Elia Finzi e la Tunisia
Domenica 16 settembre, a 85 anni, ci ha lasciati Elia Finzi, storico direttore del Corriere di Tunisi, il giornale in lingua italiana (l’unico rimasto nel mondo arabo) che guidava dal 1963. Nonostante i problemi di salute non aveva mai lasciato la direzione della testata, contribuendo a raccontare la Tunisia contemporanea con un particolare interesse per la recente rivoluzione dei gelsomini. Il mondo dell’informazione italiana all’estero ha perso un punto di riferimento, un uomo che ha rappresentato per la nostra comunità a Tunisi un pilastro e una guida insostituibile. Oltre a dirigere il giornale, su cui firmava in ogni numero l’editoriale “Nostri problemi”, Finzi è stato presidente del Comites e uno dei fondatori della FUSIE (Federazione Unitaria della Stampa Italiana all’Estero).
Il primo numero del Corriere venne dato alle stampe nel 1869, per poi essere chiuso durante il protettorato francese (1881-1956). Un silenzio lungo, dovuto anche alla volontà delle autorità coloniali francesi di vietare qualsiasi pubblicazione in lingua italiana. Il Corriere di Tunisi, dal marzo del 1956, anno in cui fu rifondato dal padre Giuseppe, non ha più interrotto le pubblicazioni, sebbene la comunità italiana si sia fortemente ridotta e nonostante le difficoltà economiche che a più riprese ne hanno messo a dura prova l’esistenza.
“Elia Finzi ha creduto sino all’ultimo nel dialogo tra le culture, tra i popoli, tra le persone. Ha lottato tutta la sua vita per mantenere viva la collettività italiana in Tunisia, dandogli una voce, quella del giornale, e crediamo che per lui e per noi oggi più che mai sia necessario assicurarne la continuità”. Questo è il messaggio inviato dalla redazione del Corriere e dai figli Silvia, docente universitario, e Claudio, più addentro all’attività di conduzione della tipografia di famiglia, pronti a raccogliere il testimone. Una storia che di parole, di ricordi e di menzioni ne meriterebbe tante.
Il mio incontro con Elia Finzi
Ero a Tunisi da poche settimane, nel mese di luglio dello scorso anno, quando mi recai in Rue de Russie per presentarmi all’Ambasciatore italiano e informarlo sulla presenza della nostra missione di osservazione elettorale in vista delle storiche elezioni tunisine previste nell’ottobre successivo.
All’ingresso della strada, venendo dalla stazione dei treni, di fronte al filo spinato che circonda la nostra ambasciata, mi ritrovai innanzi alla vetrina dell’“Imprimerie Finzi, fondata nel 1829”. Aveva chiuso da pochi minuti. Sbirciai dall’esterno. Qualche giorno dopo tornai, catturato dall’odore delle stampe che emanava dalle macchine tradizionali di un tempo. Entrai. Alle spalle delle due impiegate tunisine, sulla sinistra, una scala di meno di dieci gradini portava all’ufficio del signor Elia, che intanto si affacciò. Con la voce roca e il corpo affaticato: parlava lentamente, sorrideva facilmente. Mi presentai e mi permisi qualche domanda sulla storia sua e della sua famiglia e sulla Tunisia. La prima risposta fu facile: “la storia della mia famiglia la si può trovare sui libri”.
Album di famiglia
Giulio Finzi si trasferì da Livorno a Tunisi dopo il fallimento dei moti carbonari del 1820-21 a cui partecipò. Sbarcò nella Reggenza di Tunisi insieme ad altri profughi provenienti da vari stati italiani. Ben accolti dall’Autorità beylicale, ebbero un ruolo importante nella modernizzazione dello Stato tunisino. Avevano una formazione laico-democratica e contribuirono alla creazione di infrastrutture, tra cui tipografie, ospedali, banche, scuole laiche e militari. Nonostante si trovassero a volte in contraddizione con le autorità, considerati di matrice “eccessivamente liberale”, furono incoraggiati a stabilirsi in modo definitivo in Tunisia, dove la famiglia Finzi continuò a risiedere anche dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia.
