Che al mercato mio padre comprò
Una newsletter di
Che al mercato mio padre comprò
Michele Serra
Martedì 14 gennaio 2025

Che al mercato mio padre comprò

«La domanda che mi sono fatto spesso nelle ultime settimane, andando per case a Milano, è: ma come accidenti fa una giovane coppia che comincia la sua strada, o un single, insomma come fanno le persone agli inizi del loro cammino sociale e lavorativo ad abitare in questa città, a comperare o ad affittare?»

(ANSA/MATTEO CORNER)
(ANSA/MATTEO CORNER)

La mia prima casa a Milano, un piccolo monolocale in una traversa di viale Monza, me la comperò mio padre alla fine degli anni Settanta. La pagò quindici milioni di lire, grosso modo oggi equivarrebbero a sessantamila euro. Il costo di un piccolo appartamento a Milano, dunque, era non molto più alto di quello di un’automobile di grossa cilindrata. Per avere un’idea: una Mercedes o una Bmw, nel 1980, costavano tra i dieci e i dodici milioni di lire. Se la proporzione fosse rimasta più o meno la stessa, oggi un monolocale a Milano dovrebbe costare intorno ai centomila euro. Costa invece, quando va bene, il triplo.

Quel buco di casa fu la mia amatissima tana fino ai trent’anni. Quando misi su famiglia la rivendetti e aggiungendo un mutuo ventennale comperai una casa nei dintorni, in via Rovereto, cento metri quadrati. Con il mio stipendio (basso) di giornalista dell’Unità, potevo farcela. Piano piano, gradino dopo gradino, e stando molto attento alle spese: ma mi sentivo dentro la giostra della mia città. Periferico ma indipendente, e all’inizio di una corsa alla quale quasi nessuno (piccola borghesia, impiegati, salariati) poteva dubitare di essere iscritto.

Oggi, per lo stesso monolocale nel quale ho vissuto, stretto ma felice, i miei vent’anni, ci vorrebbero almeno trecentomila euro. Le case meno care, a Milano, costano in media tremila euro al metro quadrato – se in cattive condizioni. Se in buone condizioni, si arriva a quattro-cinquemila euro al metro quadrato. E stiamo parlando, sia ben chiaro, non dei quartieri più prestigiosi (oddio, parlo come un immobiliarista…); stiamo parlando della città tutta intera, periferia compresa, i quartieri cosiddetti “gentrificati” e quelli ancora speranzosi di diventarlo – o rassegnati a diventarlo.

Questo raccontino non ha lo scopo, sia ben chiaro, di rievocare i bei tempi andati (che così belli, poi, non erano: a Milano, quando avevo vent’anni, le case costavano un terzo ma ci si sparava per le strade). Nemmeno – anche se un poco sì – di unirmi alle lagnanze, già largamente udibili, a proposito dello strapotere della speculazione, del mercato, delle varie “bolle” immobiliari e finanziarie, che nessuna politica, nessuna autorità economica, nessuna istituzione sembra in grado di contrastare o almeno di calmierare. Ha lo scopo di introdurre la domanda che mi sono fatto spesso nelle ultime settimane, andando per case a Milano. La domanda è: ma come accidenti fa una giovane coppia che comincia la sua strada, o un single, insomma come fanno le persone agli inizi del loro cammino sociale e lavorativo ad abitare in questa città, a comperare o ad affittare? Come fa chi non nasce benestante, a sentirsi iscritto alla stessa corsa della quale io mi sono sentito un naturale partecipante fin da quando avevo vent’anni, e guadagnavo poco più di un operaio, poco meno di un impiegato di banca? Anche senza l’aiuto iniziale di mio padre avrei potuto cavarmela bene con un affitto alla portata del mio reddito, magari in coabitazione con qualche giovane collega. Fatto il primo gradino, il secondo pareva la conseguenza naturale: ma adesso?

