Il paese più sviluppato del terzo mondo
La differenza tra l’Italia e il resto del terzo mondo risiede nel fatto che mentre la stragrande maggioranza di quest’ultimi ha una voglia matta di crescere e migliorare, l’Italia no, almeno non credo. E non mi riferisco alle minoritarie eccellenze, oggi giorno spettatrici sofferenti del declino nazionale. L’Italia, la maggioranza degli italiani, a mio amaro avviso, vive la sua dimensione di arretratezza e impoverimento progressivo facendo assai poco per invertire il circolo vizioso in cui si è imbattuta. Certo, siamo pur sempre tutti commissari tecnici e ognuno di noi pensa di avere lo schema giusto per vincere la partita. Ma intanto il paese invecchia a ritmi galoppanti mentre il resto del terzo mondo propone orde di giovanissimi che, al contrario di noi italiani, hanno prospettive di vita migliori di quelle dei loro genitori. L’Asia cresce a dismisura, l’Africa cresce costantemente nonostante la condizione di estrema povertà in cui versano molti dei suoi abitanti, e l’America Latina presenta una classe media emergente che non ha eguali in nessun altro luogo.
Non mi si venga a dire che le ultime elezioni amministrative nostrane portino con se la voglia di cambiamento e il sussulto di popolo necessari a rigirare il paese come un calzino e dare vigore all’impeto di crescita. No, non ci credo, non nelle proporzioni in cui molti in questi giorni descrivono gli eventi elettorali di quest’ultimo mese. O meglio, se un sussulto c’è, è piuttosto il rigetto del pagliaccio nazionale, cioè internazionale, di cui davvero non se ne può più… e difatti sono in primis i ‘suoi’ che lo stanno abbandonando. Piuttosto, le ultime elezioni hanno punito un governo serrato in se stesso, come è avvenuto in ogni elezione dell’ultimo ventennio che non ha mai premiato il governo in carica/uscente. Rimangono dei casi virtuosi di affermazioni elettorali che danno speranza per un miglioramento della classe dirigente e della qualità della proposta politica, su tutti il caso di Milano.
Ma ora vengo al punto. E in questo post vogliamo esprimere solo alcune piccole considerazioni sui referendum appena celebrati (felicemente). Il superamento della soglia di sbarramento del 50% degli aventi diritto al voto in occasione dei quattro referendum è certamente una buona notizia per l’Italia e per la vitalità democratica che tale dato esprime. Era oramai dal 1993 che ciò non accadeva e tale impresa sembrava sempre più proibitiva alla luce del distacco crescente tra cittadini e politica, tra partiti e cittadini a fronte di un disinteresse alla cosa pubblica crescente e di una società italiana sempre più individualista e qualunquista. La percentuale del 57%, inoltre, non lascia alcuna scusante agli astensionisti, ergo il governo. Infatti, se in occasione delle recenti elezioni amministrative malamente perse dal PDL e i suoi alleati, Berlusconi si era parzialmente rifugiato nella delazione dei candidati in lizza per il suo schieramento, in questo caso non può appellarsi a nulla… se non all’effetto Fukushima!
Inoltre, fa bene notare che sui voti espressi, i ‘no’ rappresentano all’incirca il 5% che, sottratto al 57% del totale, consegna un bel 52% netto di ‘sì’: come dire, una vittoria al primo turno! Fa bene, inoltre, che in tutte e venti le regioni italiane sia stata superata la soglia di sbarramento, compresa la cenerentola Calabria che ce l’ha fatta in extremis.
Ciò premesso, però, rimangono evidenti alcune questioni che rendono il ricorso all’istituto referendario così come regolato dall’art. 75 della Costituzione assai anacronistico rispetto ai mutamenti avvenuti nella società e al ruolo svolto dai partiti nella mobilitazione delle masse, surclassato dalla diffusione della rete e dei social network. Tra le tante riforme non realizzate in Italia negli ultimi vent’anni, quindi, c’è da annoverare il mancato aggiornamento dell’istituto referendario, consultivo o abrogativo che sia.
Il referendum, paradossalmente, risulta anche in una mortificazione delle ragioni del no, fermo restando che i contrari godono di un ingiusto e indiscutibile vantaggio comparato rappresentato dall’astensionismo. Non è secondario, a mio avviso, che una riforma seria del referendum si realizzi nel senso di favorire un vero e serio dibattito sui contenuti a favore o contro i quesiti posti al voto.
Nella fattispecie, questi referendum hanno rappresentato un ulteriore suddivisione del paese in pro o contro Berlusconi. Ammesso quindi che il premier abbia subito un altro sonoro schiaffone popolare e conto tenuto che il quesito sul ‘legittimo impedimento’ fosse un argomento tutto a lui riferito, è questione di onestà intellettuale riconoscere che almeno due degli altri tre quesiti avrebbero visto l’opposizione del centrosinistra qualora questi fosse stato al governo. Sul quesito nucleare, invece, il centrosinistra si sarebbe puntualmente diviso.
Come tutto ciò che in Italia accade o non accade, il voto referendario è stato eccessivamente condizionato dall’(in)azione del governo in carica e dal ruggito dei suoi oppositori che nell’appuntamento elettorale hanno colto un ulteriore opportunità per colpirlo. Rimane comunque mia convinzione che molti cittadini siano andati a votare sui principi di rigetto del nucleare e dell’idea che l’acqua possa essere mercificata al pari di qualsiasi altro bene.
Quanto al tentativo di partitizzazione da parte di forze minori, pressoché inesistenti nel tessuto elettorale italiano (ma non di coscienza civica), si evidenzia il disperato tentativo di alcune formazioni, come i Verdi e la Federazione della Sinistra, di ottenere visibilità da una battaglia che non è solo la loro ma va molto al di là di essi. Non credo infatti che se oggi andassimo alle urne per le politiche, i partiti suddetti otterrebbero molto di più del consueto 2-3%. Piuttosto, riflettano sul possibile effetto deterrente che avrebbero potuto esercitare nell’indurre magari a non andare votare quel cittadino italiano che sebbene convinto della giustezza dei quesiti proposti, non accetta di vedersi identificato con falci e martelli e soli ridenti per avvezza attitudine di principio.
Infine, quanto al voto degli italiani all’estero: assunta la grande innovazione introdotta nel 2006 che riconosce diritto al voto ai nostri connazionali residenti all’estero e iscritti all’AIRE, la questione che qui si solleva è la seguente: è opportuno che un italiano residente a New York, a Kathmandu o a Buenos Aires abbia da esprimersi sulla disciplina del servizio idrico nel territorio italiano cui egli non è legato da questioni tributarie e amministrative come invece lo è per quanto riguarda i diritti di rappresentanza politica e cittadinanza?