Elianto, è giallo

«I greti e le sponde di fiumi e torrenti, qui attorno, sono gialli come se lo spirito di Van Gogh li avesse conquistati»

Ho passato una giornata a Terra Madre, il raduno mondiale di contadini e allevatori che Slow Food organizza a Torino ormai da vent’anni. Nello stesso posto, il Parco Dora, migliaia di persone, in larga maggioranza giovani, e decine di etnie, nazionalità, lingue, compresi alcuni idiomi indigeni. Un senso di pace operosa (niente accomuna come il lavoro: parlare di lavoro, automaticamente, obbligatoriamente, è parlare di pace), un insieme di esperienze e di pratiche agroalimentari letteralmente caleidoscopico, centinaia di frammenti, coloratissimi, che si incrociano nella stessa immagine. Le ragazze della generazione Z che mollano il precariato e risalgono le valli per allevare le capre, i panificatori che parlano delle tante farine riscoperte come di lettere dimenticate di un alfabeto oramai monocorde, la tecnologia delle mani e quella dei chip che cercano e trovano soluzioni comuni. Gli studenti cosmopoliti dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo che si fanno portavoce degli indios del Mato Grosso.

In ogni racconto, da ogni parte del mondo, la cultura ambientale, quella vecchia e quella nuova, fa da filo conduttore: la terra, dicono qui, non si spreme come un limone da buttare, si coltiva avendo in mente gli anni che verranno, cercando di mantenere l’equilibrio tra i bisogni umani e l’ecosistema. Non è il particolare che conta. È la visione d’insieme. O lo sguardo è olistico, o non coglie la sostanza delle cose. (Olismo, in Treccani: “tesi secondo la quale il tutto è più della somma delle parti che lo compongono”. Vuol dire che non puoi scomporre la natura in quello che ti serve e quello che non ti serve. La natura è molto di più di quello che ti serve e di quello che non ti serve).

Bellissimo, direte. Sì, decisamente bello. Eppure una domanda mi ronzava e mi ronza per la testa: come possono farcela? Come potranno evitare di essere spianati anche loro da ruspe e trattori grandi come astronavi, che ci mettono un attimo a svellere gli alberi, piallare le colline, e trasformare il mondo in uno sconfinato boulevard dove l’agrobusiness (che con l’agricoltura c’entra come Lehman Brothers con la spesa quotidiana) prosegue la sua marcia trionfale? L’allevamento intensivo e l’agricoltura monospecie che lo sostiene (è lei, la soia, che assedia la foresta pluviale in Amazzonia) hanno un potere di acquisto, e di persuasione, e di corruzione politica, un milione di volte superiore ai piccoli produttori saggi di Terra Madre. E hanno una loro funzionalità perversa, ma efficace: le conseguenze nefaste, le ricadute ambientali, non si vedono adesso. Adesso ci riempiamo la pancia di hamburger. Poi si vedrà.

Come sopravvivere senza e spesso contro la grande distribuzione, contro il senso comune e le comodità dell’ipermercato, delle porzioni pronte consegnate a casa? Se nessuno, o quasi, trova più il tempo e la voglia di cucinare, e dunque non ha alcuna necessità di valutare ingredienti che non vede e non riconosce più, come sperare che una massa critica sufficientemente ampia possa sostenere le pratiche agricole virtuose di questi ragazzi? Come sottrarre questo mercato sapiente e lungimirante al sorrisetto facile di chi considera questi cibi “roba da radical chic”?

E più in generale, uscendo dalla questione del cibo (comunque decisiva: l’agricoltura e l’allevamento, così come sono fatti, concorrono alla produzione di quasi un terzo, secondo altre fonti un quarto, dei gas serra), come può la “correttezza” di pochi reggere l’urto conformista della società di massa? Basta una guerra per radere al suolo il lavoro di generazioni di contadini, basta un piano di sviluppo concordato con una multinazionale a cambiare per sempre la geografia e il paesaggio, cancellando specie vegetali e animali.

