Rispettare la vecchiaia
«Si è più vicini alle nuvole che alla società, da una certa età in poi. Spero che qualcuno mi avverta, quando sarà il mio momento, che è meglio guardare le nuvole»
Non riesco a levarmi dalla testa questa storia di Biden. Non sono un tipo apocalittico, tendo a relativizzare, penso sempre che in qualche maniera se ne esce, che la vita continua. Mio padre è tornato a casa dalla guerra d’Africa, a noi, fin qui, sono toccate prove decisamente meno dure. Ma di fronte all’incredibile incepparsi del metabolismo politico dell’America (un poco pomposamente definita Patria della Democrazia) per via dell’orgogliosa incoscienza di un vecchio signore ammalato, si interrompe anche la mia fiducia nella buona sorte.
Mi sono venute le lacrime agli occhi leggendo Thomas Friedman che sul New York Times, e di riflesso sui giornali di mezzo mondo, scongiura il presidente di farsi da parte. Un appello affettuoso ma impietoso, un maschio già anziano (Friedman ha un anno più di me) che metaforicamente si inginocchia davanti a un maschio vecchio, il suo presidente, il suo Capo, e lo supplica di anteporre il bene del Paese alla sua sfida personale contro gli anni. Non un ordinario column di giornale, ma un passo scespiriano, una tragedia incombente.
Se si va al voto di novembre con il vecchio Joe ancora al suo posto – e come è quasi certo vince quell’altro, quel terribile bugiardo, manipolatore, molestatore di donne, sobillatore di folle, nemico della cultura, borioso testimonial della vanità dei ricchi – sono sicuro che della ostinazione di Biden si parlerà ancora, tra mille anni, come di uno degli episodi più emblematici e gravi della storia umana. Biden che arriva arrancando al voto, consegnando se stesso e i Democratici alla sconfitta, e la democrazia americana al suo brutalizzatore, diventerà una “pagina classica” della vulgata storica, come Cesare che cade accoltellato, Napoleone all’Elba, il Gran Rifiuto di Celestino V, il papa che affronta inerme Attila, Colombo che sbarca tra i “selvaggi”, Garibaldi che dice “obbedisco” – ho messo insieme di getto alcune delle mie remote memorie scolastiche. Di qualche pagina ho ancora impressa l’illustrazione. Attila a cavallo che osserva sprezzante il vecchio canuto che ne invoca il pentimento, nel mio libro delle medie (o era il sussidiario delle elementari?), sembrava Yul Brynner in Taras Bulba.
La decrepitezza dell’Occidente non è solo una mia percezione, è qualcosa che sta scritto nella demografia e nella sociologia. Ma dev’essere un tema che mi è molto presente, perché la mia prima Amaca che diceva più o meno “ma è possibile che la prossima corsa alla Casa Bianca sia tra due ottuagenari?” è di tre anni fa, e ha avuto diverse repliche, aggiunte, ritocchi. Sempre più increduli, sempre più allarmati.
Ero tra quelli che quando il famoso medico di Berlusconi (uno dei tanti, credo si chiamasse Scapagnini) garantiva che “Silvio, dati medici alla mano, vivrà sicuramente fino a cent’anni” non sapevano se ridere, per la comica protervia, o piangere, per la minacciosa reiterazione di una presenza che – come tutte le presenze – è gradita se funge da conforto privato per i suoi cari, ma è insopportabile se si propone di eternare il proprio ingombro pubblico. E visto che siamo in tema, e per parlare di chi mi fu ben più prossimo di quel Silvio: ho letto con solidarietà pari alla trepidazione gli ultimi articoli di Eugenio Scalfari. Solidarietà (e ammirazione) per il grande vecchio, trepidazione per il suo scrivere oltre il limite del suo tempo. Si è più vicini alle nuvole che alla società, da una certa età in poi. Spero che qualcuno mi avverta, quando sarà il mio momento, che è meglio guardare le nuvole.
