Dal banco del saloon
Una newsletter di
Dal banco del saloon
Michele Serra
Martedì 25 aprile 2023

Dal banco del saloon

(Dan Kitwood/Getty Images)
(Dan Kitwood/Getty Images)

Sono passati quasi tre mesi da quando questa newsletter ha cominciato a viaggiare. Speravo, prima della partenza, di imparare delle cose: è l’esperienza più rara e più preziosa che possa capitare, alle porte della vecchiaia. Un po’ perché si è più lenti, un po’ perché si è troppo carichi di passato (pepite, ma anche ciarpame) per avere ancora posto libero dentro la testa.
Beh, vi devo proprio ringraziare, e non è un convenevole. Devo ringraziare la comunità del Post. Grazie alle vostre lettere – che sono state molte centinaia – ho imparato parecchio. Mi hanno scritto, anzi mi stanno scrivendo e mi scriveranno, spero ancora per molto tempo, persone di tutte le età. Dai venti agli ottanta, con una prevalenza della fascia di mezzo, non più ragazzi e non ancora anziani. Quasi tutti avevano voglia di mettersi in gioco e lo hanno fatto con una generosità e una franchezza che non mi aspettavo. Mi riconosco il merito di averlo fatto io per primo: uno che si presenta allegramente come boomer a una platea di lettori nella media nettamente più giovani, è come uno che entra in un saloon di soli cowboy dicendo “Augh!”. (metafora western, poco contemporanea, i più giovani se la facciano spiegare dai genitori…).
È andata di lusso. Nessuno ha impugnato la colt, pochissimi i vaffanculo, e qualche vaffanculo neanche male come confezione. Moltissimi i racconti, le polemiche intelligenti, le osservazioni sorprendenti, la grande voglia di parlare delle cose della vita. Si vede che l’appartenenza a una generazione, come pretesto per attaccare discorso, funziona. Ha funzionato.

So bene che, come campione della società italiana nel 2023, i lettori di un giornale on line ben scritto, e molto attento alla misura delle parole, sono la classica élite rispetto al magma enorme, imperscrutabile e borbottante che chiamiamo, per convenzione, “popolo”. Ma popolo è a tutti gli effetti – anche legali, anche costituzionali – pure ognuno di noi. Dunque non facciamoci troppi complessi di inferiorità solo perché leggiamo qualcosina più della media. Facciamo parte anche noi, a pieno diritto, del popolo in marcia verso un avvenire incerto. Fine del pistolotto introduttivo.

Che cosa ho imparato? Ora facciamo finta di essere davvero in un saloon, appoggiati al bancone. Perché voglio e devo essere sintetico come uno che sta chiacchierando, non come un conferenziere o un saggista. E dunque concedetemi il lusso (supremo) della brevità e dell’analisi un poco spericolata, a rischio di omettere qualche subordinata e anche qualche coordinata.
Ho imparato, prima di tutto, che la società italiana è messa un poco peggio di come credevo prima di cominciare Ok boomer!. Sul fronte del lavoro, eccezion fatta per noi boomers che abbiamo cominciato la corsa quando bastava un triciclo per arrivare al traguardo, le buone notizie sono rarissime, e i pochi “salvati” mi scrivono dall’estero. La famosa “mancanza di futuro” è il sottotesto di quasi ogni lettera, ansia e solitudine sono parole-esca che se le scrivi arrivano pesci da tutto il mare. La contentezza, se c’è (e ci sarà pure), non è dunque l’argomento favorito per prendere la parola.

