Cervelli un po’ in pappa
«Faccio un pronostico. Vedremo presto bambini con il cellulare spento e magari un libro accanto. Sono i figli dei ricchi. E vedremo bambini con la faccia eternamente impastata nella luce fredda dello smartphone. Sono i figli dei poveri»
Una delle ragioni di questa newsletter era sondare se e quanto io sia ancora in grado di capire i nuovi tempi e i loro nuovi abitanti: quelli un poco più giovani di me e quelli molto più giovani di me. I figli e ormai quasi i nipoti, insomma. Non perché sia così appassionante il mio caso personale, ma perché “il privato è politico”: parliamo dei casi nostri per parlare di quello che ci succede intorno.
Se uno non è del tutto scemo, o tragicamente presuntuoso, dopo una certa età viene spontaneo diffidare delle proprie certezze, e cercare di procurarsi nuovi arnesi per aprire scatole nuove. Le esperienze contano, danno fisionomia, danno solidità, ma da troppo solidi ci si può anche addormentare – in posa da senatore. Il difetto opposto è fingersi iperfluido ed entusiasta, a priori, di tutto ciò che cambia, indossando una maschera da finto giovane che ha il grave difetto – per una maschera – di essere facilmente smascherabile.
Immagino di avere costantemente corso entrambi i rischi, sempre sostenuto, smentito, rimbeccato, istruito, messo alle corde, dal fitto dialogo con voi lettori (grazie! Ma sul serio!). In ogni modo, all’erta sto: cerco di cogliere ogni segno che alimenti questa discussione sui tempi che cambiano, su come mi pigliano e come li piglio io. E un test clamorosamente utile me lo ha fornito un articolo di Francesco Piccolo sulla Repubblica di qualche giorno fa: una robusta invettiva contro gli “adulti reazionari” che osteggiano la tecnologia. È successo che l’Oxford Dictionary ha deciso di nominare “parola dell’anno” il termine brain rot, cervello marcio (io preferirei, in italiano corrente: cervello in pappa), coniato per descrivere l’effetto che fa (farebbe) l’iperconnessione, insomma l’abuso di TikTok, di scrollate e di chat, di immagini, di parole, di stimoli che inondano il cervello. E lo mandano (manderebbero) in pappa.
Dice Piccolo: è da secoli che ogni nuovo salto tecnologico viene accolto mettendosi le mani nei capelli e dicendo “oddio, dove andremo a finire”. E poi l’umanità va avanti, ottimizza le novità e assorbe i contraccolpi negativi. E la lagna degli adulti reazionari si rivela puntualmente, nel tempo, una lagna di adulti reazionari.
Piccolo ha ragione. Fotografa un atteggiamento, il luddismo, che fa parte della storia del pensiero umano anche prima che l’operaio inglese Ned Ludd (si ignora se figura storica o leggendaria) nella seconda metà del Settecento distruggesse a martellate il telaio tessile che gli rubava il lavoro. Già i caratteri mobili di Gutenberg, che minacciavano di replicare il sapere dei libri in una proporzione mai vista prima, furono visti come strumento di distruzione del sapere “giusto”, quello dei pochi sapienti in grado di controllarlo. L’anatema contro le “diavolerie moderne” si è poi puntualmente ripetuto in misura direttamente proporzionale al vorticoso accelerare del progresso tecnologico.
Bene. Non dobbiamo essere luddisti: il luddismo ha avuto sempre torto. Qualche ragione nel breve periodo (il telaio meccanico rubò effettivamente il lavoro a Ned Ludd), ma torto nel medio e lungo periodo. Però. Ci sono dei però. Provo ad elencarli, il più schematicamente possibile.
1 – L’altra faccia del catastrofismo tecnologico è il neopositivismo. Anche lui un atteggiamento psicologico e culturale vecchio come il mondo. È l’idea che il progresso sia intrinsecamente buono ed eccitante, e non valga la pena perdere tempo a discuterne gli impatti sulla società e sulle persone. Per non essere reazionari, si rischia di organizzare l’applauso ai due lati del corteo, ben transennati, mentre il Progresso incede trionfale.
2 – Sul carro del progresso tecnologico (che procede trionfale) non c’è posto per tutti. C’è posto, al contrario, per i pochissimi che ne detengono i diritti (poche cose sono state privatizzate, nella storia dell’umanità, quanto la gestione delle tecnologie digitali: per miliardi di clienti, un pugno di concessionari). Subito dietro, non confusi tra la folla, ci siamo io, Francesco Piccolo e voi lettori del Post: ovvero l’oggettiva minoranza di esseri umani che, in virtù di uno status privilegiato (luogo di nascita, studi, esperienze, censo), non hanno paura che il loro cervello vada in pappa per degenerazione neurodigitale. Hanno l’antidoto. Hanno una pluralità di fonti, di letture, di conoscenze, di rapporti che consentono al cervello di non naufragare nel mare digitale, e al contrario di navigarci dentro con profitto, e buone possibilità di non perdere la rotta.
