di Rivka-Sally, giornalista ebrea e nera “alla quale in USA è stato chiesto più volte se fosse davvero ebrea, poiché i poliziotti che la fermavano non credevano potesse esistere un’ebrea nera, o una nera ebrea. È una mentalità diffusa: due identità distinte non possono assolutamente incontrarsi, no? Tantomeno nella stessa persona: poche cose intaccano la convivenza come la cristallizzazione delle identità”. Sì, poche cose intaccano la convivenza come la cristallizzazione delle identità. Solo di recente ho cominciato a capire per davvero perché Lucio Dalla non voleva essere definito omosessuale. Credevo, stupidamente, che fosse reticenza, o pudore. Invece no: Lucio era anche troppe altre cose perché una sola parola rischiasse di definirlo. “E si farà l’amore ognuno come gli va”.

*****

Zanzare mostruose non può che aprirsi, trionfalmente, con il primo refuso di Ok Boomer!, almeno il primo refuso regolarmente denunciato e messo agli archivi. Lo segnala il lettore Giorgio Giorgi, che invoca una “standing ovation a Michele Serra e ai correttori di bozze” (grazie, grazie). La settimana scorsa volevo segnalare “l’imponente opera del Kabirowsky”, mi è uscita “l’impotente opera”. Nemmeno l’occhiuto controllo di quelli che al Post passano al setaccio le mie parole (forse il Post è rimasto l’unico giornale italiano che considera importante quello che c’è scritto sui giornali) è riuscito a individuare l’errore. La cosa divertente è che l’errore aggiunge un certo humour all’intenzione già umoristica della citazione: il Kabirowsky non esiste, e la sua “impotente opera” era evocata come generico monito a tenere conto di ciò che non sappiamo. Ma che una imponente opera possa essere anche impotente (ovvero: nemmeno il Kabirowsky è in grado di dire l’ultima parola), è, diciamo così, un monito collaterale. O forse, addirittura, è ciò che davvero avrei voluto dire, e sono riuscito a dirlo solo sbagliando… Così come esiste il lapsus freudiano, chissà che non esista anche il refuso freudiano.

Passando al resto del mondo. Mario Fiorentini segnala, su QuiLivorno, questo evidente equivoco nella delicata materia “ordine pubblico”:

RICONOSCE LA BICICLETTA RUBATA E CHIAMA IL 112
INSEGUITO DAI CARABINIERI E DENUNCIATO

Malgrado il titolo faccia pensare il contrario, si suppone, anzi si spera, che le guardie abbiano inseguito il ladro.

Infine, quasi una rubrica nella rubrica, segnalo personalmente “il titolo misterioso” di questa settimana. Uno di quei titoli che ingenerano domande a catena. Forse, più che misteriosi, sono titoli insolubili. Da Repubblica.it:

PIO E AMEDEO: PASSIAMO ALLA REGIA ANCHE SE I COLLEGHI SNOB NON CI SALUTANO.
LORO VANNO ANCHE AI FESTIVAL MA CON I SOLDI CHE FACCIAMO NOI

Tra le cento domande: sarebbero passati alla regia molto prima, nel caso i colleghi snob li avessero salutati? E chi sono (vogliamo i nomi!) i registi che vanno ai festival con i soldi di Pio e Amedeo? Forse, cari amici, è sbagliato farsi troppe domande. Bisogna che la vita scorra, e noi, pagaiando felici, insieme a lei.
Come sempre: in alto i cuori!