Non saprei proprio dire se questo scontento sia “reale”, ovvero interamente composto da difficoltà oggettive, piuttosto che “percepito”, ovvero dettato da una specie di malinconia dell’epoca. Ma si capisce che c’è, e pesa, e segna l’umore di moltissimi (se anche fosse solamente percepito, del resto, non sarebbe meno reale per chi lo prova). Non che prima non lo sapessi, che non attraversiamo, come società, come italiani, un buon periodo, un periodo speranzoso, di cambiamento, di movimento. Ma non lo avevo mai colto in questa misura e mai, soprattutto, con questa lucida capacità di raccontarlo, lo scontento, punto per punto. Finché senti la gente che strilla e si accapiglia sui social puoi alzare le spalle e dire: siamo al di sotto della soglia minima per meritare ascolto. Ma se un sacco di gente ti racconta quanto è diventato faticoso immaginare il domani, fare figli, lavorare, migliorarsi, sentirsi parte di una comunità, e lo fa alla luce di un’esperienza di vita vissuta a mente lucida e ad occhi aperti, beh, allora non puoi fare finta che non sia accaduto niente di così rilevante.

*****

Non vorrei avervi intristiti. La tristezza, per altro, serve solo a “cuocersi nel proprio brodo” (l’espressione era tipica di mio padre, “smettila di cuocerti nel tuo brodo” era il suo consiglio numero uno). Ci sono un sacco di cose da fare e da dire per sentirsi meglio, diciamo per sentirsi più energici, visto che è soprattutto l’energia quella che serve per rimettersi in movimento. Il paradosso è che i Paesi dell’Ocse (per farla breve: i 38 Paesi più ricchi del mondo, noi siamo tra i membri fondatori) contano poco più del 15 per cento della popolazione mondiale, ma consumano il 40 per cento dell’energia totale – traggo il dato da un libro che mi è piaciuto molto, “Il lato oscuro dell’abbondanza”, della scienziata ambientalista norvegese-americana Hope Jahren.
Energia è una delle tante parole scientifiche che vengono dal greco e significa, più o meno, “capacità di agire”, “attitudine a compiere lavoro o movimento”. Sempre per dirla come se fossimo appoggiati al banco del saloon: a che serve divorare tutta questa energia se ci sentiamo così molli e sfiatati? A che serve essere benestanti se ogni volta che mettiamo il naso fuori dal nostro cortile (in questo momento mi trovo in un Paese arabo, metà della popolazione è sotto i trent’anni) la gente ci sembra più contenta e dinamica, diciamo “meno preoccupata” di noi, anche quando le condizioni politiche o economiche non sono le più raccomandabili? Possibile che “futuro” sia diventata una parola impronunciabile, dalle nostre parti, e non ci sia nemmeno bisogno di pronunciarla per quanto è visibile, il futuro, nelle strade del resto del mondo, con i bambini che strillano?

Sempre Hope Jahren, mentre inanella impressionanti analisi di quanto consumiamo, di quanto sporchiamo, di quanto siamo incapaci di trovare una misura, scrive queste parole: “Usare di meno e condividere di più. Non c’è alcuna tecnologia in arrivo che possa salvarci da noi stessi come per magia. Limitare i consumi sarà la missione cruciale del XXI secolo, usare di meno e condividere di più è la sfida più grande che la nostra generazione (Jahren è del ’69) dovrà mai affrontare”.
Che “condividere” sia il mantra che può salvarci è una cosa che penso per davvero. Condividere beni, condividere diritti e doveri, ma anche condividere esperienze, luoghi, idee. Qualche lettore ricorderà il mio piccolo racconto del risotto alla milanese di via Bergamini: è stato l’innesco di una discussione appassionata sulla voglia, anzi sulla necessità di condividere le cose, tornare a sentirsi comunità. Il contrario della condivisione è la solitudine. Nel Novecento qualcuno disse: “socialismo o barbarie”. La traduzione odierna potrebbe essere: “condivisione o solitudine”. Il discorso del saloon è finito.