E a parte l’aspetto economico, quello psicologico? L’adrenalina scorre quando scorre la vita attorno, siamo creature osmotiche, respiriamo l’aria che tira, ma se una buona metà dei ragazzi che incontriamo per le strade di Milano, a Milano non potrebbe viverci, o ci vive male, o ci passa solamente, come fanno queste giovani persone a metabolizzare – se riescono a farlo – questa condizione di marginalità oggettiva? Come fa una società a essere dinamica, a essere sana, se si regge soprattutto sull’assistenza degli adulti e dei vecchi, consumando le riserve e producendo, di nuovo, soprattutto frustrazione?

So che non sono temi nuovi, li abbiamo affrontati o sfiorati parecchie volte anche in questa newsletter, ma l’idea che le condizioni materiali di vita e l’umore di moltitudini di persone giovani siano in ostaggio di qualcosa che sfugge totalmente al loro controllo, e non solamente al loro, non ha forse qualcosa di pre-moderno, nel senso che ci ricaccia in una posizione di sudditanza e quasi di fatalismo che ha ben poco a che fare con il mito del capitalismo, che con tutti i suoi difetti ha (anzi, aveva) il merito di promettere a moltitudini una chance di miglioramento? Può il mercato (quello immobiliare e quello “generale”) stabilire così liberamente, in modo così smaccatamente incontrastato, una discriminante così evidente e così primaria – la casa – ai danni non del famoso terzo di esclusi del quale parlava così allegramente la signora Thatcher, ma dei due terzi (almeno) che secondo la promessa liberista sarebbero stati invece premiati?

Se sospettate, in questo ragionamento, qualche venatura socialista, non vi sbagliate. Temo, anzi penso proprio, che il mercato sia un motore potentissimo che, senza una scocca che lo contenga e un volante che lo indirizzi, possa fare danni irreversibili.
Tutti allargano le braccia e dicono: “eh, che ci volete fare, a Milano e a Roma ormai le case sono carissime”. Lo dicono come quando si dice: “in estate fa molto caldo, in inverno molto freddo”, come quando si chiacchiera dei fenomeni naturali. L’idea che qualcosa o qualcuno provveda a mettere dei paletti, o introduca delle varianti – come, tra l’altro, le società capitaliste classiche hanno sempre fatto, vedi il New Deal in America, il welfare ovunque, recentemente anche il PNRR in Europa per fronteggiare il dopo-Covid – dicevo, l’idea che il mercato non sia l’agente unico del nostro presente e del nostro destino, sembra solo una vaga memoria del passato. Così che prima o poi potrebbe capitare di sentirci dire: eh, cosa vuole farci, nelle grandi città possono viverci solo i ricchi e i figli dei ricchi. Gli altri, se ne vadano altrove. Sa, è il mercato.

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Qualche lettore mi ha rimproverato un certo tono “anti-romano”, meglio “anti-romanesco”, che mi è uscito di penna (lo so, è una tastiera) due settimane fa. In cerca di un segno tangibile di risarcimento, ho trovato l’articolo che scrissi per Repubblica, alla fine di febbraio del 2003, sui funerali di Alberto Sordi. Mi sembra che ne esca una Roma molto romana, molto amata, e soprattutto così grande che non si riesce a misurarla.

“Sventurati provinciali”, dice il sindaco di Roma in San Giovanni. Lo dice forte e chiaro, all’inizio della sua orazione, a chi ha confuso Alberto Sordi con una maschera locale. Come se il luogo, la vecchia enorme capitale sgranata al sole di fine inverno, fosse un borgo tra i tanti, e non quel cosmo popolare e commediante che ha generato il cinema e la televisione, ospitato la politica e la religione, scritto i copioni del potere e quelli dell’arte nazionale.