3 – Ma gli altri? I meno difesi culturalmente? I meno strutturati psicologicamente? Mi disse un giorno Edoardo Boncinelli, grande genetista e divulgatore scientifico, che dal suo punto di vista, molto autorevole, non esiste problema: “I neuroni sul web fanno molta ginnastica, ne usciranno rafforzati”. Anche Baricco, prima nei Barbari poi in The Game, accredita la nuova conoscenza “orizzontale” e prende le giuste distanze (no, non è luddista) dal mito dell’approfondimento come unica via di acculturazione. Benissimo. Ma i due bambini di quattro e sei anni, figli di immigrati asiatici in Italia, che ho visto bivaccare per intere giornate su un divano davanti a un cellulare (TikTok, what else?) senza che altro evento, oggetto, spettacolo, essere umano, gioco all’aperto potesse fare breccia in quella che mi è sembrata un’estasi autistica, siamo proprio sicuri che stiano-staranno bene? Se cercate in rete troverete una miriade di studi, dibattiti, articoli sugli effetti culturali e anche neuronali che la full immersion digitale produce. Il dibattito è aperto, e questo significa che non è chiuso. Ci sono, ovviamente, opinioni rassicuranti, e ci sono anche gli adulti reazionari che si strappano i capelli. Ma non mi è agevole ficcare in quell’ambito, per esempio, anche i prof angosciati per la caduta verticale di attenzione, l’impossibilità di concentrarsi su alcunché, e in fin dei conti: la dipendenza da qualcosa che rimpiazza il “qui e ora” con un altrove che non è sicuro sia più istruttivo, o affascinante. È solo più facile, basta il movimento di un dito.
4 – Ecco, la dipendenza. Tutto ciò che noi controlliamo è bene, tutto ciò che ci controlla è male. Anche delle droghe (che detesto) ho sempre pensato che fanno male solo se comandano loro – e alla fine, spesso, comandano loro. I bambini e i meno istruiti – una fetta di umanità gigantesca – sono il vero punto interrogativo dell’impatto del digitale. Noi adulti (reazionari e illuminati) di buone letture e di buon censo siamo, chi più chi meno, al sicuro. Se vale la pena farci qualche domanda, è nel nome degli altri. Faccio un pronostico. Vedremo presto bambini con il cellulare spento e magari un libro accanto. Sono i figli dei ricchi. E vedremo bambini con la faccia eternamente impastata nella luce fredda dello smartphone. Sono i figli dei poveri.
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La banana di Cattelan aleggia su di noi (chissà se è una metafora simile all’ombrello di Altan). Molte mail. Ecco una breve selezione.
“L’opera di Cattelan, artista/provocatore che personalmente apprezzo,
già alla sua presentazione aveva suscitato clamore, polemiche, divisioni e discussioni (non è forse questo che deve fare l’arte?). Già ai tempi un suo collega l’aveva staccata e mangiata. Ovvie le reazioni del ‘popolo’, dal classico ‘lo sapevo fare pure io’ che di solito viene detto sempre a posteriori, quando qualcun altro quella cosa l’ha fatta, al ‘questa non è arte’, cosa che si diceva anche degli impressionisti o qualsiasi movimento artistico che ha rotto gli schemi, onda polemica che ha generato un numero impressionante di ‘meme’ e declinazioni goliardiche. Ovvio quindi che si generi il parallelismo semplicità/cazzata/valore sproporzionato. Ma il vero schifo, a mio avviso, non è che un miliardario abbia speso 6 milioni per una banana (per un’idea), ma il fatto che il miliardario possa essere tale, a tal punto da permettersi di spendere (scialare per qualcuno) 6 milioni come io spenderei 100 euro. La cosiddetta forbice, quella sì oscenamente allargata, tra un circolo ristretto di persone e il resto del mondo, bambini affamati compresi”.