*****

Martedì 25 aprile faccio un mio piccolo consueto pellegrinaggio, se il tempo lo permette in Vespa. Vado in un cimitero di montagna, nel Pavese, per portare una rosa bianca a Luchino Dal Verme (1913 – 2017), comandante partigiano, morto a 104 anni. Monarchico, reduce dalla ritirata di Russia, furente con Mussolini e con il “suo” re Savoia, che considerava un traditore del popolo, divenne il capo di una Brigata Garibaldi. Cento comunisti agli ordini di un conte, erede di capitani di ventura. Dopo la Liberazione diversi partiti gli offrirono un posto in parlamento. Preferì rimanere sulle sue montagne ad allevare galline. Fu pioniere dell’allevamento biologico. Non fosse accaduto negli anni Cinquanta, qualche cretino lo avrebbe definito “radical chic”. Fu invece un gentiluomo, un soldato e un uomo libero.

*****

Ora, come sempre, qualche lettera. A proposito di generazioni, di lavoro, di solitudine, di politica, di Italia in crisi, di un po’ di tutto.

“Ho 42 anni. Faccio parte della generazione X. A vent’anni ero convinto di avere ereditato un mondo allo sfascio, ben rappresentato dall’imprenditore e poi politico di cui lei parla (Berlusconi, ndr) e che era davvero il padrone del paese in cui sono cresciuto felice. Ho avuto la fortuna di trovare un buon lavoro a tempo indeterminato a 26 anni. Per una persona della mia generazione, un vero e proprio sogno ad occhi aperti. Ero ben pagato, i colleghi erano giovani come me, la compagnia per cui lavoravo era innovativa, enorme, entusiasmante. Ovviamente il lavoro non era in Italia e così sono partito, pieno di nostalgia e speranza. Ancora oggi lavoro all’estero. Ho provato rabbia e frustrazione per non essere riuscito a trovare un impiego decente nel mio paese. I miei amici rimasti in Italia hanno continuato a sgobbare da precari per anni, alcuni sono costretti a farlo ancora. Mi ci è voluto molto tempo per accettare un fatto in fondo molto semplice, per quanto orribile: il lavoro decente, pagato il giusto, gratificante, era quasi scomparso dall’Italia negli anni Duemila. Non so dire se oggi sia tornato, almeno in parte”.
“Lei sottolinea come la sua generazione abbia protestato, contestato, lottato. Mi sento di dire che anche quelle successive, inclusa la mia, hanno portato avanti le loro lotte (il movimento no-global ne è un esempio). Ma sono state lotte senza vittorie. Il contesto è stato molto più generoso per le generazioni precedenti alla mia. L’economia girava meglio, era normale trovare un lavoro decente. Capire questo fatto mi ha aiutato a fare la pace con chi è nato prima di me. Vedevo negli amici dei miei genitori, nei miei zii e zie, nei miei insegnanti, i responsabili di un fallimento che io e i miei amici avremmo dovuto pagare. Non lo erano. Avevano provato ad essere delle persone decenti, ma non potevano essere responsabili di un disastro più grande di loro. Un disastro che la mia generazione non è riuscita a risolvere, nonostante i tentativi”.
Alfredo

“Sono una boomer, a vent’anni ero spaventata dalla società che mi circondava, dai ‘matusa’ che mi sembravano alieni. Eravamo tanti, impegnati nella politica, nel sociale, sicuri di cambiare il mondo. A 30 anni mi sono accorta che le carte in tavola erano state cambiate da prestigiatori eccellenti, la lotta era inutile, i Berlusca ci avevano fregati. Noi siamo stati vinti da droghe, tv spazzatura, divisione. Uno contro l’altro armati. I nostri figli, che vorrebbero soppiantarci e ci deridono come noi abbiamo deriso i nostri vecchi, saranno vinti dalla solitudine sociale. Dalle droghe social, dalle realtà virtuali, da scuole che sfornano solo lavoratori e non esseri pensanti, bravissimi con i mezzi elettronici ma spesso ‘analfabeti’ con due lauree + dottorato. Oggi a 65 anni vivo per accrescere il mio spirito, leggo, gioco, seguo mio figlio e lascio le lotte agli altri. Spero non si disilludano troppo velocemente. Vincere non è avere un buon lavoro e buoni mezzi economici, TV da 60 pollici, piscina, ecc. Vincere è condividere, accettare le diversità che portano evoluzione, studiare per la curiosità e il piacere di conoscere, giocare per divertimento, cercare il miglioramento di tutti e non il proprio. Eliminare il profitto e l’approfitto”.
Gabriella