Forse l’unica via per non essere pessimisti è immaginare che il ruolo di questi nuclei di coraggiosi, e di tenaci, sia uguale a quello dei monaci nell’Alto Medioevo. In mezzo allo spopolamento, alle guerre, alla decadenza, in un mondo ben più pericoloso e sconquassato del nostro, si preoccuparono di salvare la cultura e, nelle pievi e nei monasteri, anche le colture (la vite e l’ulivo sopra a tutte). Non erano dei conservatori, anche se conservare ciò che restava della cultura classica e delle scritture sacre fu la loro missione: con il senno di poi possiamo dire che erano dei lungimiranti, e in ultima analisi dei vincitori. Senza di loro, molto di ciò che ancora sappiamo della civiltà classica sarebbe andato perduto.

San Colombano partì dall’Irlanda, dove era nato, nella seconda metà del sesto secolo, e attraversò l’Europa (a piedi e a cavallo, si suppone) fondando diversi monasteri, fino a quello di Bobbio, ultima tappa del suo viaggio. Erano piccoli avamposti, producevano cibo e religione (ora et labora, secondo la regola benedettina). Ebbero enormi svantaggi e scomodità inimmaginabili, rispetto a noi. La loro vita era molto più breve e molto più dura.

Non sappiamo se sia toccato anche a loro, mentre erano chini su una pergamena o una miniatura, essere considerati dei perdigiorno, dediti a uno sfizio per pochi eletti (la percentuale di umani che sapevano leggere e scrivere era infima). Chissà come si diceva radical chic nel sesto secolo. Probabile che l’eventuale detrattore, vedendo che il monaco amanuense aveva la zappa a portata di mano, abbia preferito allontanarsi senza fare troppo lo spiritoso.

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Giù le mani dai futuristi! L’idea di una “mostra governativa” che li rivaluti come simbolo della identità italiana (vedi Ok boomer! della scorsa settimana) è insensata: i futuristi sono tra noi da più di un secolo e non hanno nessun bisogno di essere riscoperti o rivalutati o sbandierati come “arte di destra”. Raramente le vostre mail sono state così in sintonia con una mia riflessione. Impossibile dare voce a tutti, sono costretto a una sintesi, spero efficace.

“Il movimento futurista era talmente preso dalla cosiddetta identità italiana da pubblicare il suo ‘Manifest du futurisme’ in francese sulla prima pagina del quotidiano ‘Le Figaro’ il 20 febbraio 1909. Nessun commento”.
Roberto Buttura

“A proposito della ridicola idea che il futurismo sia stato ‘nascosto’ o ‘censurato’ fino ad oggi, ricordo che portiamo futurismo in tasca ogni giorno, dato che la moneta italiana da 20 centesimi di euro è coniata con l’immagine di un’opera futurista (Forme uniche della continuità nello spazio, di Umberto Boccioni).”
Fabio Battaglia

“Venti centesimi, questo è quanto vale il risarcimento, e la destra dovrebbe pure accontentarsi. Sul lato b della moneta da 20 centesimi è impressa una scultura di Umberto Boccioni. Scultura che peraltro fu realizzata, dopo la morte di Boccioni, su un calco lasciato dall’autore. A volerlo più di tutti fu FT Marinetti (lui sì fascistone sino alla fine)”.
Marco

“Perché tutti amiamo i futuristi ? Semplicemente perché le loro opere (dipinti, sculture, poesie, mobili, abiti) rappresentano la prima espressione moderna dell’uomo alle prese con le macchine, l’automazione, la velocità; il senso estetico unito all’italianità del design allora nascente. Ho avuto la fortuna di visitare la bellissima mostra a Palazzo Grassi, appena riaperto con la ristrutturazione di Gae Aulenti, indimenticabile ! Grazie per avermelo fatto ricordare!”
Sabina Rossi

“Icastico il tuo pezzo sul futurismo. Peraltro nato ben prima di fasci e combattenti e peraltro diffuso anche fuori d’Italia, per esempio in Rus, pardon, Unione Sovietica, dove – basti leggere Ripellino – fu sostanziale alimento della corrente teatrale biomeccanica e blà blà blà. A Macerata esiste una bella permanente sul futurismo marchigiano. Quadri bellissimi, certo per chi li gusta. Mal che vada Macerata offre delizie culinarie”.
Pasquale D.