La basilica e la piazza sono piene e concordi, insieme disciplinate e informali. Il cerimoniale è solenne ma le transenne piuttosto lasche, controllati e controllori stamattina parlano la stessa lingua e sono la stessa città. Tutto è folla e tutto permeabile, i politici e le massaie, i corazzieri e gli ultras della Roma, le dame dei salotti e i vigili della strada, i giornalisti e i curiosi, i parenti e le suore, i tassinari e i seminaristi, gli attori e gli impiegati ministeriali, i Ciampi non così distinguibili dalle altre coppie anziane e incappottate, e i finanzieri, i carabinieri, gli scout, gli infermieri, gli uscieri, gli uomini della sicurezza, una parata di divise che pare cinema anche quella, spiega quanto Roma sia cinema, mezza città in costume, mezza nel ruolo eterno della gente anonima. E poi le facce grevi e teatrali dei vecchi caratteristi di Cinecittà, raccolti in un inverosimile crocchio in un angolo della navata, facce ugualissime a quelle del popolo che le ha generate, sunto di plebe e fame, facce pasoliniane, facce da dopoguerra, tinture per capelli esagerate, dentiere ingovernabili, gente scampata da un secolo lunghissimo che piange, con Sordi, anche se stessa, la propria avventura sfinita, e borbottando fa la conta dei morti, Tognazzi Chiari Mastroianni Gassman Sordi…

Quando entra il feretro in San Giovanni, il solito applauso non sempre rispettoso si trasforma in qualcosa di diverso e sorprendente: un grido collettivo, “Alberto! Alberto!”, una specie di voce della città che chiama il morto come si fa con i vivi, e sono voci di cortile, di davanzale, di mercato, è uno strattone emotivo straziante e allegro, un’ultima manata sulla spalla, un toccarlo, rimproverarlo, “a’ birbaccione che te ne sei annato”, come dice un piccolo cartello scritto a mano.
Nella colossale basilica il cardinale è un puntino rosso che dice messa sotto un cattolicissimo cono di ori, stucchi e luce che lo sovrasta, e illumina la bara come un riflettore immane. La stessa bara, in un biglietto tra i tanti appoggiato alla facciata di San Giovanni, è chiamata in causa con disincanto trilussiano: “Stamo tutti a piagne davanti a ‘n coso de legno”.

Il “coso de legno” ha traversato Roma con un piccolo corteo di auto. Dicono gli uomini del sindaco che la gente scendeva dalle macchine per salutare e mandare baci, dai marciapiedi applaudivano, dalle finestre chiamavano. Si parla ancora, in piazza, dell’infinita coda notturna in Campidoglio (le vere metropoli non hanno fuso orario), anche lì uno scenario insigne per la più popolare delle scene, la monumentalità spettrale di Roma che fa da quinta ai gesti umili degli sconosciuti. Proprio come in San Giovanni, dove la smisurata facciata di marmo presidia una massa umana in scarpe da footing e giubbotto, i maxischermi della Rai e i bracci delle telecamere affondano in un mare di persone, la piazza parla a bassa voce, tiene le braccia conserte e il capo chino quando gli altoparlanti diffondono la musica sacra e l’omelia di Ruini.

Mentre parla il ministro Urbani passa un aereo da turismo, vira sulla piazza trainando uno striscione di cordoglio, “Sta vorta c’hai fatto piagne”, la gente applaude il romanesco che solca il cielo, i tassinari suonano il clacson, gli ultimi fiori cadono sul selciato chiaro, le ultime disposizioni del cerimoniale si allentano, la piazza confonde ulteriormente autorità e popolo, oratori e spettatori. Il funerale si dirada senza fretta, ed è uno scioglimento di trama quasi impercettibile, è Roma che si disperde in Roma.