“Io sono dell’86, quindi cado a metà tra i boomer e gli studenti odierni. Essendo in mezzo, forse riesco a intravvedere una differenza: lo stress che hanno vissuto le generazioni precedenti di studenti, me incluso, non è paragonabile a quello vissuto dai ragazzi d’oggi. Lasciamo stare le continue crisi economiche a partire dal 2008, gli effetti che hanno sui genitori e a cascata sui figli. Di sicuro ansie di quel genere c’erano anche in passato, se non peggio prima della fine della guerra fredda. Ma una volta non c’erano i social (con il loro comprovato effetto sulla psiche), gli apprendistati a 600 euro per l’eternità, gli stipendi che non arrivano a fine mese, il Covid, il progressivo smantellamento di reti di sicurezza al di fuori della famiglia (la parrocchia, i circoli, le squadre sportive), i nonni che non ci sono perché devono continuare lavorare, l’ossessione moderna verso la prestazione già commentata da altri lettori”.
“Ognuno di questi punti merita analisi più approfondite, ma ho aperto con i social perché sono, a mio modo di vedere, uno dei problemi più grandi, che corrode anche le persone meno ansiose. La lista sparsa sopra mi porta al pensiero che quando il vaso è già pieno, ogni piccola goccia lo fa traboccare. Invece di criticare i ragazzi d’oggi, incapaci di incassare qualsiasi piccola goccia, rendiamoci conto che il vaso sarebbe da svuotare, e forse lo abbiamo riempito noi che li abbiamo preceduti”.
Alberto

“Sono cresciuto in un piccolo paese di campagna della riviera ligure; madre laureata ma cresciuta alternando gli studi al lavoro negli orti dei genitori; padre nato durante la guerra che ha lavorato fin da piccolo. A scuola me la sono sempre cavata bene e sono sempre stato spinto a studiare, soprattutto da mio padre. I miei genitori non mi hanno mai fatto alcuna pressione sui risultati al punto che per tutto il Liceo Scientifico non sono mai andati a parlare con gli insegnanti. Alla fine mi sono laureato in Ingegneria Biomedica. Studiavo molto, mi piaceva, ma spesso dedicavo il tempo libero a lavorare negli orti, un po’ di amici ma soprattutto tanto sport. Ho imparato più cose dallo sport che dalla scuola. Ho giocato a pallanuoto, che vuole dire allenamento ogni giorno, dalle due alle tre ore. A quattordici anni mi sono trovato a giocare in prima squadra. E lì ho avuto la fortuna di imparare a gestire l’ansia della prestazione: se la cosa che fai ti piace, e soprattutto se i tuoi compagni sono anche tuoi amici, allora la fatica è sempre ricompensata, soprattutto quando si perde. Se chi ti sta attorno sa quanto hai lavorato, non ti critica ma ti sostiene”.
“Da anni lavoro con i ragazzi in ambito scolastico, capisco le loro ansie e la totale mancanza di strumenti per affrontarle. Molti di loro per colpa della pandemia hanno abbandonato qualsiasi attività sportiva. Molti odiano andare a scuola perché non hanno alcun rapporto con i propri compagni di classe. Non hanno persone che non li giudichino quando prendono un brutto voto, solo genitori e insegnanti che li criticano senza equilibrio. Cazziatoni per i brutti voti e feste per i bei voti. Gli amici, invece, non danno importanza ai voti. Penso a quanto sono stato fortunato a trovarmi in una classe di amici, spaesati nei primi mesi della prima liceo, complici per tutti gli anni seguenti. A vent’anni dal diploma siamo ancora in contatto e ogni tanto ci rivediamo con piacere. Come ha scritto lei purtroppo molti ragazzi di oggi devono affrontare la solitudine, e molti genitori non hanno gli strumenti per gestire questa cosa”.
Nicolò