Giulio Finzi, rilegatore di professione, nel 1829 aprì la prima tipografia privata in Tunisia. Inizialmente aveva sede nella Medina, in un lato del Palazzo Gnecco, celebre per aver ospitato la sezione di Tunisi della “Giovane Italia” di Giuseppe Mazzini e, per un breve periodo, nel 1838, Giuseppe Garibaldi. Dopo l’avvento del protettorato francese, la tipografia Finzi si spostò nella “città nuova”, in Rue de Russie. Nel 1956, con l’indipendenza della Tunisia, i Finzi ottennero finalmente l’autorizzazione a pubblicare “Il Corriere di Tunisi”, non concessa dai francesi.
Oltre ai lavori di stampa, la famiglia di Elia Finzi è stata ideatrice, con l’Ambasciata d’Italia, di un progetto di recupero della memoria italiana in Tunisia attraverso l’edizione di volumi che trattano alcuni tra i temi più significativi della storia della collettività, tra cui “Memorie italiane di Tunisia” e “Mestieri e professioni degli Italiani di Tunisia”. Fino al secondo dopoguerra gli italiani in Tunisia erano circa 80 mila, mentre oggi sono meno di 10 mila. Nel 2001 Elia Finzi e il figlio Claudio hanno aperto una nuova tipografia nella zona industriale di Tunisi, la Finzi Usines Graphiques, a scala più industriale e maggiormente corrispondente alle ultime innovazioni tecnologiche, mantenendo la storica sede in Rue di Russie.
…e la Tunisia?
Per la seconda questione, rimandammo ad un’altra occasione. Era quasi ora di pranzo, il signor Elia stava per rientrare a casa e la sua condizione non gli permetteva di restare in bottega più di quanto facesse. E da allora passavo a salutarlo tutte le volte che mi recavo in ambasciata o in centro città. Ogni occasione significava apprendere qualcosa sul tempo che viviamo, sul contesto tunisino e sul sentimento di molti italiani residenti all’estero: un po’ stranieri, molto italiani. Significava riflettere sulla buona accoglienza ricevuta dagli italiani che fuggivano alle conseguenze dei moti ottocenteschi e sulla morte e il rigetto che incontrano i tunisini e gli altri maghrebini che vengono da noi a cercare la loro primavera. Ma di Elia Finzi colpiva, ad oltre ottant’anni, la volontà di innovare, di percorrere nuove strade, di aprire ponti e dialogo con i giovani.
Qualche settimana prima di lasciare la Tunisia, andai a trovarlo (e intervistarlo) insieme all’amico Peppe Provenzano. Fu un incontro di circa due ore durante il quale si aggiunsero sua moglie Lea prima, e poi Emanuela con il nostro piccolo Claudio, che aveva appena dieci mesi e incontrava la Storia.
Intervista con Elia Finzi, Tunisi, 12 novembre 2011
(dal reportage di Provenzano pubblicato sull’inserto del Riformista di domenica 8 gennaio 2012)
La suggestione di questi due secoli di storia, aneliti di libertà e repressioni politiche o religiose, si faceva immagine per le strade di Tunisi. Un gioco a nascondersi e a specchiarsi con «l’altro», un groviglio di rimandi e coincidenze – le più banali e inquietanti: Primavera araba e crisi dell’Europa, spread in Piazza Affari e sangue a Piazza Tahrir – mi ha condotto per rue de Russie, oltre le balle di filo spinato che circondano l’ambasciata d’Italia, alle porte aperte del palazzo di fronte, sotto l’insegna “Imprimerie Finzi”.
«All’inizio del Novecento qui era una palude, mio nonno ci veniva a caccia». Non dice, Elia Finzi, il vecchio patriarca della comunità degli italiani in Tunisia, stampatore da cinque generazioni ed editore (la cui attività ora è proseguita, più industrialmente, dal figlio Claudio), quanto dev’essere costato al nonno Vittorio e al padre Giuseppe, lasciare la prima sede della stamperia del 1829, il palazzo Gnecco nel cuore della Medina, per «la città nuova, che gli italiani contribuirono a costruire», per questo edificio che vide la prima linotype del Maghreb e che ora è la sede del Corriere di Tunisi. Il vecchio Elia, ottantasette anni, lo dirige con tenacia e ci accoglie nel suo studio rialzato. «Quel palazzo nella Medina era luogo di esuli politici, mazziniani e liberali, fuggiti dall’Italia prima del 1848». Giulio Finzi fu uno dei primi ad arrivare, carbonaro livornese scappato ai fallimenti dei moti del ‘20 e ‘21. «Vi si costituì la Giovane Italia e ci passò anche Garibaldi, costretto poi a fuggire per aver insidiato tutte le belle signore dell’alta borghesia tunisina».