Mio suocero Ferdinando è morto sulla soglia dei 97 anni, pochi mesi fa. L’abbiamo riaccompagnato qualche giorno fa a casa sua, Camerino. Lucido e stoico, grande spirito laico, dai 90 in poi continuava a dire “sono d’impiccio, è ora che mi levi di torno”. Lo diceva sorridendo, la vita gli piaceva assai, leggeva, scriveva, conversava, dipingeva, ascoltava musica, fino a che gli è stato possibile passeggiava, guardava le vetrine e guardava le ragazze. Ma lo diceva, che si era fatto tardi, e lo diceva perché lo pensava. E perché, da magistrato in pensione, ogni tanto gli sembrava di avere gravato già abbastanza sulle casse pubbliche. Ho avuto e avrò sempre grande stima di questo suo semplice e forte ragionare non solo sulla ineluttabilità della fine, ma anche sulla sua necessità. Sul suo naturale accadere. La vecchiaia è venerabile come poche altre condizioni, va amata e rispettata. Ma i primi a doverla rispettare, se vogliono esserne all’altezza, sono i vecchi.
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Mi avete messo in minoranza: prima o poi doveva succedere. E un poco mi secca. Preferisco sapermi in maggioranza, e non per conformismo, credetemi: è proprio una propensione politica, più siamo e più contiamo, non so se sia la famosa “vocazione maggioritaria” di cui parlò Veltroni, certo non ho la “vocazione minoritaria” che pure accende tanti spiriti, tutti felici di sentirsi avanguardia, fuori dal coro, pochi ma buoni…
Ma scusate, stavo divagando. Torniamo al punto: mi avete messo in minoranza sul prezzo della passata di pomodoro, e specialmente sulla frase di Farinetti “bisognerebbe mangiare la metà e pagarla il doppio”. Mail a valanga, e in larga parte severamente contrarie. Mi concedo, prima di dare la parola a voi, con i soliti tagli dovuti alla ricerca disperata di sintesi, solo un paio di precisazioni (delle cento che avrei in mente).
La prima, di ordine politico. Ho dato per scontato e dunque ho omesso di scrivere, sbagliando, che gli aspetti criminali della morte di Satnam Singh, e in generale del quasi-schiavismo in agricoltura, sono, appunto, criminali, e come tali vanno perseguiti, senza tante discussioni. Le leggi ci sono (la 199 “per il contrasto del caporalato” è del 2016) ma sono assai poco applicate. Il mio ragionamento però non riguardava l’illegalità o i casi-limite, ma il mercato alimentare nella sua “normalità”. Che i prezzi al dettaglio siano, in molti casi, soggetti a un vero e proprio dumping al ribasso, e i produttori spesso pagati allo strozzo, non lo dico io, lo dice la FAO. Il “sotto costo” è uno specchietto per le allodole, e le allodole siamo noi consumatori. Qualcuno mi ha scritto che comperare la metà e pagarla il doppio vuol dire spendere il quadruplo. Non direi proprio. Se la matematica non è un’opinione, vuol dire spendere la stessa identica cifra che si spendeva prima. Se comperavo dieci chili di cibo pagandolo cento, comperandone cinque chili a prezzo raddoppiato spendo sempre cento. Ho meno quantità ma più qualità.
Lo so, quella di Farinetti è una frase a effetto, uno slogan da venditore: per altro quello è il suo mestiere, vendere. Ma ha il merito (e siamo alla mia seconda precisazione) di fare uno zoom quasi brutale sul grande nodo della società di massa: quantità e qualità NON sono la stessa cosa. E pensare che la qualità debba essere riservata ai benestanti – non solo a tavola – è una forma di rassegnazione, o peggio di classismo.
E ora, sotto con le mail. Ho dato la precedenza a Chiara, tocca a lei aprire la lunga fila.
