«Esco, serve niente?»
«E dunque spesso rimugino su quanto leggera, forse vacua, sia la mia pretesa di uscire ogni mattina. Un poco mi sento in colpa. A volte penso che, nel cumulo di ore spese, lungo la vita, a cazzeggiare in giro per la strada, avrei potuto scrivere l’Iliade, ammesso di avere un talento omerico»
Per me ogni nuova giornata deve avere una specie di inaugurazione. Un suo inizio ufficiale. È quando, dopo avere dato un’occhiata alle notizie, quasi sempre pessime, sullo stato del mondo, avere dato da mangiare ai cani e al gatto, data un’occhiata al meteo, scambiato qualche parola con mia moglie a proposito dello stato, pessimo, del mondo, provveduto alla mia manutenzione personale (più laboriosa mano a mano che gli anni passano), finalmente esco di casa, in genere con il pretesto, ottimo, di “dover comprare qualcosa” – altrimenti la vita domestica potrebbe risultare gravemente compromessa.
Ovviamente non c’è alcuna vera urgenza di venti bulloni del 10 o di due teste d’aglio, di olive ascolane surgelate o di due confezioni di pile stilo (anche una di ministilo). Potrei andare a comperarli anche domani o dopo, non cambierebbe nulla. Ma la simulazione rituale è che io debba uscire, anche nei giorni nei quali l’accumulo di lavoro suggerirebbe di rimanere in casa e mettermi di buon’ora al computer (sono in ritardo con tutto!). Che io debba fare ciò che in realtà voglio fare: respirare l’aria del paese – della città quando sono in città –, andare al bar, salutare chi conosco e osservare gli sconosciuti, confondermi nel mondo trovandolo, ogni volta, meno pessimo di come sembrerebbe dalle news, insomma perdere gradevolmente un poco di tempo.
Poi finisce che mi metto al computer tardi, a volte dopo pranzo, e maledico l’ora, o il paio d’ore, spese a far niente, o meglio a sacrificare le cose che urgono sull’altare di quelle che non urgono.
Un tempo c’erano giustificazioni incontrovertibili per uscire di casa – a parte l’ovvia scansione di chi andava, e ancora va, al suo posto di lavoro. Anche chi il lavoro (come ormai è condizione abbastanza diffusa) ce lo ha in casa, se lo porta addosso, in genere usciva per comperare i giornali. L’edicola, insieme al bar, era il primo vero richiamo del mondo, ogni mattina. Parliamo di secoli trascorsi, ma insomma, ci siamo passati dentro.
Oggi le notizie le trovo, al risveglio, accanto al letto, su uno degli aggeggi portatili che ormai sono parte stabile di ciò che chiamiamo “io”, e dunque anche quel piacevole obbligo – devo andare a prendere il giornale, o i giornali – è dismesso. I bulloni del 10, è evidente, non sono altrettanto cogenti, come richiamo. E dunque spesso rimugino su quanto leggera, forse vacua, sia la mia pretesa di uscire ogni mattina. Un poco mi sento in colpa. A volte penso che, nel cumulo di ore spese, lungo la vita, a cazzeggiare in giro per la strada, avrei potuto scrivere l’Iliade, ammesso di avere un talento omerico.
Beh, sapendo di farmi un regalo, mia moglie – che di mattina comincia a lavorare molto prima di me, non so come diavolo faccia; in compenso finisce molto prima, e ho l’impressione che ci sia un nesso tra le due cose – mi ha segnalato qualcosa che non conoscevo. Un breve testo di Kurt Vonnegut che sembra scritto apposta per farmi sentire meglio quando vado a comperare, senza averne particolare bisogno, un branzino, un imbuto o una torta sbrisolona. Il testo è tratto da una lunga intervista televisiva di Vonnegut, concessa nel 2005 a David Brancaccio del network PBS. Essendo una trascrizione circola in rete in varie versioni, comunque molto simili l’una all’altra. Ho scelto la più breve. La traduzione è mia, abbiate pazienza.
«Ho detto a mia moglie che andavo a comperare una busta. E lei mi ha detto: ‘Non sei un indigente. Perché non ne compri cento tutte in una volta? Te le ordino on line e le metti in un cassetto’. Ho fatto finta di non sentirla e sono uscito a comperare la mia busta perché ci sono un sacco di cose divertenti nel processo: andare a comperare una busta. Sono andato all’edicola dall’altra parte della strada dove vendono riviste, biglietti della lotteria, dolciumi e roba di cartoleria. Sono segretamente innamorato della cassiera. Mi sono messo in coda davanti alla cassa e ho incontrato un sacco di gente. Ho visto parecchie ragazze notevoli. Ho salutato un camion dei pompieri che mi è passato accanto. Ho chiesto a una ragazza di che razza era il suo cane. E non ricordo cos’altro. La morale della storia è che siamo venuti al mondo per andarcene in giro. E i computer ci evitano di farlo. Quello che la gente che sta al computer non capisce, oppure non gliene importa niente, è che siamo animali danzanti. Ci piace muoverci. E adesso è come se fosse previsto che abbiamo smesso di danzare, e non lo faremo mai più. Suvvia, alzatevi, datevi una mossa, fate un giro intorno a casa vostra. O perlomeno: danzate».
