La mia storia di fine anno
Partiamo dalla fine. Di una partita, di una stagione, di un sogno. La partita è gara-7 delle finali di hockey NHL – il massimo dell’adrenalina, “la bella”, la gara senza futuro, un Superbowl sul ghiaccio. La stagione è quella dei Vancouver Canucks e dei Boston Bruins, le due squadre giunte fino in fondo, ognuna dopo 100 partite, 100 battaglie per arrivare a giocarsi il titolo, una contro l’altra. Il sogno – come in Schnitzler – è doppio: per i Canucks vuol dire vincere la loro prima Stanley Cup di sempre, per i Bruins riportare il trofeo a Boston dopo 39 anni. Tutto è pronto, alla Rogers Arena di Vancouver non c’è neppure un biglietto invenduto. Chi non è tra i 18.860 fortunati si accalca nella downtown cittadina, dove tutto è stato organizzato per accogliere fino a 32.000 tifosi. Solo che quel numero viene già raggiunto un’ora e mezza prima dell’inizio di gara-7. Poi ne arrivano altri. E altri. E altri ancora, al ritmo di 500 persone ogni 90 secondi.
“Per via dell’instabile situazione che si è venuta a creare a Downtown Vancouver, vi consigliamo fortemente di non raggiungere il centro città fino a prossima segnalazione”. Gli annunci sui monitor degli Sky Train parlano chiaro. Ma non servono. Entro fine serata saranno oltre 155.000 le persone raccoltesi a downtown, davanti ai maxischermi, per festeggiare il possibile trionfo. Scott (lui, 29 anni) e Alex (lei, 24) non sono certo grandi tifosi di hockey, ma se la Storia è lì che ti passa affianco, ignorarla è da stupidi. Niente Rogers Arena, ma tutti a casa di un amico nel West End, poco lontani da downtown, per gustarsi gara-7 in compagnia davanti alla TV. Chi invece alla Rogers Arena c’è – chiamato a fare il suo dovere – è Rich, 36 anni, nato e cresciuto a Vancouver, fotografo freelance per Getty. Le sue immagini di quella storica gara-7 sono tra le oltre 9.000 prodotte nella sola serata dal plotone di fotografi della sua agenzia, pronti a immortalare ogni singolo istante. Il via della partita, il primo goal degli ospiti, poi il secondo, il terzo e quindi il quarto (Patrice Bergeron e Brad Marchand vanno a referto entrambi con una doppietta, ma non saranno loro la coppia più celebre della serata), l’estasi dei pochi tifosi dei Bruins, la delusione sempre maggiore di quelli dei Canucks, il trionfo di Boston e la disfatta di Vancouver.
Quando tutto sembra finito, è solo allora che in realtà tutto inizia.
L’eco dei primi disordini in città arriva all’orecchio di Rich che lui è ancora al palazzo. Scott e Alex, invece, dal balcone della casa che li ospita possono vedere le fiamme e il fumo alzarsi dalle strade del centro cittadino. Chi per vocazione professionale (“Se sei un fotografo e tutti stanno cercando di abbandonare una zona, tu cerchi di entrarci”), chi per semplice curiosità, si dirigono tutti a downtown. Dove i disordini aumentano sempre di più, per intensità e gravità, trasformandosi presto in guerriglia urbana. Quindicimila atti violenti, duemila chiamate in quattro ore al 911, il numero di emergenza, centocinquanta feriti, altrettanti arresti. Un vero e proprio “riot”, il più grave nella storia degli sport americani. Che avrà, loro malgrado, tre protagonisti – Rich, Scott e Alex – che senza saperlo si ritrovano a pochi metri gli uni dagli altri, tra strade che di nome fanno Seymour, Georgia e Robson. In un punto dove, esasperata dalla situazione, la polizia decide di caricare, per disperdere la folla, usando una tattica ereditata dagli eserciti degli antichi Romani.
Mentre loro avanzano, compatti, spalla contro spalla, Rich li precede fronteggiandoli, la sua fotocamera in mano. Scott e Alex si voltano per correre e fuggire, ma lei cade. In un attimo la massa di agenti è su di loro, tra manganelli, scudi e gas lacrimogeni. Basta un altro attimo, però, ed è già oltre. Tutto finito, o quasi. Perché sull’asfalto, in una strada di colpo deserta, rimane il corpo travolto di Alex e accanto a lei, ancora in piedi, quello del suo fidanzato Scott.
Quando tutto sembra finito, è solo allora che in realtà tutto inizia.
Alex urla a terra spaventata, Scott si china per consolarla, Rich mette mano alla sua Nikon. Duecento, la lunghezza focale. Due punto otto, il diaframma. Seimilaquattrocento di ISO. Uno scatto. Un quarantesimo di secondo perché l’otturatore si apra e chiuda. Il tempo di un bacio. “Couple kisses during Vancouver riot”. È questa la didascalia con cui l’immagine viene archiviata e spedita in giro per il mondo.
Per un attimo, in una strada del centro città di Vancouver, Klimt incontra Romeo e Giulietta.
Si erano conosciuti soltanto alla fine del 2010, lui appena arrivato dall’Australia con un visto di lavoro, lei alle prese con la sua solita vita, a Vancouver. Tre giorni dopo quella gara-7, avevano in programma di partire per un viaggio, giù sulla West Coast americana, al sole della California. Da lì, infine, sarebbero volati assieme in Australia. Lui era cresciuto a Melbourne e a Melbourne voleva far ritorno, con lei. Lì, oggi, sono tornati anche alla loro vita, di sempre eppure nuova. Lui lavora in un bar, lei è ingegnera. Sono “Riot Romeo” e la sua Giulietta del terzo millennio, ma pochi – tra gli amici e i colleghi – lo sanno. Per loro sono, semplicemente, Scott e Alex. Con un 15 giugno 2011 e una gara-7 da ricordare per sempre.
– Il bacio in mezzo alla sommossa
– Il bacio di Vancouver era vero
(Rich Lam/Getty Images)