“Ho 26 anni e sono cresciuta in Sicilia. Io ci penso da giorni, alla storia di Satnam Singh, penso che è una responsabilità di tutti e tutte noi; leggo analisi tipo ‘se su questa bottiglia di salsa di pomodoro ci fosse scritto che è frutto dello sfruttamento di lavoratori e lavoratrici che guadagnano 3€ l’ora, la compreresti?’ La risposta immediata è: certo che no. Poi rifletto un attimo e mi viene da chiedermi ‘e allora cosa comprerei’? Cosa potrei permettermi di comprare vivendo a Milano, al momento da disoccupata e prima con uno stipendio netto da 1500€ al mese che spendevo per oltre un terzo in affitto? Ci ho provato a comprare prodotti dei presidi slow food, a km zero, frutto di filiere controllate, però, onestamente, non ci stavo dentro con i costi”.
“Potrei sforzarmi di trovare altre soluzioni, potrei fare un bel po’ di rinunce per fare una spesa che almeno in parte non sia il risultato dello sfruttamento. E so di essere in una posizione privilegiata, bianca, italiana, figlia di una famiglia dal reddito medio-alto, consapevole che molto difficilmente dovrò fare per vivere un lavoro logorante, da 14 ore al giorno, pagato 3€ l’ora. Ma non penso che il costo di questa consapevolezza dovrebbe ricadere principalmente sulla consumatrice finale. Che magari, sebbene su un altro ordine di grandezza e per altri versi, è vittima anche lei di un sistema Paese che si è dimenticato da un pezzo (o forse non l’ha mai saputo) cosa significa dare dignità al lavoro”.
Chiara
“Scusa la franchezza ma ‘bisogna mangiare la metà, pagando il doppio’ è la solita scusa che sento ripetere in continuazione per creare confusione e sviare l’attenzione. Una frase che dipinge le povere aziende agricole costrette a spremere ogni centesimo (pesantemente sussidiato) per poter sopravvivere in questo povero mondo. Vengo dalla zona in questione e, come tanti da queste parti, conosco tante aziende sfruttatrici e anche le poche – eroiche – aziende che pagano stipendi dignitosi ai loro braccianti, e a volte offrono loro anche alloggi altrettanto dignitosi. La differenza non è nel prezzo a cui vendono la merce al mercato di Formia. La differenza è che il proprietario dell’azienda virtuosa si muove in Panda invece che in BMW e Mercedes, e investe i profitti nella sua azienda e nei suoi lavoratori invece che nel comprare appartamenti per figli e per investimento. Prima di mangiare la metà e pagare il doppio, cominciamo a risolvere il problema. Poi vediamo se sarà necessario (come non credo) pagare il doppio.”
Davide
“La questione del barattolo di pomodori a 70 centesimi mi suona come un alibi per tutta la filiera del cibo. Se i lavoratori fossero pagati a contratto e lavorassero 40 ore alla settimana, se tutta la filiera pagasse tasse e contributi di legge, il barattolo potrebbe costare comunque 70 centesimi riducendo i guadagni enormi di chi, nella filiera, attualmente sta speculando in maniera incontrollata. Buttarla sui consumatori, come fa il sig. Farinetti, è un bel modo per salvare la classe speculatrice e lavarsi l’anima”.
Luca Colleoni
“Alla qualità, inevitabilmente rara e preziosa, preferiamo la sovrabbondanza a basso costo. Non è esente la politica, con la sbornia di populismo che asseconda la mediocrità stupida del tutto e subito, dei bonus a pioggia, invece di elaborare una visione a lungo termine. In questo contesto diventa difficile educare il popolo al valore (anche economico) della qualità, che si tratti di un film o di un pomodoro, rendendolo cosciente di tutto quello che questa implica: cura, tempo, impegno, salari adeguati e rispetto del lavoro. Nell’orribile vicenda di Satnam Singh spicca il becerume dei carnefici per i quali il valore della vita (degli altri) viene molto dopo il profitto, la dignità del lavoratore è una rogna da soprassedere, la sua morte un intoppo di percorso da rimuovere. La bramosia di quantità a scapito della qualità richiesta dal mercato non può e non deve assolverli in alcun modo. Sono e restano criminali. Detto questo, ottimizzazione degli sprechi e buone intenzioni a parte, potendo scegliere, quanti sono realmente disposti a mettersi le mani in tasca per pagare un pomodoro il doppio dell’attuale valore di mercato per preservare la qualità, compresa quella della vita del lavoratore? Credo che in questo caso il limite debba fissarlo la politica, correggere il problema affidandosi alla sola cultura la vedo dura…”.