Marco
“Credo che i 6 milioni per la banana di Cattelan siano meno scandalosi dei 100 per un Pollock nella misura in cui 6 è inferiore a 100. Pollock dipingeva danzando attorno alla tela spennellando o lanciandovi contro del colore, in una sorta di trance, secondo lui. Nel momento in cui, con l’arte contemporanea astratta, si è smarrito qualsiasi metro di giudizio, ogni cosa può valere tutto come niente (segnalo ‘What good are the arts’ di John Carey, che dice tutto). Personalmente me ne disinteresso ma vedo che a ‘fare mercato’ sono le cose più pazzesche e non mi sorprendo più. Immaginiamo un evento meraviglioso: un anno e l’acquirente di Cattelan rivende l’opera al doppio, dando tutto in beneficenza. Tutti contenti, con massimo guadagno di visibilità sui social per il mangiatore di banane (la sua vera aspirazione, sembra); ma temo sia troppo difficile per lui”.
Giorgio Paoli
“La storia della banana mi lascia abbastanza indifferente. Se i milioni (o meglio i bitcoin) passano dalle tasche del riccone cinese a quelle di un altro riccone italiano, per i bambini affamati non cambia nulla, è uno scambio tra loro, una partita di giro. Certo sarebbe meglio se l’uno e l’altro facessero una donazione all’Unicef o a un altro ente simile, ma questo non ha niente a che vedere con la banana. La cosa più divertente è che il cinese ha detto che l’ha mangiata per entrare nella storia dell’arte, ma nessuno già si ricorda del suo nome”.
Giuliana Arcà
“Il personaggio in questione, che spende 6 milioni in bicoin nella presunta opera d’arte per poi mangiarla, probabilmente li avrebbe buttati dalla finestra comunque per qualche altra stupidaggine. Sbagliamo noi a ritenere sempre l’arte, in questo caso concettuale, come qualcosa di elevato, puro, concepito da animi nobili. In tanti casi sì, è sicuramente frutto di ricerca, studio, approfondimento, grande lavoro e passione, senza magari il giusto riconoscimento e ritorno economico. Nei casi più famosi invece, è solo risultato di abile marketing: Cattelan, Damien Hirst, Jeff Koons & c. vengono presi, lanciati e imposti come brand. Niente di più. Sono il prodotto di grandi agenzie e manipolatori del mercato. Il mercato dell’arte concettuale è in mano a non più di 4/5 grandi collezionisti, tipo Bernard Arnault, e le relative agenzie che si occupano di lanciare il brand: prodotti di lusso inventati di sana pianta e sostenuti con gli adeguati battages pubblicitari, a cui partecipano gli artisti in primis per mantenere alte le quotazioni. Operazioni da multinazionale, insomma. Quel gran furbo di Warhol con la sua factory aveva già capito tutto e l’aveva descritto bene: per noi l’arte non deve significare nulla, non ha alcuno scopo se non stupire, provocare, divertire”.
“L’ artista mattacchione va in tour a fare pubbliche relazioni di se stesso e sostenere il suo marchio (o meglio dell’agenzia e dei collezionisti). Ogni tanto tira fuori qualche idea, a suo dire provocatoria, che qualche bravo scultore o artigiano realizzerà, non sempre pagati in modo congruo, malgrado esperienza e grandi capacità manuali. Lo scultore francese Druet che aveva realizzato per Cattelan alcune opere, lo aveva citato in giudizio per non avere mai avuto il riconoscimento ufficiale dell’esecuzione materiale dei pezzi. Conosco da molti anni chi, qui a Torino, ha realizzato, dopo Druet, altri lavori per Cattelan, come ad esempio i bambini impiccati: so bene quanta esperienza, precisione, lavoro, ricerca e conoscenza nelle resine e materiali complessi e costosi occorra per arrivare a ottenere il risultato migliore. E so per certo che il compenso non rende grazie a queste eccellenze artigianali, anzi”.
“Intanto Cattelan è stato citato per plagio in merito alla banana: a quanto pare l’idea non era originale. Un artista americano aveva già appeso con nastro argentato una banana e un’arancia. E alla fine, oltre ai milioni che girano per le opere, tanti e tanti soldi bruciati in parcelle degli avvocati. Qualcuno la chiama redistribuzione. Per fortuna esistono anche artisti come Anselm Kiefer che riconciliano con l’arte: grande profondità e ricerca spirituale e onestà intellettuale. Nessuna scorciatoia da 15 minuti di celebrità”.
Laura Beltramino
Mio breve commento: ho dei lettori notevoli. Se permettete, un poco me ne vanto. Dopotutto, ognuno ha i lettori che si merita.
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Adesso c’è un problema. Avevo stabilito: la saga dei “nomi leghisti” e, per esteso, dei nomi “strani” imposti dai genitori ai figli, è conclusa. Ma la lettura delle vostre mail mi costringe – sì, mi costringe – a una proroga. Impossibile, per esempio, non dare notizia di quello che ci comunica Maria Francesca: il sindaco leghista di Giulianova, “ridente cittadina bagnata dall’Adriatico in provincia di Teramo, si chiama Jwan Costantini”. Non è un refuso.