Non fosse arrivata sottobraccio al sindaco, e uscita sottobraccio al Presidente, la sorella Aurelia (e le altre anziane donne che hanno accudito Sordi per una vita) sarebbe stata indistinguibile dalle migliaia di casalinghe della piazza. Un’aria dolcemente qualunque, da sporta della spesa, da cucina domestica. Andavano ad abbracciarla, in chiesa, chinandosi sul suo metro e mezzo scarso, e ripiegato dall’età, e in lei abbracciavano il miracolo di un paese che per uscire dalla miseria ha scelto mestieri geniali, inventato pratiche d’arte, prodotto colpi di vita che ancora rimbalzano in mezzo alla piazza che sfolla.

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Clamoroso successo della mia domanda di lunedì scorso a voi lettori: esiste, secondo voi, un termine speculare a radical chic, uguale e contrario? Qualcosa che indichi, con il dovuto dileggio, il povero che vota entusiasta per un governo di ricchi (vedi Trump) che gli taglierà il welfare? Il diseredato che, applaudendo il miliardario di turno, si illude di trarne un qualche beneficio, anche se non saprebbe dire esattamente quale?
Impossibile dare voce a tutti – sono almeno un centinaio le mail sul tema – ho fatto una selezione di quelle che mi sembrano le proposte più calzanti, o le più originali, o le più spietate. Nessuna mi sembra risolutiva, anche se parecchie sono divertenti e altre si avvicinano al bersaglio. Va riconosciuto a Tom Wolfe (non ai suoi emuli odierni, che ripetono a pappagallo “radical chic” svalutando l’epiteto) di avere inventato un termine di quasi ineguagliabile precisione polemica.

Ugo Ruffolo propone “maso-poor”, che non mi dispiace affatto. Francesca “stupid poor”, Fabrizio Valente “poveri naif”, Daniela “superficial pop”, Sandra “conservative cheap”, Guido “proletar sciocc”, Paolo Catucci “cafonal schok”, Carlo “radical cheap”, Marcella Restagno “radical kitch”, Mario “conservative trash”, Lorenzo “aspirational poor”.

Stefano suggerisce il già esistente “white trash”, che è molto efficace, e ha corso corrente negli Usa, ma ha il difetto di inquadrare una sola etnia/classe sociale, quella dei bianchi impoveriti.
Per allontanarsi da Manhattan e da Tom Wolfe, Massimo propone “pluto poveraccio” e Omar “nazional pacchiano”, abbreviabile in “nazi pacchiano”. Molto simile è il “fascio cheap” suggerito da Donatella.

Alcuni preferiscono tagliare corto, senza arrovellarsi con i neologismi. Come Valerio Carlevatto che considera molto calzante il vecchio, classico “utile idiota”, proposto pari pari anche da Marcello. Fabio Zanchi ritiene sufficiente il molto espressivo bisillabo “pirla”, senza aggiunte di sorta, e Marinella suggerisce “minus habens, in tutti i sensi”. Alberto Prada candida “povero e pirla”, sottolineando l’importanza della congiunzione.

Feroce ma preciso Giuliano: “meglio di ‘servo’ non trovo. Parola breve che indica sì chi è asservito contro la sua volontà, ma anche chi si trova bene in quella condizione, e riverisce il padrone detestando chi lo critica o minaccia”. Sulla stessa falsariga Danilo Salvi: “servo del potere. Votare da povero per ricchi farabutti non ha spiegazioni alternative all’illusione di appropriarsi in qualche modo del riflesso di chi ha una valanga di soldi”.
Alessandro Donnoli propone “un sobrio fascioproletari”. Giorgio Paoli “cornuti e mazziati”, nella forma sincopata “cormaz”. Umberto ’69 ha coniato un divertente “nazi-skint”, skint vuol dire squattrinato.
Interessante, anche per suono e brevità, il “wannabe” proposto da Stefano Soliano: rende il nostro “vorrei ma non posso”, descrive piuttosto bene la condizione psicologica dell’indigente di destra. Interessante anche l’idea di Davide Conte, che vorrebbe chiamarli “influenced”.