Elia parla con voce roca, fioca, in un bellissimo italiano depurato da ogni inflessione che lo rende po’ straniero. «La storia della mia famiglia la trova sui libri», taglia corto. Grandi idealisti, laici e democratici, «veri eredi della Rivoluzione francese», animatori della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, «cittadini del mondo» che hanno attraversato tutte le vicende politiche italiane e tunisine degli ultimi due secoli: il Risorgimento e il regime beylicale, il Fascismo e il protettorato francese, la Repubblica e l’indipendenza tunisina, Bourghiba e Ben Alì, Craxi e Berlusconi. «Non è stato certo facile. Durante la guerra, noi eravamo nemici di tutti». Sulla storia che ripercorriamo, avverte l’uomo cresciuto a pane e tolleranza, non ha giudizi da esprimere, «solo opinioni». Così sulla Primavera, sui Gelsomini: «esattamente un anno fa, in quei giorni, mi trovavo tra la vita e la morte, in un letto d’ospedale». Da lì, dettava editoriali incoraggianti alla Rivoluzione per il suo giornale e diceva al figlio, pur nell’incertezza e crisi di liquidità, di trovare il modo di «continuare a pagare gli operai», gli oltre cento tunisini che lavorano nella loro impresa. «Certo che si può essere imprenditori di sinistra», sorride. Parla di pane e lavoro, pance troppo piene e pance vuote: «non è solo la libertà, è anche la giustizia sociale. Qui era una pentola a pressione. Era evidente che sarebbe esplosa. L’Europa era distratta».
È più di un’ora che siamo nella stanza. Alle pareti le sue foto con Pertini e con Napolitano. «E quindi se n’è andato davvero, quello là?», e quasi non ci crede. «Come finirà qui, chi po’ saperlo? Chi poteva immaginare che dopo il 1789 sarebbe arrivato il terrore…». Non gli manca certo l’entusiasmo, eppure frena i nostri, per prudenza. Sale lenta per le scale, con sobria eleganza d’abito e d’occhiali scuri, la signora Lea. Interviene decisa nella discussione, e ci invita risoluta a non fare troppe domande: «basta andare davanti a una qualsiasi Moschea». È francese, la signora Finzi, e si capisce. Ha origini genovesi, «e chi non ha origini italiane»? Torniamo a parlare d’emigrazione. Allora riprendo le suggestioni, azzardo il parallelismo – quasi personale, stavolta – tra quel suo avo e i compatrioti fuggiti per la lotta nel Risorgimento italiano ed europeo, Primavera dei popoli, accolti in Tunisia dove hanno prosperato, e quei ragazzi tunisini e arabi che, nei giorni della loro Primavera, rinchiudevamo a Lampedusa o a Manduria. «Loro ci hanno aperto le porte. Noi invece le sbarriamo». E com’è che in Tunisia non se ne parla? «Tra la gente del popolo, la tragedia si sente». Mi invita a sporgermi dalla finestra. Di fronte, è l’ambasciata. «Lo vedi il filo spinato? Tutti i giorni venivano le madri a gridare, a chiedere dei loro figli».
S’è fatto tardi, ora. Elia forse s’è stancato. «Spiace, alla mia età, non poter seguire la situazione a lungo, in pieno». Nella stanza, è il piccolo Claudio, figlio di Emanuela e di Michele, osservatore internazionale per il processo costituente. Il suo primo anno lo ha trascorso in Tunisia. Piange forte e si dimena, non sente ragioni. S’è stancato pure lui. Elia lo guarda, azzurro negli occhi. «Hai ragione tu».