Marco
“Non ho dubbi che se la passata di pomodoro continuerà a essere venduta a 70 centesimi al barattolo il caporalato continuerà a esistere. Ho parecchi più dubbi sul fatto che pagando il doppio i braccianti che raccolgono la frutta e la verdura che mangiamo (e gettiamo in quantità) questi vengano davvero più correttamente retribuiti. Le notizie che vengono dalla filiera della moda – dove certo il problema non è quello di tenere i prezzi al minimo livello – fanno pensare a un altro esito”.
Sergio
“Mi farebbe felice una filiera che fosse certificata ‘cruelty free’, magari localizzata (km zero o comunque regionale), ma che non sia necessariamente attaccata all’etichetta biologico. Tutti quelli che parlano di filiera corta sono subito e indistintamente biologici, biodinamici, no scie chimiche, raccolgono solo nei giorni dispari… Insomma, c’è stato un effetto del mercato per cui i prodotti o hanno tutte queste qualità o non ne hanno nessuna. E quindi o si compra il pomodoro del caporalato oppure si compra il pomodoro perfetto da Eataly, che guarda caso costa 10€/kg. Credo di non essere l’unico a richiedere una via di mezzo, ma soprattutto a richiedere uno standard, un bollino, un qualcosa anche a livello ministeriale che possa aiutare i consumatori a fare una scelta più informata, e che non sia così stringente da diventare una scelta solo per i più ricchi”.
Marcello, 29 anni
“Personalmente mi farebbe solo bene mangiare la metà. Ho solo una perplessità sulla seconda parte della raccomandazione: sono quasi certo che se pagassimo il doppio produrremmo una plusvalenza (plusvalore, avrebbe detto Carletto) che finirebbe nelle tasche dei soliti noti. Perché sta continuando a divaricarsi la forbice tra le classi abbienti e i diseredati, vanificando un paio di secoli di lotte, contestazioni, rivendicazioni e conquiste. I ricchi, i padroni, sempre più ricchi e i poveri, i proletari, sempre più poveri (scusa se insisto con questa nomenclatura demodé). Alla fine mi pare che il periclitante benessere del mondo occidentale continui a poggiarsi, oltre che sul consumo dissennato e devastante delle risorse naturali, sull’eterno sfruttamento dell’uomo sull’uomo, su uno schiavismo abolito sulla carta ma, nei fatti, ancora biecamente praticato”.
Alessandro Donnoli
“Mangiare la metà, pagando il doppio, dice Farinetti con la sua proverbiale arroganza, e giustificando in fondo in fondo (spero involontariamente) chi taglia i costi, soprattutto dei braccianti. No: bisogna mangiare il giusto pagando il giusto, ossia cercare di evitare tutti i ricarichi dei numerosi operatori che popolano la filiera. Troppi passaggi di mano, troppi guadagni facili, troppi costi (soprattutto di trasporto) gonfiati dalla criminalità organizzata. Noi non comperiamo mai prodotti ortofrutticoli nella GDO: solo dai produttori o da commercianti con filiera cortissima. Le fragole sono quelle di Pierpaolo (che non utilizza schiavi), i pomodori quelli di Antonio (che regolarizza i suoi braccianti), le arance sono quelle coltivate dall’altro lato della strada comunale, e così via. Inoltre: perché l’uva in primavera, le ciliegie a Natale, le pesche in autunno? Per quanto riguarda la passata: non c’è obbligo di indicare l’origine dei pomodori, quindi diffidate sempre!”