Siccome è un gioco, ma su questioni molto serie, qui di seguito pubblico una mail, come dire, di approfondimento. Mi piace condividerla con voi. Ringrazio comunque, uno per uno, tutti quelli che mi hanno scritto.

“Pensando di accogliere con leggerezza il suo invito a trovare l’equivalente speculare del termine radical chic, mi sono prontamente scontrato con una realtà ben poco leggera: il termine che lei cerca è “poveri”. Non poveri illusi o sprezzanti ignoranti, solo: poveri, a cui la sottoccupazione o il camper arrugginito provocano, tra l’altro, un’ansia invivibile che, come in una piena, trova nel populista di turno il primo incanalamento possibile dove convogliare l’enorme disperazione e le poche energie rimaste. Io credo che chi sta affogando guardi solo all’aiuto più vicino (ed oggi per avvicinarsi a quelli che stanno affogando basta solo spararle più grosse degli altri); se poi la corda che offrono per salvarsi serve anche per impiccarsi, il populista di turno li chiamerà danni collaterali”.
“Da bravo boomer credo ancora che ai poveri ci sia ben poco da rimproverare e credo che non si faccia troppa fatica a ricondurre, in buona parte, le altre cose che lei dice (l’educazione familiare, l’esperienza personale, l’indole, il livello culturale, gli incontri, le convinzioni religiose, le emozioni e i sentimenti, gli avvenimenti storici, infine la seduzione delle idee) alla collocazione di queste persone nella struttura economica della società. Senza una presa di responsabilità di buona parte di quelli che non stanno affogando (e di tutti i radical chic del mondo), i vari Trump, Musk e i loro degni compari, hanno oggi, come sempre nella storia, la possibilità di procurare dei serissimi danni a tutti noi”.
Mauro Saveri

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Tornano le Zanzare Mostruose, e come farne senza?
Roberto segnala, dall’Arena di Verona, un titolo che ha appesantito, e di molto, la posizione processuale di un cane:

IL CANE ABBAIAVA E ACCOLTELLO’
IL VICINO: DUE ANNI DI CARCERE

Basta un refuso minimo (una “c” al posto di una “e”) per trasformare un titolo in un’altra cosa. Dalla Stampa, Ale segnala:

UNA TURISTA BELGA: IO E I MICI AMICI
AGGREDITI E MOLESTATI IN PIAZZA A MILANO

Un altro refusino (appena una “i” in più), su una locandina del Corriere di Torino, getta pesanti ombre sulla lucidità di una parte politica:

LE OPPIOSIZIONI: CALZA CON CARBONE
PER GOVERNATORE E SINDACO

Non un refuso, ma una sonante sgrammaticatura è stata individuata da Valeria sulla Provincia Pavese:

NEGLI GUAI ULTRA’
PAVESE DELLA JUVE

Poi non ci si può lamentare se gli ultrà non leggono abbastanza. Infine, ed è una notizia di stretta attualità, Barbara ci permette di notare come anche un titolo corretto (tratto da Repubblica on line) possa farci riflettere sull’assurdità delle cose umane:

TRENI SOSPESI A MILANO:
“GUASTO ALLA LINEA AEREA”

Fa freddo, ma meno di quanto minacciavano certi siti meteo che non conoscono i mezzi toni (così come non ci sono più le mezze stagioni, non ci sono più i mezzi toni…). Si scende sotto lo zero solo di notte, a gennaio è la norma, è importante non dimenticare le arance sul tavolo all’aperto, come ho fatto io, perché ghiacciano e poi non sono più buone. È importante anche coprirsi bene, come raccomandavano le mamme e le nonne e come cantava Léo Ferré in quel commovente capolavoro che è “Avec le temps”: surtout ne prends pas froid. Non prendete freddo e godetevi, ben coperti, questo inverno lustro e scintillante. C’è già un’idea di gemme, su certi rami, l’elleboro sta fiorendo e primule e viole sono in agguato. Le giornate ricominciano ad allungarsi. In alto i cuori.