«Buon Natale! Buon Natale!»
Devo ancora chiudere un po’ di pacchetti, ogni anno ho l’impressione di farli peggio, bozzuti, con lo scotch che mi si impiccia tra le dita, il nastro troppo lasco oppure così stretto che sembra una stringa
Domani, verso mezzogiorno, andrò in un locale del centro di Bologna nel quale, ormai da una trentina d’anni, un gruppo di vecchi amici si ritrova, ogni vigilia di Natale, per un brindisi augurale. È un’abitudine contratta nei dieci anni (i Novanta) che ho vissuto in quella città, conviviale come poche altre. L’incontro precede il cenone serale del 24 dicembre, che è consacrato alla famiglia. Qui è l’amicizia, non la famiglia, a chiamare a raccolta le persone. Anche quelle che non vivono più a Bologna da molto tempo, come me.
Brilla, tra i convenuti a questo brindisi della vigilia, una luce mite e solida. Non è l’astro avvampante dell’amore, che porta all’eros, ai matrimoni, ai figli. L’amicizia è una stella tiepida, non invadente, perfino dimenticabile: di alcuni quasi non conosco la vita recente, non ci si telefona mai, ci si vede appena una volta all’anno per un abbraccio e un sorriso; con altri la consuetudine è forte, la conoscenza reciproca è profonda, sono compagni di vita. Ma con tutte e tutti, qualunque sia il grado di amicizia, vale comunque l’idea che i tumulti della vita non saranno in grado di impedirci, l’anno prossimo, di ritrovarci qui con un bicchiere in mano.
Solo la morte è in grado di sfoltire i ranghi degli amici. Nessuno se ne è andato con il cuore in burrasca perché non sopportava più di rimanere, sbattendo la porta o piangendo di rabbia o di malinconia, o smaniando per un’altra vita. Quello è lo scenario (per tanti altri versi magnifico) dell’amore, non dell’amicizia. Non si divorzia, tra amici. Magari si perde consuetudine per sciatteria, per la non urgenza di rivedersi, a volte si litiga e ci si contrappone, ma poi tutto ritorna ai toni bassi, riposanti di sempre. (E in ogni modo Pasquale, sotto forma di sagoma cartonata, ogni vigilia è con noi anche se non c’è più, in rappresentanza di tutte le altre persone scomparse dal mondo, ma ben vive nella memoria degli amici. Si brinda, sempre, anche a loro).
C’è qualcosa di rasserenante – di solido, dicevo prima – in questa comodità che solo l’amicizia può dare: senza il fuoco dell’eros, alla normale temperatura della vita, il rapporto tra gli esseri umani è più docile, più normale, più duraturo. Mia moglie ha appena festeggiato il mezzo secolo di amicizia con una sua compagna delle elementari con la quale ha condiviso ogni tappa della vita, ogni lutto, ogni svolta d’amore. Tutto è cambiato più volte per ciascuna di loro, niente è cambiato tra loro. Più che sorelle. Ho amici – Antonio, Arianna, Santino – che di me sanno quasi tutto e io quasi tutto di loro, ci si sente quasi ogni giorno, e questa stretta comunanza è il più semplice e al tempo stesso il più insostituibile dei rimedi contro la solitudine, e lo spavento che produce. Senza amicizia la vita umana è inimmaginabile, forse addirittura più inimmaginabile di una vita senza grandi amori. Siamo animali sociali, come i cani, a volte non serve nemmeno una carezza, basta sentire un abbaio a distanza, riconoscerlo, rispondere, e sapere che l’altro sta fiutando l’aria proprio come stai facendo tu.
Già che mi sono inoltrato in un territorio ad alto rischio di sentimentalismo (tutta colpa del Natale, che tutti facciamo finta di ignorare ma tutti ci piega al suo umore), adesso peggioro, e di molto, la situazione. Da un bel pezzo non guardo più La vita è meravigliosa (It’s a Wonderful Life) di Frank Capra, uno dei più ricorrenti “film di Natale” e nonostante questo un grandissimo film, perché ogni volta che lo vedo piango come una fontana. La scena in cui gli amici (appunto, gli amici) salvano George (James Stewart: belli ed eleganti come lui quanti, e in quale epoca?) dalla rovina economica mi commuove molto, quella in cui George corre nella neve inciampando e gridando “Buon Natale! Buon Natale!” ai passanti addirittura mi strugge.
Non corro nella neve, la rovina economica non è alle porte e non sarei capace di sceneggiare un film di Frank Capra (sono, siamo troppo cinici, ormai). Ma vorrei che il mio Buon Natale, qualunque cosa significhi, arrivasse anche a voi.
E per non finire troppo sdolcinato, consentite al boomer di dire una cosa boomerissima: qualunque età voi abbiate, qualsiasi formazione culturale e politica, tra James Stewart e Tony Effe, con chi preferireste condividere la cena della vigilia?
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La saga dei “nomi strani”, fantastico repertorio dello spirito ribelle e/o bizzarro del popolo italiano nella prima parte del Novecento (ma non solo) è alimentata da altre decine di mail. Le metto da parte e mi prendo una settimana di vacanza, orientarsi in quel labirinto di sillabe richiede tempo ed energia. Mi limito a segnalare che la storia dei tre figli di nome Rivo, Luzio e Nario sta diventando un vero e proprio caso storico-filologico. Alle quattro versioni già riportate, se ne aggiungono una quinta e una sesta.