Mario
“Vengo da antenati coltivatori diretti, poi muratori, un’origine comune a tanti.
Fisicamente non riesco a staccarmi dalla terra, che curo in prima persona fin dove posso, affittandola a persone serie per il resto. In giro pullula quello che io, ben prima dell’invenzione del termine radical-chic, definivo fighettismo di sinistra. Non è detto che un prodotto che costa poco sia necessariamente cattivo né che uno caro sia necessariamente buono. La grande distribuzione, per cui ho lavorato per più di quasi 40 anni, effettua anche vendite sottocosto. E il giochino ‘costa caro quindi è buono ed etico’ ha fatto il suo tempo. Bisogna ricominciare anzitutto a consumare prodotti di stagione. E sapere di cosa si sta parlando. Si dedica troppo tempo a questioni secondarie e fumose. Ognuno davanti al suo tablet. Ed ecco riapparire i braccianti. Ah, servono ancora? La campagna non è un agriturismo in Toscana il fine settimana. Il sudore è importante. Sudiamo un po’ di più. Così oltre a diminuire l’apporto calorico aumentiamo il dispendio energetico individuale”.
Graziano
“L’idea del povero contadino costretto a sfruttare i braccianti per colpa della grande distribuzione brutta e cattiva è una sentenza frettolosa che ignora una realtà molto più complessa. Sostenere che prezzi più alti ai produttori significherebbero stipendi e condizioni migliori per i lavoratori significa ignorare l’esistenza della storia dei latifondi, dello sfruttamento dei contadini da parte dei grandi proprietari terrieri, della storia dell’agricoltura stessa. È come dire che se nelle piantagioni di cotone del sud degli Stati Uniti i proprietari terrieri avessero avuto un compenso da loro ritenuto equo, gli schiavi avrebbero ottenuto la libertà e un bel paio di pantaloni nuovi come bonus. La realtà è che esistono territori in cui lo Stato non si azzarda ad entrare, per paura, ma molto più spesso per interesse. Creiamo un ispettorato del lavoro europeo, che verifichi le condizioni dei lavoratori agricoli in Spagna, Grecia e Italia. Incentiviamo l’accorpamento delle aziende, capaci di meccanizzare i processi produttivi di prodotti di cui, con buona pace sua e di Farinetti, c’è e ci sarà molta domanda. La grande distribuzione organizzata, così come la globalizzazione, hanno tanti difetti, ma una persona intelligente come lei non può ignorarne i benefici. Provi ad andare col ditino alzato da una famiglia monoreddito con figli di una grande città rimproverando il mancato acquisto del pomodoro ramato di Roccacannuccia a 15 euro in confezione da 100 grammi, invece della passata da 500 grammi in promozione a 90 centesimi, che magari è fatta con pomodori olandesi raccolti meccanicamente da iper-aziende con complesse economie di scala. Non mi faccia il Lollobrigida, per favore”.
Gianni
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Siamo andati lunghi, lo so. Così lunghi che Zanzare Mostruose salta un turno. Non mi resta che augurarvi una settimana, se non magnifica, almeno bella. In alto i cuori, e i pomodori. A proposito: i miei, dopo la primavera da tregenda, alluvionale e freddina, si stanno riprendendo benissimo, e tra un paio di settimane dovrei poterne raccogliere i primi. Li venderò a me stesso a cento euro l’uno. Essendo il produttore e il consumatore la stessa persona, la partita di giro si conclude in perfetto pareggio.
Segnalo anche, in virtù delle memorabili piogge, una fioritura tardiva ed eccezionale di tutti o quasi i fiori di campo disponibili sull’Appenino nordoccidentale. Dalla camomilla dei tintori all’iperico, alla cicerchia, alla speronella, all’adonis, alla viperina, ai gigli, alle salvie di ogni ordine e grado, non c’è colore che manchi, in attesa del grande secco estivo. Quando i cani cercano di entrare in cantina per trovare buio e fresco. E io con loro.