“Dal manifesto dei pittori futuristi, 1910: ‘giudichiamo ingiusto, delittuoso, l’abituale disdegno per tutto ciò che è giovane, nuovo e palpitante di vita’.
E ancora: ‘Per gli altri popoli, l’Italia è ancora una terra di morti, un’immensa Pompei biancheggiante di sepolcri’. Esagerati, oltre il limite, fuori dagli schemi, incendiari. In una parola: giovani. Giovani artisti che volevano buttare all’ aria il mondo. Erano anche allegri e buontemponi: la cucina futurista, innovativa (altro che il culto ossessivo della tradizione immutabile) e gli abiti, i gilet coloratissimi al posto delle classiche palandrane nere della borghesia. L’arte è tanto inutile quanto necessaria. Non se ne può fare a meno, anche se alla fine non serve a cambiare veramente il mondo. ‘Tonight we are young/ So let’s set the world on fire/ We can burn brighter than the sun’. Brano del 2011 dei Fun”.
“I futuristi avevano preso un grosso abbaglio, come molti nell’ impeto giovanile: pensavano di trovare nel fascismo delle origini un movimento rivoluzionario per dar fuoco al vecchiume borghese. Capita. Nulla toglie alla loro bravura e ai loro capolavori. Non mi torna che ci azzeccano oggi i meloniani con questo movimento innovativo, appassionato, creativo, che guardava al futuro, alla scienza, alla tecnica. Mi sembra che rappresentino l’esatto opposto del Futurismo: proprio la società anacronistica, triste, ammuffita, conservatrice, che guarda solo al passato, antiscientifica, ignorante, che vuole tornare indietro su tutti i fronti e teme il domani. Il nero contrapposto al mondo a colori. Dubito fortemente che riusciranno a fare meglio rispetto alla mostra del 1986 a Palazzo Grassi”.
Laura Beltramino

“Da antico studente di liceo artistico, non propriamente un covo di reazionari, posso confermare che anche in tempi dove c’era ben altro fervore politico di sinistra, il futurismo faceva ovviamente parte del programma di studio al pari di tutti gli altri movimenti artistici. Concordo sul fatto che un movimento artistico, un artista, un regista, un musicista, uno scrittore, vadano giudicati per le opere che producono e non per le idee politiche. Anche per questo sono allergico alla cancel culture che vorrebbe dividere l’arte (e non solo) in buona o cattiva sulla base delle idee politiche o dei comportamenti dell’artista. Spesso senza nemmeno considerare il periodo storico in cui gli artisti hanno operato. Per questo continuerò ad ascoltare i Pink Floyd nonostante le accuse di antisemitismo a Roger Waters, a leggere Topolino (si fa per dire) nonostante le simpatie politiche di Walt, a guardare i film con Kevin Spacey nonostante i discutibili comportamenti dell’uomo Kevin”.
Marco

“La narrazione del futurismo ingiustamente ignorato è francamente incomprensibile. Ricordo di avere studiato in modo approfondito il futurismo al liceo, a metà degli anni 70. Era, con ragione, una parte importante del programma. Era ed è considerato, con ragione, uno dei movimenti culturali e artistici più importanti del Novecento. Detto questo, mi piacerebbe che questo ‘recupero’ possa comprendere anche alcuni approfondimenti necessari, i rapporti con il fascismo certo, il ruolo del movimento nell’interventismo che ci ha portato alla Prima Guerra Mondiale. Erano i futuristi a parlare della guerra come ‘sola igiene del mondo’. Mi sembrerebbe interessante riflettere anche su queste cose”.
Danilo