Devo dirvelo: mi sono venute quasi le lacrime agli occhi per il sollievo, scoprendo che, quando cazzeggio sotto i portici con le fioriste, o bevo un caffè di troppo per tenere compagnia a un amico, o entro dal ferramenta (i ferramenta sono i negozi più belli del mondo) senza avere bisogno di niente di particolare, è perché siamo “animali danzanti”. Poi Vonnegut, forse ve l’ho già detto, è il mio scrittore “del cuore”, ho una sua foto bellissima proprio davanti alla scrivania, un po’ come i poster nelle camerette dei teen-ager. Lo saluto spesso, direi quasi ogni giorno. È morto nel 2007, due anni dopo quell’intervista, e spero che abbia fatto in tempo, nei due anni residui, ad attraversare la strada parecchie volte, senza farsi investire dal camion dei pompieri, e comperare buste: una alla volta.
Nell’ipotesi che non l’abbiate ancora fatto, vi suggerisco di leggere i suoi libri. A parte il romanzo considerato il suo capolavoro, Mattatoio n.5, sul bombardamento di Dresda, uno dei libri più precisi, struggenti, antiretorici mai scritti sulla guerra, vi suggerisco, tra i tanti, Comica finale e Il grande tiratore. Parlano della disumanità dell’America con un’umanità infinita, comica e commovente. Trump non ha mai letto niente, ma se anche avesse letto qualcosa, sicuramente non avrebbe mai letto Vonnegut.
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Il piccolo censimento di “nomi leghisti” che Ok Boomer! effettua ormai da mesi ha avuto, come i lettori più affezionati sanno bene, un innesco autobiografico: rileggendo mie vecchie satire non riuscivo più a capire, tra Joe Formaggio e Janet Buleghin, chi fosse persona in carne e ossa, chi parodia inventata da me. La satira, si sa, coglie il dettaglio comico e ne approfitta. Lo ingrandisce. Lo esaspera. Se ti accorgi che i leghisti, in misura superiore ad altre parti politiche, si chiamano più frequentemente Jordan e Susan, lo fai notare. Tutto questo gran parlare di radici, di tradizioni cristiane, di virtù locale che lotta contro la corruzione globale, tutto questo “sangue e suolo”, rosari e crocifissi, e poi ti chiami Maverik? E i radical-chic, traditori delle radici cristiane, che continuano a chiamare i figli Giuseppe e Maria? Come minimo, devi aspettarti che qualcuno lo noti, e ci rida sopra.
Ma un bel gioco dura poco, e dunque è benvenuta una mail, dal profondo Veneto, che rimette alcuni puntini sulle i e mi aiuta a dichiarare conclusa questa parentesi, ancorché spassosa, dei nomi leghisti.
“Noto un certo gusto a parlare dei nomi leghisti. Ora studio all’estero ma ho vissuto finora in un paese dell’entroterra veneto. Tre fatti: il primo, i nomi stranieri ‘fanno bello’. Non so come altro tradurlo dal Veneto, ma così sento sempre dire in giro. Il secondo, la Lega qui vince con medie del 75% da quando la Democrazia cristiana non c’è più. Non risultano altri partiti importanti nella storia elettorale del paese. Il terzo, è da quando ho iniziato le scuole che sono in classe con le varianti Braian, Brian e Bryan; Stepny, Shnaider, i gemelli Gioellensole e Christopherjoseph; Giasmin, Meghy, Katiuscia, tutti seguiti da cognomi tipicamente veneti. Non mi soffermo sui vari Robert, John, Leonard, Jane, Shari, Joy, Nicol, Morgan; più della metà degli abitanti qui ha nomi stranieri (con ortografia corretta, se hanno un po’ di fortuna). Per illustrare la scala e la dimensione strutturale del fenomeno: una conoscente di mia madre si chiama Jlenya. Leggenda vuole che il padre fosse andato a registrarla all’anagrafe come Ilenia. L’impiegata dell’epoca chiese ‘Come si scrive?’, guadagnandosi la risposta ‘Mah, faccia un po’ lei’. Ora, a lei la scelta. Viene prima l’uovo (il nome che ‘fa bello’) o la gallina (l’appartenenza alla Lega)?”
Lettera firmata
Cara amica, viene prima l’uovo. Nessun leghista ha scelto il proprio nome, e poiché la Lega è un partito popolare è conseguenza logica che parecchi suoi esponenti si chiamino come l’immaginario popolare degli anni Ottanta e Novanta (quello di Mediaset, soprattutto) ha deciso che si chiamassero. Nessuno gliene fa una colpa, naturalmente, e consideriamo Shari e Morgan nostri fratelli e sorelle. Ma – non so come dirlo altrimenti – la tentazione di giocare sul fenomeno è irresistibile, e forse addirittura doverosa. Fa parte, lo dico un poco pomposamente, dei doveri intellettuali.
