Let’s Dance
Ci siamo, è iniziata anche quest’anno la “follia marzolina” meglio conosciuta come March Madness, ovvero il torneo di basket universitario a eliminazione diretta. L’incombenza numero uno – per ogni appassionato che si rispetti – è quella di compilare il proprio bracket. Trattasi di madornale trappola che ti espone a colossali figure di niente, nel tentativo di indovinare pronostici spesso impossibili per cercare la squadra “highlander” (“ne rimarrà solo una”) che delle 64 di partenza sarà l’unica a potersi fregiare del titolo di campione NCAA 2012.
Quest’anno mi ero ripromesso di gettare nella tazza di ceramica bianca ipotetiche competenze e fare come Julie, diventata – per il breve spazio di un mio pomeriggio – il modello assoluto di riferimento. Chi è Julie? Julie è “la tizia delle Risorse Umane” che – almeno stando a sentire quelli di McSweeney’s – ha trovato la giusta formula per sbaragliare la presunta competenza di tutti i suoi colleghi (in maggioranza maschietti) e azzeccare gran parte dei pronostici. Come? Semplice: farsi un baffo della logica (e quindi dei valori in campo, delle statistiche, dei precedenti, dei record…) e abbracciare un approccio più “completo”. Tipo: Julie fa vincere Butler (Università dell’Indiana, Nota dell’Autore) perché le ricorda il supermercato dove compra le mele, chiamato “Butler’s Orchard”. Julie valuta in base al colore delle maglie o alla simpatia delle mascotte. Julie sceglie un college perché lì ha studiato un suo amico. Un altro perché il playmaker assomiglia a suo fratello. Un altro ancora perché, in un’intervista, le è capitato di leggere che il libro preferito di quell’allenatore è Il buio oltre la siepe, quello che ha sempre adorato. Perché la logica è sopravvalutata, contano anche le emozioni.
Perfetto, mi sono detto. Andata! Quest’anno faccio così anch’io. Per cui, North Carolina campione, che quelle maglie color del cielo mi hanno stregato fin da piccolo (potrebbe anche starci, Harrison Barnes è tra i primi 5 talenti d’America e Kendall Marshall passa la palla come un piccolo Jason Kidd). Duke invece – gli eterni rivali dei “miei” Tar Heels – verranno eliminati in fretta, anche se in Austin Rivers hanno un giocatore pazzesco, pronto a farsi 15 anni di NBA da protagonista. Magari – anzi, senza magari – fatti fuori da un’altra squadra che quest’anno mi piace da morire, Baylor. I Bears hanno due talenti giovani fantastici (Perry Jones III – già finito sulla copertina del magazine del New York Times – e Quincy Miller) e vengono da Waco, in Texas, posto noto più che altro per il rogo dei Davidiani di una ventina di anni fa. A quelli di Syracuse, invece, perdono la zonetta bulgara che schierano 40 minuti su 40 in nome dello splendido arancione delle loro maglie e – di conseguenza – di tutti i loro tifosi sugli spalti, che formano un colpo d’occhio straordinario ogni volta che scendono in campo.
Sostituite il giallo all’arancio e lo stesso vale anche per quelli di Michigan, college che nel mio cuore ancora vive di rendita dai tempi dei “Fab Five”, ovvero la squadra che – insieme alla UNLV di inizi anni ’90 – mi ha entusiasmato di più negli ultimi 30 anni. Oggi i Wolverines di Michigan sono guidati da un figlio d’arte, Tim Hardaway Jr. e siccome il padre – super nei suoi anni NBA con Golden State – mi piaceva assai come playmaker, secondo la teoria di Julie Michigan dovrebbe diventare una squadra da “cavalcare” in questo bracket.
A proposito di figli d’arte: ce ne sono due, i Pressey (Matt e Phil), a guidare i Missouri Tigers, raccogliendo l’eredità di papà Paul (che però frequentò il college di Tulsa), autentico signore dei parquet NBA negli anni ’80. Mizzou gioca il basket più divertente dell’anno, a trecento all’ora, ma il tabellone li mette in rotta di collisione al secondo turno con Florida, dove c’è un altro dei miei pupilli stagionali (Bradley Beal) e dove “l’alligatore” che dà il nome alla squadra (i Gators) è una delle migliori mascotte in circolazione (vero Julie?). Senza uscire dai confini dello stato, i Florida State Seminoles hanno dalla loro uno dei “canti di guerra” più belli dell’intero college basket (con l’avambraccio di ogni singolo tifoso che si abbassa, a mimare l’ascia che colpisce) e il fatto di presentarsi al torneo NCAA caldissimi, dopo aver battuto Duke e North Carolina in successione (mi sembra di sentirla, Julie, mentre mi dice di fidarmi di loro e preferirli sia a Ohio State che a Syracuse).
Ancora: quelli di Kentucky sono i “giovani, carini e (non) disoccupati” del tabellone a 64 (nonché i veri favoriti del torneo, forse). Hanno tre giocatori al primo anno uno più forte dell’altro (Anthony Davis dovrebbe essere la prossima prima scelta assoluta NBA, Marquis Teague è un playmaker migliore di quello che sembra e Michael Kidd-Gilchrist rischia a mio avviso di rivelarsi il più forte del lotto), sono bellissimi da vedere (corrono, saltano e schiacciano tutto il tempo) e – per quanto riguarda la loro occupazione futura – non è escluso che la NBA stacchi presto un assegno oltre ai tre di cui sopra anche ad altrettanti compagni (a Terrence Jones di sicuro, magari pure a Doron Lamb e Darius Miller).
Insomma, detto tutto questo, seguire il cuore invece del raziocinio per compilare il proprio bracket sembra meno difficile e più divertente del previsto. Ce l’ho fatta? Neanche per idea. Nel mio bracket alla fine vince Kentucky, Carolina e Syracuse non arrivano neppure alle Final Four e Florida esce al secondo turno nonostante Mr. Beal. Se non centro qualche pronostico neppure quest’anno, giuro però che dal prossimo abbraccio sul serio la teoria di Julie.