“Ridurre il futurismo all’identità italiana e peggio al fascismo è il modo migliore per immiserirlo, neutralizzarlo e rendere provinciale un movimento che ha influenzato l’arte in tutto il mondo. Ma possibile che nel 2024 bisogna ancora scrivere queste ovvietà che anche uno sprovveduto studente di liceo ha già digerito?”
Paolo Repetti

“All’ultimo anno di liceo (quello di Lugano, dove 33 anni più tardi si diplomò Elly Schlein), già orgogliosamente schierato molto a sinistra, feci una tesina sul Futurismo e in particolare sul Manifesto futurista redatto da Marinetti.
Al di là di qualche sparata (tipo: un’auto lanciata a 100 all’ora è più bella della Vittoria di Samotracia), la lettura si rivelò interessante. Venni così a scoprire l’adesione di Majakovskij (bolscevico) al futurismo, oltre al grande successo che ebbe anche in Francia, con la pubblicazione su Figaro. Anche in architettura vi furono esempi di persone di valore, come Antonio Sant’Elia con il suo Manifesto dell’architettura futurista. L’adesione di numerosi futuristi al fascismo degli inizi non impedì a me, studente ‘comunista’, di apprezzarne le qualità”.
Mario G.B. Guanziroli

“Tra le mostre, ricordo anche ‘La ricostruzione futurista dell’universo’, Torino 1980, Mole Antonelliana”.
Michela Borio

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Zanzare in edizione molto succinta. Buon segno, significa che i titolisti di giornali, agenzie e siti stanno mettendocela tutta, per non finire in questa allegra rassegna. Notevole, comunque, questo titolo di Repubblica on line fotografato (screenshottato?) da Paola:

NEONATI ABBONATI
L’ORRORE IN GIARDINO

Non è un refuso ordinario. Si tratta, direi, di un caso di digitazione sincopata, che si è mangiata una sillaba per intera. Nessuno ha riletto, e anche questo capita, nell’editoria sincopata dei nostri tempi. Notevole la locandina vintage della Nuova di Venezia e Mestre conservata da Giuliano per il nostro diletto:

A CAORLE ARRIVA IL PREMIER LETTA
MUORE MENTRE FA IL BAGNO

Lunga vita alle locandine e alla loro formidabile facoltà di comprimere in poco spazio, e a chiare lettere, vicende umane anche molto diverse tra loro. Infine Sandro, leggendo questo titolo di Novaraoggi, si domanda legittimamente: quanti saranno i tifosi del Novara calcio?

NOVARA FC E TIFOSI IN TUTTO:
MUORE IL DIRETTORE SPORTIVO

Cosa mi resta da dirvi? Una cosa importante, credetemi: la fioritura di elianto (parente povero del girasole) quest’anno è strabiliante. I greti e le sponde di fiumi e torrenti, qui attorno, sono gialli come se lo spirito di Van Gogh li avesse conquistati. L’elianto è un’asteracea, per dirla volgarmente una margheritona così gialla, ma così gialla che non saprei indicarvi niente di più giallo. Nemmeno il risotto allo zafferano.
Questa esplosione dipende dalle abbondanti piogge della scorsa primavera, che hanno ingrossato i fiumi e ben nutrito i tuberi che generano l’elianto, amante dell’umidità. Tubero commestibile, componente decisivo della bagnacauda: è il topinambur, detto anche carciofo di Gerusalemme, girasole del Canada, rapa tedesca. Oltre a essere buono e salubre (dicono i testi che è ricco di inulina, sostanza con azione prebiotica), il topinambur sprigiona un fusto alto anche più di due metri, in cima al quale risplendono, a gruppi, meravigliosi fiori gialli. Recisi e messi in vaso, gli elianti durano anche tre settimane.
Elianto è anche il titolo di uno degli ultimi romanzi di Stefano Benni. Che da qualche anno non sta bene, ma spero sappia che tutti gli elianti, lungo i fiumi, lo salutano, e sono suoi amici. In alto i cuori, che a fine settembre sono gialli come il sole.

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