Il nome da dare ai figli è uno strumento secolare di identità. È capitato altre volte che la tradizione italo-cristiana fosse rinnegata e infranta. Esiste una formidabile casistica di nomi “rivoluzionari”, dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del Novecento, escogitati apposta per fare rabbia ai preti, o per inneggiare alla Ragione, alla Scienza e alla Rivoluzione. Ho conosciuto un Robespier e un Washington (emiliani), l’impeto positivista generò ragazze di nome Automobile ed Elettricità. Alberto Beneduce, primo presidente dell’Iri, chiamò le tre figlie Idea Nuova Socialista, Italia Libera e Vittoria Proletaria. Per impeto anticlericale si saccheggiarono tutti i nomi della mitologia classica (soprattutto in Toscana) pur di evitare la sfilza dei santi in calendario. Selene e sua sorella Sidonia furono tra le tate della mia infanzia, ho incrociato il cammino di ben due Cassandra, una Giocasta e una Cassiopea. Ci furono i Lenin (anche una Lenina) e i Leone in onore di Trotsky. Era popolo anche quello, ma essendo ribelle scaricò sui suoi figlioli, ovviamente senza chiederglielo, il peso del cambiamento.
Direi che, nel nostro caso, non siamo di fronte a una rivolta popolare che sceglie l’ufficio anagrafe per manifestare la propria diversità. Siamo di fronte – al contrario – all’adesione a suo modo disciplinata ai canoni rassicuranti della cultura di massa, dei consumi e della televisione, e al tradimento inconsapevole della tradizione (le famose radici!) per cercare una vera e propria dissimulazione della propria identità di classe: se chiamo mia figlia Maria rischio di sembrare povero?
Si capisce che le famose “radici cristiane” oggi brandite come un randello dai capi leghisti ne escano corrose, in un certo senso vilipese. E ne escono rafforzate, piuttosto, le condizioni di subalternità popolare alla globalizzazione peggiore, quella che cancella la fisionomia dei posti e dei popoli e ci rende tutti uguali e tutti consumatori delle stesse cose. E si capisce, infine, che in questa newsletter ci siamo divertiti per un po’ raccontando questa schizofrenia, che ha in Veneto, va detto, il suo acme. Ora però può bastare. In un futuro prossimo, i Giuseppe e i Joy, le Anna e le Suellen, marceranno fianco a fianco, come nel Quarto Stato, verso un cammino di liberazione. Ancora qualche secolo, al massimo un millennio, e vedrete che accade.
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Zero zanzare, questa settimana, così che per non perdere del tutto l’abitudine ho scelto io un titolo, tratto dalla mitica sezione “La zampa” che leggo avidamente su Repubblica.it. Non contiene errori o refusi, ma ve lo segnalo lo stesso per sapere se vi entusiasma quanto mi sono entusiasmato io leggendolo:
IL CANE CIECO MOOGAN SALVA UN VOLONTARIO DEL CANILE DA UN SERPENTE A SONAGLI MORTALE: “È IL MIO EROE”
Può essere divertente tentare ulteriori aggiunte e ritocchi che rendano la vicenda ancora più eroica e commovente. Tipo: Il cane cieco Moogan salva un volontario del canile da un serpente a sonagli mortale consentendogli di andare al funerale della madre. Oppure: il cane Moogan salva la vita a un serpente a sonagli mortale che stava per essere calpestato da un volontario cieco. Eccetera.
Vi saluto con una piccola storiella. Ieri, domenica, ero in Monferrato, a Murisengo, per la sagra del tartufo. Non vi dico che cosa ho comperato tra le bancarelle gastronomiche perché mi vergogno. Ero tra i numerosi ospiti sul palco. Mia moglie era in mezzo al pubblico, insieme a un po’ di amici. Quando è stato il mio turno di farmi avanti, un signore dall’aspetto prospero, dietro di lei, ha commentato: “Eccoli qui, i compagni. Questo qui ha un eskimo minimo minimo di Hermès”. Era una giacca a vento verde pisello, devo dire comoda e calda, sospetto di fabbricazione cinese, acquistata l’anno scorso al mercato di Pianello Val Tidone per un centinaio di euro. Quando mia moglie me l’ha raccontato, abbiamo riso parecchio. Non sentivo la parola “eskimo” da quasi mezzo secolo (canzone di Guccini a parte). Comunque non fatene parola con Hermès: potrebbe venirgli d’idea.
Sulla strada del ritorno c’era la nebbia, ma alle prime colline il sole era al lavoro per organizzare un tramonto autunnale come si deve. In alto i cuori!