Piero Fogaroli segnala che anche nel bel film “Il treno dei bambini”, tratto dal romanzo di Viola Ardone, ci sono tre bambini emiliani di nome Rivo, Luzio e Nario. Aggiunge Laura che “la stessa storia mi è stata raccontata anche a proposito dei proprietari della splendida pasticceria Luzio Caflisch nell’anarchica Carrara. Mi piace aggiungerla al mucchio”. Siamo di fronte, evidentemente, alla formazione di un mito. Si ignora la scintilla anagrafica, diciamo così la genesi del mito. Ma piacque, e piace, così tanto da generare racconti, libri e film in numero notevole.
Chiuso, per adesso, il capitolo onomastico, voglio pubblicare due mail che avevo messo da parte e che mi sono molto piaciute. La capacità dei lettori di offrire, in poche righe, scorci di vita e di pensiero non banali mi colpisce e mi fa sentire, immodestamente, gestore di uno spazio utile e soprattutto socievole (anche amichevole, per rimanere nel tema della settimana). Ci si parla e a volte si è sfiorati, perfino, dalla sensazione di essersi capiti. Non era scontato, non è mai scontato. Sono contento.
“Sì, davvero. Avevo deciso di diventare un bel vecchio di merda, uno che brontola, che si lamenta, acido. Mi piaceva l’idea. Mettersi a criticare, a raccontare di quando ‘ai miei tempi’, con il solito gusto amaro di chi ha pensato che certe cose erano giuste, bisognava farle, ma poi alla fine ci perdevi sempre e facevi la figura del minchione. Mettersi a perculare i tuoi amici di sinistra e comunisti perché alla fine non concludono nulla e si perde sempre, e si perde l’orizzonte, e non lo vedi come è il mondo, dai… Mi stavo impegnando, perché a 55 anni occorre iniziare a prepararsi per fare bene quella cosa lì. Poi, al solito, hai un minimo, che dico, minuscolo cedimento. Clik, ti abboni a una newsletter. E niente, senti solo un po’ di fiatone a fare le scale, qualche osso scricchiola, infili gli occhiali da presbite ma ti senti con gli stessi sentimenti di trent’anni fa. Sorridi, c’è ancora gente, c’è ancora da camminare e pensare per fare qualcosa di bello. Metti gli scarponcini e fai due passi, magari qualcuno ha bisogno una mano o anche solo di parlare con qualcuno”.
Anonimo
“Quasi coetanei, condivido quasi tutto quello che scrive. Medico da 45 anni, della mutua (ho sempre difeso questo termine) perché ho sempre preferito sapere poco di tutto piuttosto che tutto di poco. Forse facendo tutto male, ma l’eclettismo mi ha sempre affascinato e a cena mi siedo volentieri vicino a chi mi parlerà di tutto un po’, e non mi straccerà con un solo argomento, alla fine annoiante. Geriatra ora geriatrico, questo aiuta me e i miei pazienti. Riguardo ai vecchi pensieri reazionari da senatore noioso ho sempre detto ai miei figli che, quando dovessero sentirmi dire ‘ai miei tempi…’ saranno autorizzati a darmi un calcio! Perché non mio padre, che era una splendida persona, ma da mio nonno indietro tutti dicono: ai miei tempi… Fosse vero, il top dell’umanità sarebbe l’uomo di Neanderthal, ma non è così!”
“I sindaci delle grandi città a fine Ottocento non sapevano come fare con le deiezioni dei cavalli che trasportavano tutto, persone, viveri; improvvisamente il motore a scoppio eliminò il problema creandone altri, ma così va la vita! O forse invece è perché a 16 anni tutto era bello, la chitarra, la fidanzatina, Let it be, fare gol e l’idea che avremmo cambiato il mondo? E allora continuiamo a ragionare, se vorranno il nostro parere ben volentieri, se no va bene lo stesso… Siamo a termine, ma, nel frattempo…danzo!”
Danilo Mourglia (Geriatra, libero pensatore o perlomeno ci provo, valdese) Torre Pellice
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Devo ancora chiudere un po’ di pacchetti, ogni anno ho l’impressione di farli peggio, bozzuti, con lo scotch che mi si impiccia tra le dita, il nastro troppo lasco oppure così stretto che sembra una stringa, ma come fanno quelli che fanno girare il nastro alla perfezione attorno al vestito come i topini di Cenerentola (o erano gli uccellini?). I regali di Natale sono un dovere, li maledici; poi – siamo strani – diventano un piacere, sei contento di darli e di riceverli, sul dono, del resto, sono state scritte intere biblioteche di psicoanalisi e di antropologia.
Regalo di preferenza cibi e bottiglie, sono sospettabile di crapula falstaffiana ma in un eventuale processo mi difenderei dicendo che il cibo è primario, è casa, è protezione, è sconfitta della penuria e della fame. Riempite i granai e svuotate gli arsenali, cazzo! Per quante generazioni ancora dobbiamo ripetervelo?
Fa freddo ma non troppo, sono previste perturbazioni ma non severe, forse in Appennino cadrà qualche fiocco ma non dalle mie parti: più giù, nell’Italia centrale. In alto i cuori, ovviamente, e un pensiero al bambino che nasce, anche se siete dei senzadio come me, non può che farci stare bene.