Detto questo. Maurizio invia nomi “di diverso sapore” trascritti, da lui personalmente, dalle lapidi del cimitero di Ambrogio, frazione di Copparo, provincia di Ferrara. Tenetevi forte, e credete ai vostri occhi:
“Zila, Sarina, Aleardo, Celso, Scintilla, Dani, Laertes, Luglia, Consalvo, Eura, Eulalia, Secondo, Ultimo, Dirce, Demoina, Marfisa, Erebo, Vidalgo, Climene, Meropo, Fortuna, Alves, Dafne, Zabina, Eliodoro, Iza, Ermilide, Gardenia, Tauride, Glaes, Olimpia, Mentanea, Guelfo, Diomira, Desdemona, Otello, Viterbo, Eraldo, Crescenzio, Clinia, Celio, Filide, Celina, Firmino, Anelasco, Fattima, Adesvo, Zitamerope, Ides, Udilio, Livona, Febea, Adile, Maicol, Obes, Orano, Afra, Clinio, Oles, Mites, Oliba, Quarto, Atenaide, Gilia, Vades, Fiorito, Stelvia, Nirvana, Arpalide, Elidio, Ilvide, Rodolfo-limber, Steven, Fatma, Ilmo, Italia-ider, Ermes-iames, Esmilo, Areodwas, Elder, Deglans, Zenobia, Artemio, Exemé, Edmea, Ilario, Doralice, Zefira”. E per finire, aggiunge Maurizio: Giori Quinzio e Salinguerra Polmonari: qual è il nome, quale il cognome?
Cinzia Sbrilli sostiene che “un amico di mio suocero, classe 1915, comunista e a lungo tradotto al confino, voleva chiamare il figlio, nato nel 1940, Rivoluzionario. L’ufficiale dell’anagrafe lo proibì. Il nome fu registrato come Nario Luzio Rivo”. La stessa storia, ma in versione differente, la racconta Marco Azzolini: “Vengo da Abbadia San Salvatore, paese di montagna una volta sede della maggiore miniera di mercurio d’Europa, di profonda cultura operaia. I nomi di tre fratelli figli di un fervente e convinto appartenente al proletariato attivo sono: Rivo, Luzio e Nario”. Accetto entrambe le versioni. Sono bellissime tutte e due.
Marco Colzi scrive: “Il mio bisnonno Enea dirigeva una banda musicale dalle parti di Pistoia, e i primi figli furono chiamati coi nomi delle note musicali: Solmiredo (mio nonno), Midola, Remido e Mila. Rimasto vedovo e risposatosi, produsse Golma, Mignon e Ascanio, in quanto figlio di Enea. Onde non smentire la tradizione, nonno Solmiredo (in famiglia detto Miro) sposò mia nonna Emelia. Per parte di madre: il mio bisnonno Aiuto (nome messogli nell’Orfanotrofio di Parma) chiamò i figli maschi coi nomi delle corazzate della Marina Militare: Lepanto, Italico, Duilio, Preneste e Dandolo (mio nonno). Quest’ultimo si vendicò sui propri figli: Wilma (mia madre), Ivo e poi Nerea, Nicla, Nevio, Erio e il gioiello finale, mia zia Presilda Tanaquilla Flumendosa”.
Infine, ciliegina sulla torta: “Mio padre, da comunista, mi ha chiamato Leiba, in onore di Lev Trockij, che secondo alcune interpretazioni si chiamava Lejba Davydovyč Bronštejn. Credo di essere l’unico, in Italia, a portare tale nome”.
Leiba Pini
Sono travolto, ammirato, stordito. Abbraccio Leiba a nome di tutti i nomi. Conservo per le prossima settimane altre inaudite rivelazioni su come accidenti si chiamano, o si sono chiamati, gli italiani. Un pensiero commosso – sul serio – va ai morti, che le lapidi riportano tra noi.
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Sono andato lungo, troppo lungo, lunghissimo, e sta diventando un vizio. Zanzare rimandate alla prossima settimana. Impossibile non dirvi che ha nevicato, la prima neve dell’inverno. Ho messo gli stivali e sono uscito con i cani, pazzi di gioia. La neve fa impazzire due categorie di viventi: i bambini e i cani. Non appartengo ad alcuna delle due, eppure vago, nella neve, ebbro di contentezza. Forse sono stato, in una vita precedente, cane. Forse, sono stato bambino. In alto i cuori.